6
Premessa
Il tema che ci si accinge a trattare riguarderà l’analisi della struttura dogmatica
dell’eccesso colposo di legittima difesa, richiamandone i profili salienti anche alla
luce di alcune recenti pronunce della Suprema Corte Cassazione, recanti le
disposizioni per una corretta interpretazione dell’istituto.
La disamina si focalizzerà sulla scriminante della legittima difesa nella specifica
ipotesi in cui i limiti della stessa vengano oltrepassati dal soggetto agente.
Ricorre, in tale ipotesi, come si evince dal noto brocardo latino “excedere modum
in defendendo” che focalizza l’essenza stessa di tale istituto rinvenibile nella
particolare relazione emergente dal combinato disposto degli artt. 55 e 52 c.p.,
l’eccesso colposo di legittima difesa. Al vaglio di tali premesse si potrà affermare
che quest’ultimo istituto, così come disciplinato, ricorrerà allorquando, in
presenza di tutti i requisiti caratterizzanti la scriminante della legittima difesa,
previsti per l’appunto dall’art. 52 c.p., ne vengano superati i limiti,
colposamente, dall’autore del fatto, infrangendo così l’unica possibilità
concessagli dall’ordinamento, “vim vi repellere licet”, ovvero quella di rispondere
alla forza con la forza in casi di estrema necessità.
Nella stesura del presente elaborato si analizzerà, progressivamente, la struttura
dogmatica del reato, dalla quale, una volta ricavata l’odierna nozione, si
procederà alla disamina della definizione data all’antigiuridicità, osservata nelle
sue molteplici interpretazioni, elaborate dalle maggiori scuole di pensiero della
moderna dottrina giuridica. Nello specifico si farà riferimento alle tre teorie
principali: la bipartita, la tripartita o detta anche tricotromica ed, in ultimo, la
quadripartita o meglio definita tetrapartita, dall’analisi delle quali si noterà che la
scelta dell’una o dell’altra non è scevra di differenti conseguenze sul piano
sistematico e pratico.
7
Dopo essersi soffermati sull’antigiuridicità si procederà al vaglio delle tipiche
ipotesi codicistiche delle cause di giustificazione, focalizzando particolarmente
l’attenzione sull’art. 52. c.p. oggetto d’esame. Non si tralascerà, inoltre, di
ripercorrere anche in chiave storica un’attenta analisi della scriminante, studiando
l’evoluzione dell’istituto, soffermandosi particolarmente sulla relazione della
stessa con l’antigiuridicità, intendendola quale azione iure facta e come tale non
antigiuridica o, meglio detta, azione scusata. L’analisi strutturale della legittima
difesa consentirà di approfondire la scriminante con specifico riferimento ai limiti
imposti dall’ordinamento. Si cercherà di sostenere come lo Stato pur vietando al
cittadino lo spiegamento dell’autotutela, nondimeno, in casi eccezionali, ne
facoltizza e ne consente un contenuto esercizio, confinato tra il canone
dell’attualità del pericolo e quello della reazione proporzionata. Si evidenzierà
come il bilanciamento di questi due requisiti sia rispondente alla logica della
convivenza civile e al buon senso dell’opportunità politica, e come tali essi sono
fondamentalmente accennati e condivisi da tutti gli ordinamenti moderni.
Pertanto si può asserire che «una relazione postuma sarebbe vendetta ed una
sproporzionata sarebbe sopruso».
Altro momento significativo dell’indagine verterà sull’approfondimento della
nuova legittima difesa dal punto di vista strutturale, descrivendo gli elementi di
cui la stessa si compone. In argomento si renderà conto delle intervenute
modifiche legislative mosse dalla l. 13 febbraio 2006 n. 59, che hanno previsto
l’esercizio del diritto all’autotutela in un privato domicilio. Giunti a tale
prospettazione sistemica si avrà dunque la possibilità di entrare in medias res
trattando del problema dell’eccesso colposo, analizzandone la genesi storico-
dogmatica, dalla quale si ricaverà la definizione per poi procedere a saggiare
un’indagine strutturale. Dando conto delle diverse posizioni dogmatiche,
successivamente, nel descrivere l’eccesso colposo in tutti i suoi elementi, si
soffermerà, in particolare, l’attenzione sulla tesi che vede l’eccesso colposo quale
errore motivo o errore inabilità, senza trascurare l’analisi diversa che, invece,
8
ritiene l’eccesso per errore motivo come reato sostanzialmente doloso
equiparandolo alla corrispondente fattispecie colposa, solo ai fini dello stesso
trattamento sanzionatorio quoad poenam.
Da ultimo l’argomento verrà così passato al vaglio della rassegna
giurisprudenziale al fine di evidenziare la reale portata applicativa del combinato
disposto degli artt. 52 e 55 c.p. Interessanti sul tema saranno, tra le tante, due
pronunce emesse dalla Suprema Corte di Cassazione, che si è deciso di
selezionare per il particolare contenuto del dispositivo, da cui si potrà ricavare
che l’eccesso colposo nella legittima difesa è caratterizzato da una non facile
applicazione nei casi concreti.
9
Capitolo I
L’ANTIGIURIDICITÀ NELLE CAUSE DI
GIUSTIFICAZIONE
1. Premessa: analisi della struttura dogmatica del reato
La scienza penalistica ha dedicato molta attenzione ai requisiti che consentono di
qualificare come reato un determinato comportamento umano, per estrapolarne la
ratio bisogna richiamare brevemente la difficile dialettica tra la nozione formale e
quella sostanziale dello stesso. Riguardo la prima, è reato quel fatto giuridico
illecito al quale l’ordinamento fa conseguire una sanzione penale, tale definizione
è formale in quanto si limita a prendere atto delle scelte con le quali il legislatore
configura un fatto come penalmente rilevante. La nozione ribadisce i caratteri di
tipicità asserendo che, è reato solo quello ritenuto tale dal legislatore, nonché
richiama la tassatività, affermando che non possono crearsi altre figure d’illecito
penale oltre a quelle espressamente previste dalla legge.
La seconda nozione, di natura sostanziale, esprime l’esigenza che
l’individuazione della condotta delittuosa non sia solo il frutto di un’attività di
creazione normativa ma, il reato deve essere analizzato anche sulla base dei
caratteri intrinseci e sociali che esso riveste.
1
Quest’ultima definizione viene
1
Così sotto il profilo sostanziale per MAGGIORE G., Diritto penale. Parte generale,
Zanichelli, Bologna, 1951, pag. 189, il reato consiste in una «grave offesa dell’ordine etico»;
per GRISPIGNI F., Diritto penale italiano, vol./N. I, Giuffrè, Milano, 1947, pag. 144, è reato
«quel fatto che pone in pericolo l’esistenza e la conservazione della società»; infine
ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, Sedicesima edizione aggiornata e
integrata da CONTI L., Milano, 2003, pag. 170, il reato è «quel comportamento umano che, a
giudizio del legislatore contrasta con i fini dello Stato ed esige come sanzione una pena
10
criticata da una parte della dottrina per due ragioni: sia perché fa riferimento a
valori morali di scarso rilievo nel diritto penale, sia perché riconosce
l’impossibilità di prescindere dal giudizio del legislatore.
2
È così emersa, nella
dottrina prevalente, la tesi secondo cui si deve dare una definizione formale
sostanziale del reato, facendo leva su quei caratteri che il nostro ordinamento
utilizza per qualificare un determinato fatto come tale.
3
I fautori di tale tesi, però,
precisano che neppure quest’ultima definizione è in grado di indicare con
certezza ciò che costituisce o deve costituire reato. Così, integrando la nozione
formale sostanziale con le nozioni sposate dai vari Autori, ed analizzando il reato
da un punto di vista analitico, si può affermare che è definibile come tale quel
fatto umano previsto dalla legge in modo tassativo ed irretroattivo, attribuibile ad
un soggetto, sia casualmente che psicologicamente, offensivo di un bene
giuridico costituzionalmente significativo, o comunque non incompatibile con i
valori costituzionali, sanzionato, infine, con una pena proporzionata astrattamente
alla rilevanza del valore tutelato e concretamente alla personalità dell’agente
umanizzata e tesa alla rieducazione del condannato.
4
criminale». Secondo quest’ultimo Autore, tale definizione è essenziale ai fini di una visione
realistica del reato penale, perché «l’esperienza storica dimostra che i giudizi sul contrasto fra
le azioni umane e i fini dello Stato e sulla necessità della pena variano con i tempi e con i
luoghi, tanto che non esiste forse un solo fatto che sia stato sempre e dovunque punito».
2
In tal senso ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, cit. pag. 171 ss.
3
Tra i sostenitori di quest’ultima tesi merita di essere richiamato il pensiero di MANTOVANI
F., Diritto penale. Parte generale, VII edizione, Cedam, Padova, 2011, pag. 21, secondo cui i
caratteri propri del reato devono essere desunti dai principi dettati dalla Costituzione, i quali si
pongono come guida e come limite al legislatore ordinario nell’individuazione dei fatti da
assoggettare alla sanzione penale. Nello stesso senso, FIANDACA G. - MUSCO E., Diritto
penale. Parte generale, VI edizione, Zanichelli, Bologna, 2010, pag. 148 ss. Gli Autori
definiscono il reato come un fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole
di protezione da un legislatore che si muove nel quadro dei valori costituzionali: «sempreché la
misura dell’aggressione sia tale da far apparire inevitabile il ricorso alla pena e le sanzioni di
tipo non penale non siano sufficienti a garantire un efficace tutela».
4
BRICOLA F., Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto Italiano, vol./N. XIX, Utet,
Torino, 1973, pag. 136 ss.; FIANDACA G. - MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit.,
pag. 150 ss.; PAGLIARO A., Principi di diritto penale. Parte generale, VIII edizione, Giuffrè,
Milano, 2003, pag. 219 ss.
11
2. La definizione di antigiuridicità dal punto di vista teorico-
dottrinale.
Nel capitolo precedente è stato analizzato brevemente il reato, per tentare di darne
una definizione dalla quale verrà ricavato il concetto di antigiuridicità. Essa può
essere definita, secondo parte della dottrina, come quel rapporto di contraddizione
tra il fatto tipico e l’intero ordinamento giuridico, che viene meno quando in tutto
il sistema, inteso complessivamente, emerge anche una sola norma volta a
salvaguardare un bene che l’ordinamento ritiene preminente o renda doveroso un
fatto che altrimenti assumerebbe rilievo penale.
5
Nessuno dubita in dottrina che i
due elementi della tipicità e della colpevolezza compongano il reato nella sua
essenza, mentre sorge al contrario una divisione riguardante l’elevazione o meno
dell’antigiuridicità quale elemento essenziale. A tal proposito è opportuno
soffermarsi sulla disamina delle varie teorie che si prospettano di definire il
concetto di antigiuridicità quale elemento intrinseco o estrinseco al reato.
5
FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 186. Gli Autori fanno
riferimento al sistema complessivamente inteso ricomprendendo in esso tutte le branchie del
diritto, sia esso civile, penale o amministrativo. Essi affermano che il giudizio di antigiuridicità
in seno all’intero ordinamento è rinvenibile dalle norme processuali, l’art. 652 c.p.p. relativo ai
rapporti tra giudizio penale di assoluzione e azione civile riparatoria, stabilisce che «la sentenza
penale irrevocabile di assoluzione [...] ha efficacia di giudicato quando all’accertamento [...]
che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà
legittima nel giudizio civile o amministrativo». Questa disposizione si spiega in base al
principio di non contraddizione dell’ordinamento, nel senso che l’esistenza di una qualsiasi
norma, non è rilevante per il settore in cui è volta a facoltizzare o rendere doveroso un
determinato comportamento, ma è necessario che lo renda lecito in tutto l’ordinamento
giuridico. Per controverso, l’art. 651 c.p.p. vincola il giudice civile ed amministrativo al
giudicato penale di condanna «quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua
illeceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso».
12
2.1 L’antigiuridicità emersa dalla teoria bipartita
Le prime indagini di carattere analitico hanno proposto la teoria della
bipartizione, secondo la quale il reato è un fatto umano commesso con volontà
colpevole. Secondo i fautori di tale teoria, in particolare la Scuola classica, la
struttura del reato è scomposta in un elemento oggettivo, che si compone
dell’azione od omissione, dell’evento naturalistico, quand’anche fosse presente,
del rapporto di causalità che deve intercorrere tra condotta ed evento, nonché di
fondamentale rilevanza, è l’elemento soggettivo, meglio definito come
colpevolezza, che riguarda l’atteggiamento psicologico richiesto dalla legge per la
commissione di un dato reato, ai fini dell’imputazione soggettiva del fatto
criminoso.
6
La suddetta teoria afferma che l’antigiuridicità non è intesa solo in senso
oggettivo, cioè non è considerata come un elemento costitutivo autonomo, ma
viene elevata come un presupposto della tipicità. Essa, osservata in senso globale,
fa emergere che il reato, essendo un fatto penalmente antigiuridico, si compone di
tutti i suoi elementi sia oggettivi che soggettivi. L’antigiuridicità quindi
rappresenta l’aspetto valutativo nella sua essenza e non è che un giudizio di
relazione e di contraddizione tra il fatto interamente considerato e la norma
penale. In dottrina, tra i fautori della teoria bipartita del reato, troviamo coloro che
6
DELPINO L., Diritto penale. Parte generale, manuale per gli studi superiori, II edizione,
Simone, Napoli, 2011, pag. 23 ss. L’Autore richiama la Scuola classica affermando che essa
nacque alla fine del Settecento, in pieno illuminismo, periodo caratterizzato dall’esigenza di
garantire l’individuo dei suoi diritti di libertà contro il libero arbitrio dello Stato. Figura
esponente dell’illuminismo italiano fu Cesare Beccaria che pubblicò un suo libro “Dei delitti e
delle pene” nel 1764, che oltre a costituire un’opera originale rappresentò una summa delle idee
e della mentalità dominante dell’epoca. Il pensiero del Beccaria fu successivamente ripreso
dalla Scuola classica, che esaminò il reato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, dando rilevo
alla volontà colpevole. Tale Scuola ebbe tra i suoi maggiori esponenti, Carmignani e Rossi,
nonché, spiccò soprattutto Francesco Carrara, che pur dando continuità al pensiero del
Beccaria, evidenziata soprattutto dal fatto che recepisce e fece propri i suoi fondamenti, si
distaccò dallo stesso, abbandonando il concetto storico sociale del diritto per sposarne una
visione più astratta ed assoluta, facendo diventare così la materia penale come un sistema
perfetto ed intoccabile, avente la sua genesi e la sua norma base in una legge assoluta.
13
definiscono l’antigiuridicità come un «giudizio di disvalore sociale»
7
. Altri
Autori, nel trattare l’elemento in questione, ritengono ed affermano che essa non
deve essere vista, financo considerata, quale ulteriore elemento del reato, non
potendo inserirsi sullo stesso piano della tipicità e della colpevolezza, come
sostenuto dai fautori dalla teoria tripartita.
8
Particolare ed affascinante è
l’espressione utilizzata da un Autore, il quale dopo aver seguito la teoria della
bipartizione, anche ammettendo la possibilità di uno studio separato dei vari
elementi del reato, sottolinea la necessità di considerarlo come un’entità unitaria.
9
In seno alla concezione bipartita, circa l’antigiuridicità, si è sviluppata la teoria
degli elementi negativi del fatto, secondo la quale il fatto umano si compone tanto
di elementi integranti le connotazioni del reato (cioè quelli positivi), quanto di
elementi che escludono il reato stesso (elementi negativi).
10
Tale tesi trova
fondamento positivo nella lettura combinata degli articoli 47 e 59 c.p. L’art. 47,
7
ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., pag. 209 ss., riportando le
parole dell’Autore l’antigiuridicità è «quel giudizio di disvalore sociale del fatto che lo
caratterizza e lo qualifica come illecito e più precisamente come reato». In particolare la sua
opera si palesa meritevole di menzione, in quanto, l’opzione per la teoria bipartita è frutto di un
attento esame della c.d. antigiuridicità obiettiva.
8
MANTOVANI F., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 104. Secondo l’Autore: «Essa
perciò, non può essere un elemento del reato da porsi sotto lo stesso piano del fatto e della
colpevolezza, ma è l’essenza stessa, l’in sé del reato, secondo un usuale felice espressione».
9
PANNAIN R., Manuale di diritto penale. Parte generale, ultima ed., Torino, pag. 223 ss.
L’Autore, infatti, afferma che: «Il reato è un’entità individua, che può essere studiata nei suoi
componenti, ma non può essere scomposta senza annullarne l’essenza vitalità […]. Voler
scomporre il reato in fatto, antigiuridicità e colpevolezza significa spezzettarlo in vari
frammenti senza alcun vincolo di coesione tra loro, sì da fare scomparire la suitas o
caratteristica individualità».
10
DE FRANCESCO G.A., Sulle scriminanti, in Studium Iuris, 2000, pag. 270.; PADOVANI
T., Alle radici di un dogma: appunti sulle origini dell’antigiuridicità obiettiva, in Riv. It. Dir.
Proc. Pen., 1983, pag. 551. Sotto il profilo storico, l’antecedente logico della costruzione delle
scriminanti come elementi negativi del fatto, risale al pensiero di Feuerbach, il quale nel
teorizzare la distinzione tra fatto ed illiceità, attribuisce a quest’ultima un contenuto negativo
individuato nel «difetto di ragione giuridica» destinata a rendere conforme all’ordinamento la
violazione del diritto soggettivo. Le ragioni pratiche che riguardano gli elementi negativi del
fatto sono da ricondurre all’esperienza tedesca, dove il codice penale non contemplava la
previsione dell’errore sulle cause di giustificazione, ma solo l’errore sul fatto. Specificando
meglio, mancava una norma che escludesse il dolo nel caso di erronea supposizione della
presenza di una causa di liceità.
14
comma 1, c.p. prevede che l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la
punibilità dell’agente e, parallelamente, l’art. 59 c.p. dispone che se il soggetto ha
ritenuto erroneamente di operare in presenza di una causa di giustificazione, che
nella realtà non è presente, egli non è considerato colpevole del fatto. Queste
disposizioni, nell’escludere la sussistenza del dolo per mancanza di volontà,
lasciano intendere che le cause di giustificazione vengano, quindi, concepite
come elementi negativi della fattispecie criminosa, cioè come elementi che
devono mancare affinché il reato esista, con la conseguenza che essi
contribuirebbero all’identificazione compiuta della condotta penalmente
rilevante.
2.2 L’antigiuridicità quale elemento essenziale del reato analizzata
dalla teoria tripartita.
Spostando ora l’attenzione su altra parte della dottrina oggi prevalente, spicca la
definizione, elaborata dai maggiori esponenti della teoria tripartita o belinghiana,
che vede l’antigiuridicità quale elemento essenziale dell’illecito penale: secondo
gli stessi il fatto da un lato deve risultare conforme alla fattispecie astratta di reato
e, nello stesso tempo, all’opposto, deve essere veramente realizzato contra ius.
11
Il reato è definibile, dunque, come un fatto umano, tipico, antigiuridico e
colpevole: questo è il modello di scomposizione analitica degli elementi
costitutivi del reato che va annoverato sotto il nome di concezione tripartita.
12
11
FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit., pag. 179. Per riportare
l’espressione utilizzata dagli Autori: «l’effettivo contrasto tra il fatto tipico e l’ordinamento si
riassume nel giudizio di antigiuridicità».
12
DELITALA G., Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930, pag. 13 ss. Ora in
Raccolta degli scritti, vol./N. I, Milano, 1976, pag. 5 ss.
15
È necessario richiamare altri Autori, che sposano tale teoria, e che vedono
l’antigiuridicità come il secondo elemento essenziale del reato.
13
Più precisamente
essa viene definita oggettiva, in quanto rappresenta l’elemento valutativo,
14
che si
aggiunge al fatto ed alla colpevolezza, visti come elementi descrittivi, ed emerge
dall’assenza delle cause di giustificazione,
15
la cui presenza renderebbe
eccezionalmente lecito il fatto tipico. I seguaci di questa teoria tripartita
considerano l’antigiuridicità oggettiva, quale elemento essenziale del reato e
danno una concezione restrittiva del fatto tipico, a differenza dei sostenitori della
teoria bipartita che invece accolgono una concezione estensiva, quale l’insieme
degli elementi oggettivi e soggettivi essenziali per l’esistenza del reato.
16
La configurazione dell’antigiuridicità, elevata come elemento autonomo del reato,
contiene una duplice implicazione: da un lato, per rispondere all’esigenza della
certezza del diritto, la distinzione tra fatto ed antigiuridicità sottolinea la necessità
di separare gli elementi descrittivi della fattispecie dal momento valutativo della
stessa, nonché, sull’opposto versante, l’antigiuridicità implica la presa d’atto che
l’esistenza di una lesione di beni che contrasti con il diritto obiettivo non abbia
nulla a che vedere con l’esistenza dei presupposti per un giudizio di
riprovevolezza nei confronti dell’autore.
Soffermando l’attenzione sull’accertamento con cui deve operare il giudice per
stabilire se un fatto costituisca o meno reato, si può affermare che egli dovrà in
primis chiarire se il fatto si componga di tutti gli estremi per definirsi illecito,
13
PETROCELLI B., Principi di diritto penale, Napoli, 1955, pag. 237.; FIORE C., Diritto
penale parte generale, vol./N. I., Torino, 1993, pag. 117 ss.
14
DELITALA G., Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930, pag. 20 ss.;
MARINUCCI M., Fatto e scriminati, note dommatiche e politico criminali in Riv. It. Dir. Pen.,
1983, pag. 1190 ss.
15
GALLO M., La teoria dell’azione finalistica nella più recente dottrina tedesca, Milano,
1950, pag. 58 ss. L’Autore critica il concetto di antigiuridicità oggettiva, fondando il suo
pensiero sull’impossibilità di isolare, all’interno della fattispecie penale, un gruppo di elementi
ai quali riferire la qualifica di antigiuridicità oggettiva, e ciò perché si è di fronte alla mancanza
di un parametro normativo di valutazione, che non è offerto dalla norma penale.
16
Sulla nozione del fatto, PAGLIARO A., Il fatto di reato, Palermo 1960, in Digesto Penale, V
edizione, Utet, Palermo, 1960 pag. 172 e ss.; ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte
generale, cit. pag. 209 ss.; MANTOVANI F., Diritto penale. Parte generale, cit. pag. 104.