4
La formazione, derivante non solo dall‟acquisizione della conoscenza ma anche dalla riflessione
scaturente da quanto si è appreso, deve essere posto come riferimento, a chiunque decida di
esprimere un giudizio sensato e coerente con l‟ambito disciplinare affrontato.
Solo una formazione attenta e accurata, qualora si desideri discutere su di un qualsiasi argomento,
può realmente rappresentare il discrimine tra una affermazione che è coerente con l‟argomento
posto ed una che invece non lo è.
In merito al valore inalienabile della proprietà privata che, come detto, spesso viene additata dal
sentire comune come l‟origine di tutti i mali moderni, non potrebbe essere accusata di alcunché,
qualora l‟uomo ne comprendesse il ruolo etico e morale che ha avuto e che tutt‟ora nella ha crescita
umana.
Utile al proseguo della riflessione è il criterio di valutazione etica esposto da Robert Nozick,
all‟interno della sua opera Anarchia, stato e utopia, all‟interno del rapporto intercorrente tra una
teoria della giustizia coerente con le aspettative individuali e il principio della proprietà privata.
I tratti generali di una teoria della giustizia nella proprietà sono che la proprietà di una persona è giusta se la
persona ha diritto ad essa in virtù dei principi di giustizia nell’acquisizione o nel trasferimento, o del
principio di rettificazione dell’ingiustizia (così come specificato dai due primi principi). Se la proprietà di
ciascuno è giusta, allora l’insieme totale (la distribuzione) della proprietà è giusta2.
Quindi tale principio non è, come invece è correntemente riportato dal sentire comune, ingiusto, in
quanto prevede che il suo godimento sia susseguente a due considerazioni fondamentali di ordine
etico da tenere sempre bene in mente: 1) la prima prevede che questo diritto ha luogo tra una
persona ed un'altra solo grazie all‟acquisizione o al trasferimento del diritto legittimo su di un bene;
2) la seconda invece prevede che questo diritto può avere luogo anche come parziale risarcimento,
dopo aver avuto in precedenza un ingiustizia tale da richiederne il suo utilizzo.
Quindi l‟atto dell‟acquisizione di un qualsiasi diritto di proprietà su una qualunque bene suscettibile
di valutazione economica, è frutto di un‟azione etica che, se condotta secondo le regole, può
apportare solo notevoli benefici a chi ne è il destinatario.
Ciò dimostra che la ricerca di una natura coerente all‟origine dei termini e dei valori, non solo deve
rappresentare la base attraverso cui avviare il percorso di formazione della propria opinione, ma
deve pure rappresentare lo strumento attraverso il quale formulare i giudizi su di una data questione.
Qualora difatti si estrapolasse una qualsiasi forma di principio dal contesto in cui viene espresso, si
rischia di ottenere un quadro incoerente con la realtà, tale per cui è difficile comprendere il reale
corso degli eventi.
Il sentire comune, fortemente influenzato da una dinamica contemporanea poco incline alla
riflessione, facendone delle errate visioni una bandiera, ha finito per utilizzarle quasi come un
“ariete” con cui scardinare qualsiasi fondamento normativo e morale.
La proprietà è intangibile, nessuno, dopo averne acquisito il possesso in qualsiasi modo, può
solamente pensare di regolarne l‟uso o di indirizzarne l‟utilizzo per il conseguimento di un più alto
obbiettivo comunitario da conseguire.
2
ROBERT NOZICK. Anarchia,Stato e Utopia. Trad. it. a cura di G. Ferranti. Ed. il Saggiatore, Milano, 2000. Pag.163.
5
Pertanto, quando lo stato richiede la contribuzione necessaria per organizzare ed effettuare i servizi
utili alla convivenza, il cittadino – contribuente tende sempre a ridimensionare il suo apporto,
coltivando nel suo pensiero la convinzione di aver dato più di quanto sia dovuto3.
Lo stato è una fonte inesauribile di sperpero, per antonomasia, in quanto non solo promuove spesso
politiche che non apportano alcun frutto al benessere comune, ma oltretutto osa, per coprire le
proprie manchevolezze, intromettersi su ciò che si è guadagnato; quasi che lo stato sia quel
Leviatano che tutto divora e che nulla da, spingendosi solo ad intralciare qualsiasi iniziativa con
leggi e ostruzionismi vari.
Dimenticandosi però che lo stato, così come la nazione, non sono solo le istituzioni, ma, in un
sistema democratico, sono tutti i cittadini, i quali sono chiamati a vigilare attentamente alla
realizzazione e alla messa in profitto del bene comune. È che inoltre un maggior livello di efficienza
è perseguibile non tanto solo con lo snellimento dell‟apparato burocratico, ma anche con proficui
investimenti che diano i mezzi per operare con una maggiore efficienza.
La diffusione di false rappresentazioni di situazioni reali, legate alla crescente parziale
informazione o disinformazione addebitabile sia alla pigrizia intellettuale dell‟individuo
nell‟accedere al mondo delle notizie direttamente dalla fonte e sia al criterio di affidarsi troppo sul
sentire comune, potrebbero essere l‟origine di errate concezioni che stanno alla base dell‟attuale
processo di crisi.
Strano a dirsi, in una società come l‟attuale che basa la sua crescita futura proprio sull‟informazione
e la conoscenza, ma queste informazioni hanno finito per prevalere sull‟ottica di analisi reale
dell‟uomo moderno.
Un fabbricato però mal costruito, prima o poi è destinato a crollare. Un castello di false
rappresentazioni, oltretutto carente di basi intellettive, non può rappresentare il fondamento di uno
sviluppo preordinato e sostenibile dell‟ambito sociale.
L‟attuale vuoto etico della società odierna conferma l‟affermazione esposta, dato che il tentativo di
dissociare l‟ambito economico da considerazioni inerenti tale natura negli anni passati può essere
considerata come una diretta conseguenza dell‟attuale situazione.
Un ulteriore conferma inoltre sopraggiunge dalla considerazione espressa da Amartya Sen,
all‟interno dell‟opera Etica ed Economia, dove egli afferma che la teoria economica è stata per
lungo tempo trattata come una sorte di branca dell‟etica.
Il fatto che sino a poco tempo fa a Cambridge l‟economia fosse insegnata semplicemente nel corso di Scienza Morale,
non è che un esempio della diagnosi tradizionale sulla natura dell‟economia 4.
3
Naturalmente con ciò non si vogliono giustificare sistemi fiscali squilibrati presenti in paesi fiscali come l‟Italia, dove
il tasso di imposizione fiscale ha oramai raggiunto e superato oltre il 30% dell‟imponibile. Ma è comunque importante il
rilevare un giudizio che, unanimemente viene espresso o, quantomeno, pensato da buona parte del sentire comune
globale.
4
AMARTYA SEN. Etica ed economia. Trad. it. a cura di Salvatore Maddaloni. Ed. Laterza, Roma – Bari, ultima
edizione marzo 2009, pag. 8.
6
Il distanziarsi da questa visione dunque, ha certamente indebolito la funzione storica che fin lì aveva
svolto la Scienza Economica, tanto da spingerla in una visione non confacente del tutto confacente
con la realtà e con le peculiarità del tempo presente.
D‟altronde, come giustamente sostiene Charles Taylor, nel suo volume il disagio della modernità,
riformulando le classiche tesi di Hegel sull‟eticità esprime così il suo disagio verso la modernità,
Una società non è riducibile alle transazioni fra individui atomisticamente concettualizzati5..
Lo scopo della presente riflessione e ricerca sarà quindi proprio quello di comprendere e di
prospettare un nuovo modo di agire economico, che sia il più coerente possibile con le inclinazioni
e le profonde aspettative che caratterizzano l‟uomo.
Il presente lavoro è suddiviso in tre parti, in ognuna delle quali è sezionata e sotto sezionata in
capitoli e paragrafi, al fine di renderne più agevole la lettura.
La parte prima è totalmente dedicata all‟analisi dei fattori produttivi ed alla sua evoluzione nel
corso del Novecento, a partire dall‟introduzione del pensiero organizzativo fordista o taylorista,
sino ad arrivare all‟oggi e al metodo di produzione post-fordista o toyotista, in cui si assiste alla
sempre più accentuata scomparsa dell‟operaio tradizionalmente impiegato in fabbrica.
Particolare attenzione viene posta sull‟analisi compiuta nel rapporto intercorrente tra il consumo, la
produttività e il lavoro, nei cui complessi rapporti un ruolo rilevante è stato dall‟innovazione
tecnologica sia di processo che di prodotto.
Nella parte seconda invece, partendo da una approfondita riflessione tra le differenze e le assonanze
presenti nel parallelismo emergente tra il fattore progresso e il fattore crescita, si passa ad analizzare
successivamente le motivazioni di fondo che hanno sospinto la creazione delle attuali storture
economiche, a partire dalla corposa documentazione raccolta sull‟argomento.
Inoltre si presentano le soluzioni, legate alle leggi e alle credenze economiche classiche, avanzate
dagli autori che maggiormente ne hanno studiato il fenomeno, concentrando particolarmente
l‟attenzione sugli autori che hanno avanzato le tesi più innovative.
Nella terza parte infine si è passati ad analizzare tre prospettive, ciascuna legata ad un elemento che
sarà sempre più caratterizzante nel futuro l‟ambito socio-economico, le quali potrebbero condurre
alla fuoriuscita dall‟attuale stato di crisi.
Pur essendo tratte da filoni di pensiero parzialmente diversi, ma oltremodo convergenti negli
obiettivi, il capitalismo territoriale, il capitalismo naturale e il capitalismo sociale presentano non
solo un diverso modo di intendere la produzione o l‟agire economico, ma prospettano pure una forte
ripresa dell‟etica all‟interno della tematica economica.
Per una più attenta analisi e studio dei fenomeno presentati, il lavoro si avvarrà degli studi condotti
da economisti e studiosi dei fenomeni socio-economici in oggetto, che tanto tempo hanno dedicato
allo ricerca delle motivazioni della crisi (Rifkin, Krugman, Shiller, Akerlof, ecc.) o che in prima
5
CHARLES TAYLOR. Il disagio della modernità. Trad. it. di G. Ferrara degli Uberti,, Laterza, Roma\Bari, 1993, pag.
17.
7
persona (Stiglitz,ecc.) hanno vissuto lo svilupparsi del fenomeno, impostandolo su di un campo di
conoscenze economiche, politiche e filosofiche ben radicate all‟interno del pensiero
contemporaneo.
Inoltre, al fine soprattutto di calarsi nella realtà attuale, grande attività di ricerca è stata svolta
dall‟estensore nell‟acquisire via web, una tale quantità di dati reali atta a suffragare la tesi esposta
all‟interno del presente lavoro.
L‟autore coglie l‟occasione per ringraziare sentitamente il relatore Chim. prof. Fabrizio Sciacca per
la possibilità di poter trattare un argomento così complesso, la correlatrice Dott.ssa Grazia
Santangelo per la disponibilità avuta e il Dott. Vincenzo Maimone per la collaborazione continua e
l‟aiuto essenziale fornitomi ed espresso nel corso della realizzazione di tale lavoro.
Altresì l‟autore porge un affettuoso ringraziamento ai propri familiari e alla propria fidanzata per
l‟aiuto e, soprattutto, il sostegno morale fornito nel corso di cinque mesi di lungo lavoro fatti di
impegno e sacrificio nella realizzazione della presente ricerca.
8
PARTE I
CAPITOLO PRIMO
1.1 Descrizione generale del problema e sua origine
La grande crisi degli anni trenta del secolo scorso ha inciso, e non poco, sulla metodologia
produttiva fin lì posta in essere, poiché molto è cambiato con l‟introduzione di nuovi modi e tempi
di produrre. Sebbene la crisi inizialmente fosse solo finanziaria, infatti, pochi cambiamenti drastici
si registrarono tra il 1929 e il 1930 nel processo produttivo, gli effetti negativi in ambito reale
cominciarono a farsi sentire solo a partire dai primi anni trenta.
Come un castello di carte, tutto il panorama americano sembrava crollare senza soluzioni di
continuità sotto gli occhi attoniti di governanti e specialisti, che fino ad allora avevano idolatrato il
libero mercato quale unico luogo su cui poggiare i destini del mondo.
Inoltre essi si erano limitati, come dei vigili urbani addetti a regolare il traffico, ad osservare i
cambiamenti di enorme portata che stavano caratterizzando la società mondiale.
La crescita economica è divenuta la religione secolare delle società industriali in ascesa6.
proclamava con enfasi Daniel Bell. E mai affermazione fu più appropriata per meglio descrivere il
valore totemico e taumaturgico di cui la crescita economica aveva goduto fino a quel momento.
Il crollo di Wall Street fece emergere in un sol tratto le contraddizioni che fin lì avevano
caratterizzato la società americana.
Quali erano queste contraddizioni? Cosa aveva provocato un simile disastro? La bolla speculativa
immobiliare prima e finanziaria dopo certo, tuttavia essa non era stata la sola causa, anche perché
l‟economia non era nuova agli alti e bassi delle borse.
Quale fu quindi la causa per cui il mercato americano, che pure in ogni epoca si era mostrato
sempre dinamico, non seppe reagire tempestivamente allo stato di crisi?
In La fine del Lavoro Jeremy Rifkin addebita tali storture al conseguimento di un sempre maggior
livello di reddito:
Il mondo delle imprese perseverava nella convinzione di potersi appropriare dei maggiori profitti, di poter
deprimere i salari e continuare a pompare i consumatori per assorbire la sovrapproduzione. La pompa,
invero, cominciava a lavorare a secco. Le nuove metodologie di marketing e pubblicità erano riuscite a
stimolare il consumo di massa; comunque, non disponendo di un reddito sufficiente ad acquistare tutti i
nuovi prodotti che sommergevano il mercato, il lavoratore americano continuava a ricorrere al credito […]. Il
6
DANIEL BELL. The cultural contradictions of Capitalism. Trad. It. a cura di Nicolò Regazzoni. Ed. Mondadori,
Milano, 1998, pag. 10.
9
mondo delle imprese non era riuscito a capire che il proprio successo era la radice stessa della crescente crisi
economica7.
Alla perenne ricerca di utili con cui soddisfare le pretese degli investitori, le aziende dell‟epoca, non
tenendo conto delle richieste avanzate dai dipendenti, avviarono un ampio processo di
riorganizzazione interna volta ad abbattere i costi e ad aumentare la produzione.
Al fine di stimolare questo processo gli imprenditori avevano bisogno di capitali, anche per avviare
il processo di pubblicizzazione e marketing del prodotto come sostenuto da Rifkin, e quindi si
rivolsero alle banche. Entrando così di diritto nel gioco finanziario di Wall Street, poiché i debiti
contratti dalle aziende con e attraverso le banche avevano bisogno di essere alimentati dal mercato
azionario, cioè attraverso l‟utilizzo dei fondi risparmio versati dai consumatori presso le banche.
È necessario dire come fino alla crisi del ‟29 non esisteva una regolamentazione, che differenziasse
le diverse tipologie di istituto finanziario privato: le casse di risparmio o banche commerciali, che
accettavano i depositi, e le banche di investimento8, che invece non li accettavano.
Comunque la frenesia comportata da tale mole di investimenti, che diede origine ai famosi anni
ruggenti, cessò il 24 Ottobre 1929, quando il panico per una mancata restituzione dei prestiti alle
banche si diffuse tra gli investitori, che cominciarono a pretendere la restituzione del denaro
investito, con il conseguente crollo del mercato sia bancario che azionario.
La prospettiva fin qui adottata si propone di far comprendere sia la dinamica che portò alla Grande
Depressione, ma consente anche di spiegare come i cambiamenti produttivi, definiti labor saving,
applicabili sia alla natura del processo che al prodotto possano influire, in modo determinante,
sull‟andamento reale dell‟economia e della società.
Le istituzioni pubbliche americane, dal presidente fino all‟ultimo dei suoi consiglieri, non
compresero fino in fondo la gravità della situazione, sostenendo che per lo più si trattava di una
congiuntura negativa.
È del tutto evidente, infatti, che il sottovalutare le conseguenze economiche di un processo può
spesso indurre ad assumere un atteggiamento inadatto alle circostanze. D‟altronde i cambiamenti
sociali che avvengono a causa dell‟innovazione tecnologica, non sempre sono percettibili nel breve
periodo, mentre è più facile riscontrarli nel lungo periodo.
Riflettendo sulla nozione di Innovazione, si scopre che questo concetto non era stato ancora bene
correttamente definito, né dagli studiosi di economia, in relazione alle, e coerentemente con le, loro
teorie; né dagli epistemologi, che riducendo il concetto di innovazione a quello di invenzione, non
7
JEREMY RIFKIN. La fine del lavoro. Il declino della forza – lavoro globale e l’avvento dell’era post – mercato.
Trad. it. a cura di Paolo Canton. Edizioni Oscar Mondadori di Arnoldo Mondadori & C., Milano, 2002, pag. 55.
8
«Il Glass-Steagall Act separava le banche in due categorie: le banche commerciali, che accettavano depositi, e le
banche di investimento, che non li accettavano. Le banche commerciali erano soggette a pesanti restrizioni sui rischi da
assumere; in cambio avevano un immediato accesso al credito erogato dalla FED (la cosiddetta Discount Window); e
cosa più importante i loro depositi erano garantiti dal contribuente. Le banche d‟investimenti erano molto meno
regolamentate, ma ciò era sopportato perché, in quanto istituzioni che non accettavano depositi, non erano esposti alle
temutissime corse agli sportelli». PAUL KRUGMAN. Il ritorno all’economia della depressione e la crisi del 2008.
Trad. it. a cura di Nicolò Regazzoni e Roberto Merlini. Edizioni Garzanti, Milano, 2009, pag. 177.
10
ne capirono gli effetti più interni, limitandosi a lodare le nuove tecnologie e il loro impatto sui modi
di vivere della collettività9.
Con la parziale eccezione degli studiosi marxisti10, i quali tuttavia inquadravano l‟innovazione in
un‟ottica classista volta a far acquisire al capitalista sempre maggior potere sui mezzi di produzione
e quindi sulla società11, emerge che fino agli inizi degli anni ‟40 nessuna vera teoria era stata
prodotta per giustificare, e inglobare, l‟innovazione tecnologica nel processo produttivo.
Difatti per gli economisti classici, dall‟impostazione marginalistica dell‟equilibrio economico
generale (Walras e Pareto) a quella degli equilibri parziali (Marshall), l‟innovazione si riduceva ad
un fatto esogeno, certamente di grande rilievo per i sistemi economici, ma motivato e prodotto da
meccanismi che andavano analizzati e interpretati con strumenti teorici diversi da quelli economici.
In sostanza, gli economisti riducevano l‟innovazione a semplice innovazione tecnologica, in quanto,
come ha scritto Giuseppe Volpato
Ciò che interessa(va) non era il modo in cui venivano create le risorse, ma quello in cui venivano utilizzate ai
fini di massimizzare l’utilità collettiva12.
Va ascritto a J. A. Schumpeter il merito di avere elaborato, per primo, una teoria in cui veniva
approfondito non solo il concetto di innovazione, ma anche quello di diffusione dell‟innovazione
stessa.
In particolare egli nella sua analisi assegnò all‟innovazione la funzione di differenziare il
comportamento degli imprenditori e di consentire l‟acquisizione di un extraprofitto a quelli più
capaci. Un extraprofitto, però, temporaneo, che quindi non conduceva a una cristallizzazione di
vantaggi di natura monopolistica.
La realizzazione di questa costruzione teorica viene basata sulla costruzione di tre concetti
concatenati ma distinti:
1. l‟invenzione;
2. l‟innovazione;
3. la diffusione dell‟innovazione;
Benché invenzione e innovazione abbiano una radice comune nella creatività umana, la cui
vocazione, sin dai suoi albori, è di fornire delle soluzioni ai problemi che man mano si presentano, e
che dunque sembra essere connaturata nell‟uomo, è comunque necessario fare una distinzione.
9
Si pensi al Futurismo, corrente di pensiero artistico - filosofica nata in Italia nella prima metà del novecento con un
Manifesto, che esaltava il ruolo della vita moderna e delle macchine nel progresso umano, ma nei fatti non si
soffermava sugli effetti che queste potevano avere per il comparto sociale o socio-produttivo.
10
Vedi succ. pag. 33.
11
«Friedrich Engels aveva scritto che “Il progressivo perfezionamento dei macchinari moderni…è diventato una legge
ineludibile che obbliga il singolo capitalista a migliorare la propria dotazione di macchine, a incrementare la propria
forza produttiva … ma la dimensione del mercato non può tenere il passo con i volumi della produzione. La collisione
diventa inevitabile” ». J. RIFKIN. La fine del lavoro. Cit., pag. 57.
12
GIUSEPPE VOLPATO. Concorrenza, Impresa, Strategia. Edizioni Il Mulino, Bologna, 2008, pag. 392.
11
Per Schumpeter l’invenzione era un atto di conoscenza scientifica, che sebbene fosse utile alla
crescita del pensiero umano qualora trovasse una diretta applicazione pratica, tuttavia di per sé era
un‟azione non economica, in quanto discendeva dalla sola capacità dell‟inventore di aver ideato
quella idea. Un discorso diverso, invece va fatto riguardo all’innovazione e alla diffusione
dell’innovazione.
Difatti per il primo elemento era necessaria una riorganizzazione generale dell‟ambito produttivo, al
fine di sostenere la portata dei nuovi elementi introdotti. Dunque di per sé tale elemento
rappresentava la massima espressione dell‟agire economico, poiché presupponeva la realizzazione
di una nuova combinazione produttiva atta a garantire un ulteriore profitto.
Operando questa distinzione, Schumpeter teorizzò che per l‟innovazione fosse possibile una
realizzazione al di fuori di ogni invenzione tecnica, in quanto essa poteva anche riguardare,
semplicemente, la riallocazione di un prodotto con delle determinate funzioni da una mercato ad un
altro.
Scindendo e autonomizzando13 quindi i due elementi invenzione e innovazione, Schumpeter, per la
prima volta nella storia del pensiero socio-produttivo, considerò le due variabili sì collegate e
concatenate, ma comunque in una prospettiva distintiva che prefigurava invero una costante
interrelazione tra i due fattori14 e non una semplice sovrapposizione.
Un discorso simile si può fare relativamente alla diffusione dell’innovazione. Seguendo lo schema
fin qui esposto, l‟azione di tale fattore avrebbe permesso di salvaguardare la naturale
concorrenzialità dei mercati15.
Infatti, come già detto, il vantaggio tecnologico e innovativo detenuto da un‟azienda ha natura
temporanea, perché, una volta introdotto nel mercato un prodotto, nato da una tipologia produttiva
nuova, i concorrenti, spiazzati dall‟avanzamento tecnologico e sottoposti ad una pressione
concorrenziale sempre più crescente che porta nel breve periodo ad una perdita di posizioni nel
mercato, faranno di tutto per imitare gli aspetti salienti dell‟innovazione. Poiché dalla risoluzione
di questo gap (tecnologico o organizzativo) dipenderà la loro presenza o meno all‟interno di quel
mercato.
Sebbene Schumpeter agli inizi degli anni ‟40 abbia rivisto la propria teoria, alla luce di imperfezioni
di mercato quale ad esempio una visione distorta della concorrenza che spesso porta a situazioni
effettive di monopolio16, tuttavia essa rimaneva la base sulla quale si poteva costruire ogni ulteriore
elaborazione del concetto di produttività.
Attraverso la logica fin qui esposta, si può comprendere come l‟effetto a cascata provocato dalle
innovazioni generi un aumento di produttività ed al contempo un utilizzo decrescente di
manodopera, sostituita nella corsa verso l‟innovazione, da tecnologie sempre più all‟avanguardia in
grado di consentire una crescente immissione di nuovi prodotti all‟interno del mercato.
13
Cioè rendendoli diversi e autonomi nel genere e nell‟analisi.
14
Grazie all‟autonomia acquisita.
15
Presupposto base per evitare l‟emergere di distorsioni.
16
Da intendere come Monopolio di controllo o olistico effettuato sulle nuove tecnologie.
12
Rimandando ogni ulteriore riflessione al paragrafo successivo, basti qui sottolineare che pochi
compresero fino in fondo la scarsa correlazione tra crescita economica e innovazione, anzi si
verificò esattamente il contrario.
Infatti, tale impostazione era talmente radicata nel pensiero dell‟epoca, da disconoscere gli effetti
più deteriori di un simile fenomeno, anche quando tali effetti si erano palesati agli occhi dei
governanti.
È utile a tal fine citare l‟atteggiamento del presidente americano John Edgar Hoover, il quale arrivò
persino a negare gli effetti palesi e deleteri della crisi, quali disoccupazione, indebitamento e
povertà diffusa, sostenendo che si trattava di un periodo passeggero in cui era in corso una sorta di
riallocazione di risorse umane e economiche17.
Ciò era vero se si considera il miglioramento produttivo avvenuto nella prima metà del novecento,
tant‟è, come ha esposto Rifkin, che:
la Commissione presidenziale sui recenti cambiamenti economici, voluta da Herbert Hoover, pubblicò un
rapporto rivelatore del profondo cambiamento nella psicologia umana intervenuto in meno di un decennio.
Il rapporto terminava con una rosea previsione di ciò che attendeva l’America: “Questa ricerca ha
dimostrato, in maniera conclusiva, ciò che un tempo veniva considerato teoricamente vero: i desideri sono
insaziabili; ogni desiderio soddisfatto apre la strada a un nuovo desiderio. La conclusione è che, di fronte a
noi, si aprono panorami economici sterminati, e che la soddisfazione di desideri creerà immediatamente
desideri sempre nuovi da soddisfare… Attraverso la pubblicità e altre tecniche di promozione si è data una
sensibile spinta alla produzione […] Parrebbe che si possa procedere con un crescente attivismo […] la
nostra situazione è fortunata e il momento di inerzia notevole”18.
Ma la non comprensione del fatto che la disoccupazione fosse collegata, oltre alla crisi, anche
all‟aumento della produttività generata dalla continua innovazione, fece crescere l‟irritazione, e non
di poco, e lo scontento di chi aveva dovuto pagare il costo dell‟innovazione.
Agli occhi dell‟opinione pubblica a tale manifesta insensibilità19 fu imputata la mancata e pronta
risposta del governo americano; il quale non mise in atto, com‟è ben noto, nessuna vera politica di
17
«Il presidente continuò a minimizzare la gravità della situazione economica nazionale, ribadendo sempre che la
prosperità era <<dietro l‟angolo>> e garantendo che << nessuno stava davvero digiunando>>, un pensiero confortante
ma, in quei frangenti, evidentemente falso. Si disse che avesse reagito alle notizie sul continuo aumento della
disoccupazione osservando che << molti hanno lasciato il loro lavoro per quello più redditizio di vendere mele>>.
Quando la siccità devastò le aree agricole delle zone sudoccidentali del paese, Hoover approvò la fornitura da parte
dello stato federale di mangimi per il bestiame e di nuove sementi, ma si oppose alla concessione di aiuti agli agricoltori
e alle loro famiglie. Quando circa ventimila veterani disoccupati marciarono su Washington per ottenere l‟immediato
pagamento dell‟indennità di servizio che era loro dovuta in forza del Bonus Act del 1931, approvato dal Congresso
nonostante il suo veto, Hoover mandò l‟esercito (agli ordini del generale Douglas Mac Arthur) a smantellare
l‟accampamento e a disperdere i veterani» . BENJAMIN FRIEDMAN. Il valore etico della crescita. Sviluppo
economico e progresso civile. Trad. it. a cura di Nanni Negro. Ed. UBEPAPERBACKS – EGEA (per l‟Italia), Milano,
Ed. italiana anni 2006\2008, prima edizione anno 2005, pag. 225.
18
JEREMY RIFKIN. La fine del lavoro. Cit., pag. 54.
19
che fece gongolare di vera gioia i sostenitori più acerrimi e accaniti del libero mercato i quali erano convinti che la
mano invisibile avrebbe prima o poi risolto tutto.
13
rilancio dell‟economia e, più in generale, di sostegno alla palese situazione di disagio nella quale
era precipitata la società americana. Un disagio tale da lasciare milioni di individui senza una guida
sicura20.
Generando così una caduta libera, non solo dell‟economia ma di tutte le strutture (e sovrastrutture,
potremmo dire) che sottostavano a questo sistema, tale da elidere in un sol colpo tutte le certezze fin
lì accumulate contenute nel tanto famigerato sogno americano.
Durante il mandato di Coolidge21 il rifiuto di aiutare i cittadini in difficoltà era parso, in certe situazioni, una
dimostrazione di insensibilità, ma in pratica non aveva avuto conseguenze economiche di grande portata –
continua Friedman nell’analisi della crisi del ’29 americana - Ma sotto il mandato di Hoover lo stesso
atteggiamento non soltanto portò ad abbandonare milioni di americani in balìa di gravi ristrettezze, ma
impedì al governo di adottare misure che avrebbero potuto attenuare gli effetti del declino economico22.
La grave crisi che colpì il mercato americano in quel drammatico novembre del ‟29 non colpì
esclusivamente gli USA ma, in generale, l‟intera economia di mercato mondiale. Cioè l‟economia
di tutti quei paesi che non solo negli anni precedenti avevano intrattenuto rapporti commercial –
produttivi e finanziari con gli USA, ma che addirittura si erano spinti ad imitare alcune peculiarità
di tale sistema economico.
In particolare la crisi colpì quei paesi che, per una connaturata debolezza socio-produttiva di base o
derivanti da eventi intercorsi negli anni post-bellici o per il persistere di un insanabile conflitto
dovuto alla eccessiva fluidità di taluni complessi nazionali, avevano un impianto debole o
difforme23.
1.2 Breve excursus storico.
Le enormi ripercussioni che si ebbero in tutti quei paesi collegati a quel primordiale “sistema –
mondo” presto diedero i loro frutti. Come effetto si ebbe, infatti, da un lato: una sempre maggiore
chiusura, generata dalla paura sia della crisi e sia dall‟avanzare di forze progressiste fuori controllo,
nei confronti dell‟esterno e soprattutto nei confronti del sistema economico liberale.
20
« La Commissione Hoover, come molti politici e uomini d‟impresa, era talmente fissata sull‟idea che l‟offerta creasse
la propria domanda da essere incapace di prevenire la dinamica negativa che stava spingendo il sistema economico in
una depressione di enormi proporzioni». Ibidem.
21
Ingegnere e magnate dell‟acciaio di Pittsburgh, Carolina del Sud.
22
BENJAMIN FRIEDMAN. Il valore etico della crescita. Cit., Pagg. 225 – 226.
23
LORETTA NAPOLEONI. Economia Canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale. Ed. Il Saggiatore, Milano,
2009, pag. 248.
14
Dall‟altro, invece, si andò affermando uno schema in cui prevaleva un pensiero autarchico, in cui
l‟esaltazione dell‟origine della nazione e della propria etnia di appartenenza, era strumentale per
combattere le spinte sociali centrifughe interne24.
A tale scopo, era necessario individuare un nemico da abbattere ad ogni costo per garantire il pieno
e completo sviluppo sociale, oltre che per indirizzare la produzione economica nazionale a
sostenere la politica di potenza dello Stato e del suo regime, con la finalità basilare di combattere gli
effetti più deleteri della crisi, quali ad esempio il fenomeno della disoccupazione o della povertà.
L‟affermarsi in ambito europeo ed extra europeo di regimi socio – politico – economici di stampo
nazionalista o più marcatamente fascisti, in paesi quali Grecia, Romania, Bulgaria, Polonia,
Portogallo, Giappone, Ungheria, Cina, ecc., rappresentò quindi una reazione ed una necessità.
Il perseguimento di un obbiettivo comune, ad esempio l‟affermazione del sentimento collettivo di
orgoglio razziale o etnico da cui segue e discende la volontà di potenza, inscindibilmente legata
all‟emergere della società di massa, sembrava in quel
frangente essere l‟unico espediente per vincere lo
scoramento sociale provocato dalla crisi e per cercare di
proporre possibili soluzioni25.
Società di massa che aveva avuto origine, come si può
vedere dal grafico a fianco, anche dal continuo
accentramento della popolazione in ambito urbano,
dove, rivestendo i panni del proletariato, gli individui
cominciarono a rivendicare diritti.
Emblematico sotto questo punto di vista è il caso
dell‟Italia, primo paese ad avere un regime fascista e
fautore dell‟evoluzione del pensiero nazionalista di fine
XIX sec. in ideologia autoritaria e repressiva.
Mussolini, dopo essersi reso obbiettivamente conto che il paese era stato sfiorato solo
marginalmente dalla crisi, colse tuttavia l‟opportunità da un lato di fascistizzare la società italiana
contro la deriva demo – plutocratica e massonica della società italiana del tempo26; e dall‟altro
strinse la morsa contro i sovversivi e i fautori dello stato borghese.
Sulle rovine dell’economia di mercato liberista, – come scrive Loretta Napoleoni – il regime autarchico di
Mussolini edificò un nuovo tipo di tribalismo, quello di stato. Lo stato diventa l’espressione dell’identità
collettiva, l’essenza e l’anima della popolazione che vive nei suoi confini politici e geografici.
«Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. La loro manifestazione deve
dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta, assoluta,
inalterabile».
24
SERGIO ROMANO. Europa. Storia di un’idea. Vol. edito a cura della Fondazione Achille e Giulia Boroli. Ed.
Longanesi e C., Milano, 2005, pag. 105.
25
LORETTA NAPOLEONI. Ibidem, V. sopra.
26
al fine di conseguire l‟obiettivo di far riemergere le antiche virtù italiche così da edificare un impero di romane
memorie.
15
Lo proclama Mussolini nel 1935 davanti a 20 milioni di italiani scesi in piazza per ascoltare il suo discorso. In
modo analogo, il rispetto dell’individuo si dissolve nello stato fascista. Il tribalismo di stato è alieno al
nazionalismo laddove lo stato è costruito attorno all’identità nazionale del popolo: lo stato è l’espressione
della sua identità. Il tribalismo di stato fascista è esattamente l’opposto: l’identità nazionale diventa
l’espressione dello stato fascista che a sua volta è il cuore della nazione.
Questo concetto è sintetizzato nella definizione mussoliniana di fascismo: «Lo stato fascista organizza la
nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha
conservato quelle essenziali. Chi giudica su questo terreno non può essere l’individuo, ma soltanto lo
stato»27.
Quindi il tribalismo di stato, cioè la chiusura verso l‟esterno e la ricerca dell‟autosufficienza, ha
portato ad un irrigidimento delle facoltà individuali, in netto contrasto con la teoria liberale che fin
lì aveva governato, o quanto meno tentato di ordinare, il mondo.
Tuttavia, tale pensiero nei fatti, estremizzando il concetto di auto-chiusura per raffinare ed esaltare
il concetto di etnia o di razza dominatrice e di destino imperiale, se da un lato si concretizzò nella
costruzione di uno Stato che di certo ambiva a posizioni di vertice nel mondo28, dall‟altro al
contempo si spinse fino alla giustificazione dell‟eliminazione, anche fisica, di chi non collaborava o
partecipava o comunque rappresentava un impedimento al raggiungimento dello scopo collettivo.
Paradigmatico sotto questo profilo è il caso della Germania di Weimar, dove gli effetti della crisi
arrivarono con due anni di ritardo. Entro questa prospettiva, infatti, Adolf Hitler, il cui fine politico
principale era quello di riportare il popolo tedesco ai fasti imperiali di un tempo29 e di eliminare gli
internazionalisti30 che avevano, a suo dire, portato il paese al tracollo, corrispondeva perfettamente
al modello sopra esposto.
Un caso a parte fu quello sovietico, che, comunque, convergeva in molti aspetti, con quanto su
esposto descritto.
L‟Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), in seguito all‟ascesa di Stalin31 alla
segreteria del partito e pur avendo imboccato con fierezza la strada del Socialismo reale, nella
prospettiva comunista fece altrettanto. Stalin soppresse tutti coloro che non si erano acquietati al
27
LORETTA NAPOLEONI. Economia Canaglia. Cit., pag. 244.
28
Da inquadrare in questo scenario il concetto di spazio vitale , cioè di luogo in cui far crescere e prosperare la propria
etnia di riferimento.
29
Giacché secondo il delirio nazista questo era il destino di tutti gli appartenenti al ceppo ariano.
30
«Dopo aver conquistato il potere nel Gennaio 1933, Hitler eliminò gli internazionalisti: socialdemocratici, comunisti,
ebrei, zingari, cristiani inflessibili, ovvero tutti coloro per cui la patria non era la terra e il sangue, ma un‟ideologia, una
religione, un forte legame storico-culturale o, come nel caso degli Zingari, una tribù meta – nazionale. In questa
strategia dell‟eliminazione gli Ebrei ebbero un posto privilegiato perché erano agli occhi di Hitler, naturalmente
internazionali e altrettanto presenti nelle due maggiori ideologie internazionaliste del secolo: il capitalismo e il
comunismo».SERGIO ROMANO. Europa. Storia di un’idea. Cit., pagg. 107 – 108.
31
Latore della teoria comunismo in un paese solo in netto contrasto con la precedente propensione internazionalista di
Lenin.
16
nuovo corso32, tacciandoli di essere nemici del popolo, ed effettuando al contempo una politica, non
riassumibile nei soli piani quinquennali di sviluppo, volta ad affermare il carattere vincente in
chiave nazionalistica del modello sovietico.
Nessuna differenza quindi è rintracciabile tra il pensiero nazi – fascista e quello stalinista, in quanto
entrambi puntano al superamento della loro ininfluente posizione a livello internazionale,
mostrandosi al mondo in chiave imperialistica ed eliminando in un modo o nell‟altro tutti coloro
che non condividevano la stessa visione33.
I processi di interpretazione e di ricostruzione successivi al secondo conflitto mondiale, in ragione
della sua drammatica portata distruttiva, hanno cercato di avanzare, con alterne fortune e diversi
gradi di ragionevolezza possibili alternative a molte delle prospettive che avevano condotto e
sostenuto l‟azione bellica, alla luce soprattutto delle immense sofferenze patite dalle popolazioni
coinvolte.
In primo luogo, confutando, o quanto meno ridimensionando la portata della tesi della cosiddetta
religione del progresso34, cioè l‟idea secondo la quale il genere umano possa giungere ad uno
sviluppo certo solo attraverso un avanzamento tecnologico e del tutto conseguentemente che le
nuove tecnologie siano le uniche risposte da contrapporre alle debolezze umane.
In secondo luogo, attraverso il tentativo di superamento delle logiche razziali e nazionalistiche che
avevano caratterizzato il cinquantennio precedente35 che grazie alla diffusione di un pensiero
cooperativo e federalistico36, avviata avvierà, seppure con fasi alterne37 una nuova forma di
collaborazione che si concretizzò, ad esempio, nella comparsa delle organizzazioni internazionali.
Quest‟ultime svolsero sostanzialmente un ruolo importante all‟interno della comunità
internazionale, basti pensare all‟ONU o alla CEE (poi divenuta UE)38, in quanto generarono la
32
«Mentre il fondatore dello stato sovietico aveva preso di mira soprattutto l‟aristocrazia, la borghesia e il clero, il
meraviglioso georgiano colpì spietatamente i kulaki, i gruppi etnici impermeabili all‟assimilazione sovietica, una buona
parte dei quadri ebraici del partito, i dissenzienti e i concorrenti». SERGIO ROMANO. Ibidem.
33
«Fra il numero degli ebrei uccisi dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale e quello dei kulaki eliminati
durante la campagna per la collettivizzazione della terra all‟inizio degli trenta vi è una modesta differenza: sei milioni i
primi, sette milioni i secondi. Manifestare sorpresa, come accade sempre più spesso, per la docilità con cui il popolo
tedesco e il popolo russo assistettero alla persecuzione e all‟eliminazione di alcuni milioni di persone è ingenuo o
strumentale». Ibidem.
34
Apparsa tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, e costruita sugli assiomi del pensiero positivista.
35
Cioè la superiorità della propria etnia sulle altre.
36
«L‟organizzazione federale […] marcerà relativamente più presto che accadde per altre conquiste dell‟umanità;
perché perfino la pazzia del nazismo e del fascismo avrà reso un servizio al progresso del mondo. Ognuno sente in
Europa che il nuovo mondo può essere solo una comunità di libere nazioni. Già tutti sentono in Europa che le frontiere
nazionali non significano più ciò che prima significavano; che sono sulla strada per scomparire». CARLO SFORZA,
L’Italia e l’Europa 1994, tratto da FRANCESCA POZZOLI. Federalismo e Autonomia. Breviario. Ed. Rusconi,
Milano, 1997, pagg. 168 – 169.
37
A causa dell‟emergere della guerra fredda.
38
la quale nel vecchio continente ha svolto il ruolo di integrare e di far cooperare tutti i paesi aderenti, in particolare
coloro che in passato avevano combattuto su fronti opposti come la Germania e Francia.