4
Nelle tre appendici che seguono alla breve conclusione e alla bibliografia, sono riportati i
due questionari utilizzati, alcune statistiche descrittive delle variabili rilevate nonché maggiori
particolari sulle analisi dei dati presentate nel terzo capitolo.
In questa sede si desidera inoltre particolarmente ringraziare i 14 studenti che, insieme
all’Autore della presente tesi, hanno dato vita al progetto di ricerca “Leipziger Abfallstudie”
(LAS), i cui risultati, teorici ed empirici, sono alla base della presente tesi.
5
1. ASPETTI TEORICI GENERALI
1. Il concetto di azione
Il presente paragrafo intende chiarire il concetto di azione, quale è posto alla base della
nostra ricerca
2
. Un’azione è un sottoinsieme della classe dei comportamenti umani
3
. E’ azione,
attenendoci alle osservazioni di Franz von Kutschera
4
, un comportamento umano che può
essere tralasciato: “Diciamo che qualcuno è libero di fare qualcosa se egli la fa, ma può anche
tralasciarla; se il suo comportamento non viene determinato né da costrizione esterna né da
impulsi interni che si sottraggono al suo controllo”
5
Nel caso di azioni l’agente si trova quindi
sempre davanti almeno due possibilità: compiere F
6
o tralasciarla
7
, quindi si trova in una
situazione di decisione.
2
Il fatto che studiamo così specificatamente una azione non significa che consideriamo l’azione sociale l’unico
fondamento della società o che ci interessiamo solo ad essa. Vogliamo solamente definire con chiarezza maggiore
possibile l’oggetto dei nostri sforzi esplicativi allo stesso livello in cui sono stati raccolti i dati.
3
Definiamo con il massimo grado di genericità, non essendo utile ai nostri fini, comportamento umano la
trasformazione di una situazione in un’altra per tramite di un individuo, senza ulteriori specificazioni.
4
Cfr. F. v. Kutschera, 1981 e 1982. Le citazioni tratte da F. v. Kutschera, 1973, 1981, 1993 sono tradotte in italiano
dall’Autore della presente tesi; da questo momento mancheremo dal ricordarlo esplicitamente. F. v. Kutschera discute
anche altri criteri, di uso comune, quali intenzionalità e coscienza, che tuttavia non riescono a separare i due insiemi di
atti con la stessa chiarezza. “La consapevolezza, e di conseguenza l’intenzionalità, non è un criterio necessario delle
azioni. Una grande parte dei verbi con i quali descriviamo le azioni sono verbi causativi. Del risultato di una azione
l’agente non è però sempre consapevole. Così io posso offendere qualcuno con una osservazione senza saperlo. Se si
affermasse che l’azione consiste solo nel fare l’osservazione e non nell’offesa, si intenderebbe la parola “azione” in un
senso molto più circoscritto del linguaggio usuale. L’intenzionalità, e di conseguenza la consapevolezza, non è
nemmeno criterio sufficiente, perché un movimento non controllabile può rientrare nelle mie intenzioni senza che si
possa parlare di azione. Se per esempio non mi riesce di aprire la porta di un treno e mentre il treno percorre una curva
vengo scaraventato contro la porta e in questo modo la apro, ciò rientra nelle mie intenzioni, ma non è una azione.” F. v.
Kutschera 1991, p. 299.
5
F. v. Kutschera, 1991, p. 298. Un concetto di libertà di azione simile viene utilizzato da J. Coleman, 1995, p. 88-90
ispirato nell’occasione a Georg Simmel. Coleman definisce azioni libere tutte quelle che sono condotte in assenza di
costrizione fisica o psichica (ipnosi) immediata. Se firmo un contratto sotto minaccia di una pistola, compio ancora un
atto libero perché avrei potuto scegliere altrimenti, pur addossandomi rilevanti costi personali; mentre se qualcuno
muove la mia mano facendomi apportare una firma ad un contratto, questo non è più libero atto. Pur trattandosi della
stessa definizione Coleman amplia l’insieme delle azioni assumendo che in tutte le situazioni, esclusi gli estremi della
pura coercizione, vi sia almeno un grado minimo di scelta libera. Una accezione così stretta di costrizione esterna o
interna ben si inserisce in una teoria razionale dell’azione, o in senso più generale, dello scambio, in cui forte è la
tendenza a quantificare ogni bene, persino la vita stessa, per cui anche l’atto meno libero viene interpretato come la
scelta libera tra alternative con diverso valore. In linea di principio ciò appare operazione del tutto lecita, tanto che nella
riflessione etica che non rinuncia ad una posizione teleologica, si sente l’esigenza di una gerarchizzazione dei beni,
introducendo relazioni di incommensurabilità, per evitare conclusioni etiche assurde ed antiumane. Cfr. A. Corradini,
1989.
6
Più precisamente F è una modalità di azione e l’azione è il compimento, da parte di un soggetto determinato in un
momento preciso della modalità di azione F.
7
Non è sufficiente che esistano altre possibili azioni, se di esse non può disporre l’agente. E’ sempre possibile non fare
un incidente in auto ma non sempre questa alternativa è a disposizione dell’agente.
6
La questione principale che questa definizione solleva è quella se esistano azioni in tal
senso, ovvero se l’agente abbia libertà di azione.
8
Questo problema può essere affrontato in
due modi diversi, tra loro compatibili: in via ipotetica, non potendosi teoricamente decidere
della validità del principio di causalità,
9
si può affermare che questi comportamenti umani, detti
azioni, esistono. Oppure lo si può risolvere introducendo la libertà dell’io quale evidenza del
senso comune, di cui Antonio Livi scrive: “Anche l’io, pertanto, causa
10
; essendo per natura più
dotato di altri esseri inferiori (gli esseri non personali: i viventi non-razionali e i non-viventi),
egli causa di più e meglio. Subisce, come ogni altro essere, la causalità dell’universo; ma, allo
stesso tempo, si sottrae a un‘esistenza meramente passiva ed è capace di attività non-riflessa,
non-meccanica, non-obbligata, non-necessaria. Questa è l’esperienza della libertà: non è
un’esperienza secondaria o dubbia, bensì un’esperienza primaria ed indubitabile. L’io si
esperisce come causa di livello superiore, come causa che non è a sua volta del tutto causata,
ma ha qualcosa di creativo.”
11
E di seguito, a sottolineare la portata esistenziale e morale di
questa esperienza: “L’io non avrebbe senso se non fosse inteso come soggetto autonomo, sia
pure in grado minimo, di azione libera e di personale responsabilità. Gli altri, il “tu” cui l’io si
rivolge in ogni momento, sono parimenti visti come soggetti liberi e responsabili: questo
spiega la dialettica di tutti i rapporti umani, dall’amicizia all’ostilità, dalla gratitudine al
risentimento, che costituiscono la fenomenologia della morale”
12
Vi è quindi, o per ipotesi o
come evidenza, una libertà di azione del soggetto agente,
13
ed essa è necessaria all’esistenza
stessa dell’agente in quanto tale.
Serve però precisare ulteriormente il concetto di libertà. “Con il termine libertà ci si può
riferire anche alla possibilità di decidersi a favore di fini e preferenze. Questa libertà viene
definita libertà del volere”
14
Mentre da un lato sembra necessario assumere, oltre a libertà di
azione anche libertà di volere, riducendosi la prima altrimenti a scelta obbligata, senza alcuna
partecipazione delle nostre capacità razionali nel valutare le informazioni presenti e passate a
nostra disposizione, né della nostra volontà nel far propri determinati fini, dall’altro tuttavia
“l’assunzione di libertà di volere appare insostenibile: ogni decisione sensata richiede che noi
disponiamo di preferenze, in base alle quali noi scegliamo la migliore alternativa per noi. Senza
queste preferenze ogni alternativa sarebbe per noi indifferente e la decisione per una di queste
8
A questa segue il problema del qualificare una azione come libera o meno, che dipende da fattori esterni: nel caso
specifico della separazione dei rifiuti domestici assumiamo che l’azione sia libera.
9
Tale principio può essere formulato come segue “Il mondo è un sistema causalmente determinato”. Cfr. F. v.
Kutschera 1981, cap. 6.4.
10
Il termine “causare” sia qui inteso ampiamente ed in riferimento al linguaggio naturale escludendo cioè la stretta
interpretazione che di esso danno le scienze fisico-naturali, come in seguito chiariremo.
11
A. Livi, 1990, p. 49.
12
A. Livi, 1990, p. 50. Come vedremo nei prossimi paragrafi proprio in questo riconoscimento dell’altro l’azione
diventa sociale.
13
La prima conseguenza di ciò, come vedremo nel paragrafo dedicato alla spiegazione dell’azione e come emerge con
evidenza dalle citazioni di A. Livi, è che tali azioni non possono essere spiegate causalmente (in senso stretto). Per
questa ragione abbiamo ritenuto necessario sottolineare questa caratteristica dell’agire umano.
14
F. v. Kutschera, 1991, p. 305.
7
sarebbe frutto di puro arbitrio”
15
Per cui “ogni decisione sensata presuppone delle preferenze
ma allo stesso modo anche ogni processo di apprendimento dall’esperienza presuppone ipotesi
ed aspettative antecedenti, senza che si possa affermare che le esperienze possano sempre e
solo confermare i nostri pre-giudizi e mai rappresentare uno stimolo a modificarli”
16
. Accade
con le nostre preferenze e fini ciò che accade per le teorie scientifiche: le esperienze,
particolarmente se anomale in base alle ipotesi comunemente accettate, possono essere
occasione per decidere di cambiare teoria come per decidere di mantenerla spiegando
l’anomalia con l’aggiunta di nuove proposizioni oppure addebitandola ad errori di misurazione o
osservazione. E’ pertanto abbastanza riduttivo pensare esistano esperimenti cruciali e, allo
stesso modo, esperienze assiologiche che obblighino l’agente razionale a scegliere una
determinata alternativa, annullando di fatto la sua libertà di volere. Vi è invece un continuo
confronto razionale tra ipotesi, sia scientifiche che assiologiche
17
, considerate valide, per
eredità biologica, culturale, sociale o per decisione, ed esperienze che hanno un significato di
per se stesse ed in relazione alle condizioni già date
18
. “Non c’è dunque una libertà del volere
illimitata, c’è però la possibilità, nel quadro di certe alternative pre-date, di scegliere propri fini
e di sviluppare proprie idee assiologiche. Le nostre preferenze non dipendono né solamente da
inclinazioni innate e da idee assiologiche apprese, né dalla nostra esperienza assiologica, bensì
sono anche prodotto di una serie di decisioni, ognuna delle quali presuppone già preferenze,
ma le può anche modificare.”
19
Solitamente quando si parla di azioni si intendono azioni intenzionali, cioè quelle nelle quali
l’attore persegue un determinato fine. Azioni intenzionali sono tutte le azioni razionali, anche
se non sempre si può ad esse riferire un fine specifico se non quello di ottenere con la scelta
dell’alternativa ottimale il risultato migliore per se stessi. Ogni azione ha i presupposti minimi
per poter essere compresa razionalmente, nel senso soggettivo in cui definiamo questo
concetto, che comprende, con difficoltà crescenti per quanto riguarda i motivi tradizionale ed
15
L’arbitrarietà della decisione implica l’impossibilità si spiegare l’azione in termini razionali riducendo ogni
comprensione alla ricerca di modelli stocastici di rappresentazione idonei o, come più di frequente accade, con
discutibile guadagno, all’adattare il comportamento umano a modelli matematici tramite assunzioni al di fuori del reale
e del plausibile. Uno sviluppo di questo genere si osserva in J. S. Coleman, 1964. Esso è certamente vaniloquio nella
misura in cui vuole spiegare l’azione, molto utile invece fintanto si limita alla previsione di azioni possibili. Ciò non
implica tuttavia arbitrarietà nelle decisioni come nel prossimo paragrafo spiegheremo meglio.
16
F. v. Kutschera, 1991, p. 302 ss..
17
Assiologico perché riguardano le preferenze e le probabilità soggettive sulle quali basiamo le nostre scelte di azione.
18
Non vale quindi la distinzione tradizionale tra empirismo - razionalismo che si basa sull’alternativa a-priori e a-
posteriori, estremamente imprecisa. Cfr. F. v. Kutschera, 1981 cap. 9 Lo stesso (pseudo) conflitto si ripropone
parallelamente in ambito di teoria dell’azione e riflessione etica.
19
F. v. Kutschera 1991, p. 302-308 Questa interpretazione della nascita e mutamento delle preferenze ha, nonostante le
imprecisioni che formulazioni del genere implicano, due vantaggi da non sottovalutare. Essa pone in pieno valore il
ruolo delle libere decisioni degli agenti, senza le quali sarebbe giustificata l’accusa di sostenere una antropologia
meccanicistica rivolta di sovente ai teorici dell’azione razionale, distinguendola al contempo da approcci di
determinismo psicologico (cfr. G. Wiswede, 1987) e non indugia nel presupposto troppo rigido della stabilità delle
preferenze (cfr. G. J. Stigler e G. S. Becker, 1977), mutato dall’economia neoclassica, senza cadere in spiegazioni ad
hoc con l’introduzione arbitraria di mutamenti nelle preferenze dei soggetti studiati. In sede di operazionalizzazione si
dovranno certamente specificare queste semplici affermazioni sul mutamento nelle preferenze.
8
affettivo
20
, tutti e quattro i tipi di azione di Max Weber.
21
L’agente si trova infatti, per
definizione, in una situazione di decisione con almeno due modalità di azione alternative:
compiere F o tralasciarlo. Se conosciamo le sue struttura delle preferenze e le caratteristiche
della situazione, è possibile spiegare razionalmente la sua scelta. Questo concetto di razionalità
non è comunque identico a quello weberiano di senso: quest’ultimo invece comprende come
caso particolare il primo.
22
Alcuni cenni di teoria delle decisioni serviranno ora a chiarire la struttura di una azione
razionale, differenziandola al contempo dalla generica azione dotata di senso. “Nella teoria
delle decisioni si considerano situazioni S, nelle quali una persona può scegliere tra molte
modalità di azione F
1
,...F
n
, che si escludono a vicenda”
23
. (Per semplificare assumiamo che le
modalità di azione siano finite e che venga sempre scelta una modalità, sia anche quella di non
compiere l’azione. Trascuriamo la questione che riguarda quali e quante modalità di azione
vengano scelte.
24
) “Assumiamo in primo luogo, che ogni modalità di azione F
i
porti ad un
determinato risultato p
i
(i=1, ...n).
25
In un caso del genere si parla di una decisione in
situazione di certezza. I risultati p
i
hanno un determinato valore solo per A, colui che decide la
modalità di azione.”
26
Ora assumiamo, che i valori di utilità dei risultati p
i
possano essere
espressi persino in numeri ua(pi).
27
Una azione Fi è allora una azione razionale di A in S,
quando il risultato pi , confrontato con tutti i possibili risultati, è ottimale per A. “Per giudicare
la razionalità della azione di A non ha rilievo il fatto che le convinzioni dell’attore siano giuste o
20
Nel secondo capitolo studieremo il rapporto tra razionalità ed agire tradizionale. Per quanto riguarda la razionalità
dell’agire affettivo cfr. H. Esser, 1991a, p.73.
21
Cfr. M. Weber, 1980a, pp. 12-13.
22
Un’azione razionale è dotata di senso ma non ogni azione concreta dotata di senso lo è in modo che possa essere
compresa secondo lo schema di spiegazione razionale, benché teoricamente nulla osti.
23
F. v. Kutschera, 1981, p. 122
24
A proposito della percezione delle modalità di azione B. P. Priddat, 1995, pag. 127-146 solleva critiche molto
radicali: per l’Autore non si può affermare che le alternative siano date. Egli propone, appoggiandosi ad una distinzione,
che si trova nell’opera di Bruno Frey, in particolar modo in B. Frey, 1990, pag. 181, di distinguere tra spazio di
possibilità “obiettivo” e “ipsativo” (Da ipse, cioè creato dallo stesso agente). L’economia, e le scienze sociali in genere,
dovrebbe cercare nell’ermeneutica i mezzi necessari all’interpretazione della percezione ipsativa dello spazio di
possibilità. Noi sosteniamo che le alternative sono date soggettivamente in virtù del riconoscimento, pur imperfetto,
della loro esistenza oggettiva, in accordo con una epistemologia realista. Dubitiamo che l’ermeneutica possa fornire
strumenti adeguati per la comprensione dell’azione sociale; per questa questione rimandiamo comunque a R. Boudon,
1980 p. 184. Se si dimostrasse l’esigenza, per comprendere ulteriori azioni, come quelle quotidiane ed abitudinarie, di
complicare la nostra teoria della scelta e dei fini, sembra migliore la via proposta da H. Esser, 1991a, p. 61-75. A ciò si
aggiunge che la posizione antirealista di Priddat sembra alquanto debole, come discute ampiamente B. Abel, 1983 In
conclusione Priddat giunge ad una teoria sistemica dell’attore e afferma: “Questo modo di osservazione è in tal senso
interessante, in quanto scarica il peso che gli assiomi di razionalità impongono agli attori. Gli individui possono essere
lasciati nel loro comportamento empirico ed essere osservati senza dover soddisfare alle enormi aspettative normative
che il concetto di razionalità carica su di essi” Qui la critica alla teoria della scelta razionale è da noi condivisa: proprio
con la nostra teoria logica della spiegazione razionale crediamo di ridurre questo peso, pur conservando l’impianto
principale di questo approccio. La richiesta di orientamento normativo delle azioni sociali, comune alle teorie
sistemiche, non sembra del resto caricare meno peso sugli attori.
25
Il risultato può essere pure visto, nei casi più complessi, come la somma di più risultati parziali.
26
F. v. Kutschera, 1981, p. 122.
27
Questo presupposto: “su R è definito un concetto di valore u metrico” è formalmente discutibile. (Dove R è l’insieme
di tutti i possibili risultati di una azione). Alcuni spunti di discussione si trovano in A. Corradini, 1989. In aggiunta ciò
può creare alcuni problemi in fase di operazionalizzazione, di cui ci occuperemo quando presenteremo la nostra ricerca.
Cfr. J. Friedrichs et al. 1993, pag. 2-15.
9
meno;
28
cioè se veramente l’azione oggettivamente scelta porti oggettivamente al risultato
previsto (come richiede ad esempio Vilfredo Pareto
29
perché le azioni possano essere definite
logiche) o se le preferenze di A sono, in un qualche senso o secondo una qualche gerarchia
extra individuale, corrette oppure se vi sia corrispondenza ai “veri interessi” a lungo termine
dell’attore. La razionalità si misura solamente in relazione alle preferenze e alle convinzioni
dell’agente nel momento della sua decisione
30
rispetto alle modalità di azione.”
31
Un secondo tipo di scelta, detta “sotto condizioni di rischio”, si ha quando i risultati delle
possibili alternative di azione F
i
non sono determinabili con certezza dall’attore stesso. Per cui
per ogni alternativa F
i
ci sono più possibili risultati p
1m
,...p
im
e tutti hanno per A una probabilità
non nulla. Per semplificare si assume che uno solo dei risultati si verifichi, per cui
necessariamente la somma delle probabilità dei singoli risultati è pari ad uno. Il valore atteso
di ogni alternativa è di conseguenza la somma del prodotto del valore del risultato e la sua
probabilità; il criterio di razionalità di una azione risulta immutato: è razionale la scelta che
massimizza il valore atteso di utilità dell’azione.
Come terza possibilità si considera spesso la decisione in condizione di incertezza, nella
quale A non è a conoscenza delle probabilità da assegnare ai possibili risultati di ogni modalità
di azione F
i
. In una tale situazione si può agire secondo diverse massime, senza poter dire
quale sia in ogni caso la migliore, come avveniva invece nelle condizioni precedenti. Si può
tuttavia supporre, come “John C. Harsanyi ed altri hanno a ragione sottolineato, che i casi in
cui a non riesce ad attribuire ai possibili risultati nemmeno una probabilità imprecisa o
comparativa, siano ben rari. Una stima imprecisa delle possibilità di successo di un alternativa
dovrebbe essere sempre possibile.”
32
28
In questo senso la teoria delle decisioni rimane un semplice modello astratto di agente e non si trasforma in teoria
etica, benché di questa ne sia una buona base. Punto decisivo è il significato che si attribuisce all’esperienza assiologica
soggettiva.. Essendo nostro fine spiegare l’azione razionalmente basterà di questa l’interpretazione minimale fornita.
29
Cfr. V. Pareto, 1964, p.65 cit. in J. Freund, 1976, pp. 68-74.
30
Questa è evidentemente una semplificazione ulteriore. Dopo aver deciso A può, per diversi motivi, agire
diversamente. Questa possibilità è stata discussa da G. Ainslie, 1986 e R. H. Strotz, 1955, citati in J. Coleman, 1995, p.
548 attraverso la coppia di concetti forza di volontà-debolezza di volontà e poi ripresa, in modo molto interessante da J.
Elster, 1990. Questo Autore propone il modello della razionalità imperfetta, sull’esempio di Odisseo, che al momento t
decise di porre fuori uso la propria razionalità per il momento t+1 per non rischiare un inversione nelle sue preferenze.
Questo discorso rappresenta un ampliamento necessario della teoria delle decisioni, che considera, almeno a livello
elementare, solo serie di decisioni indipendenti e non strategicamente connesse. Secondo Elster il comportamento
strategico è un fenomeno molto diffuso sia tra gli uomini, come individui e come attori sistemici, sia, in maniera meno
netta, nel mondo animale. Una applicazione in teoria sociale di modelli di comportamento strategico si trova in J. S.
Coleman, 1995 Un altro problema, per semplicità spesso dimenticato, sono i tentativi di razionalizzazione degli attori
dopo una decisione, che portano a cambiamenti nelle preferenze, empiricamente dimostrati, detti il “sour grapes
problem” in relazione ad una nota fiaba di Fedro. Entrambe le questioni verranno tralasciate, volendo noi spiegare una
azione molto semplice.
31
F. v. Kutschera, 1981, p. 123.
32
Ibidem, p. 125.
10
Ragione per la quale possiamo formuliamo un criterio di razionalità unitario per i primi due
casi, che dovrebbero rappresentare la stragrande maggioranza delle situazioni:
33
R) Una azione è razionale quando il valore atteso del suo utile è
massimo.
34
33
Nell’ambito delle teorie razionali dell’azione si parla, riferendosi a questi due casi, di teorie SEU (subjective expected
utility). Queste sono quelle più frequentemente utilizzate all’interno dell’approccio di scelta razionale.
34
F. v. Kutschera, 1981, p. 125. C. G. Hempel, 1977 conclude, in base all’osservazione che nella situazione di decisione
in condizioni di incertezza ci sono molti criteri di razionalità, che non esiste in assoluto alcun criterio di razionalità.
Ammesso che così fosse, e così non è totalmente, come abbiamo osservato, ciò non comporta particolari conseguenze:
si potrebbe allora parlare di spiegazioni razionali di diverso tipo, riferendosi a diversi tipi di situazioni di decisione.
Questo principio R rappresenta l’assunto più generale ed importante dell’approccio di scelta razionale. Esso pone un
criterio di razionalità della scelta, non un criterio di razionalità del sapere e solo secondariamente, e non
necessariamente, un criterio di razionalità dell’agire. In questo senso è compatibile con altri approcci sociologici, come
quello, che di Alfred Schütz, che utilizzeremo nello studio del rapporto tra habiti e razionalità.
11
2. La spiegazione dell’azione
Scrive James Coleman: “L’azione razionale degli individui ha una sola attrattiva come
fondamento per la teoria sociale. Se un’istituzione o un processo sociale possono essere
considerati in termini di azioni razionali degli individui, allora e solo allora, possiamo dire che
essi sono stati spiegati. Il vero significato dell’azione razionale è che quell’azione diventa
comprensibile, una azione su cui non dobbiamo più porci domande.”
35
Questa pretesa della
teoria della azione razionale, che si può facilmente ritrovare anche in altri suoi
rappresentanti,
36
deve essere sicuramente posta in discussione, soprattutto alla luce delle
osservazioni sul concetto di azione razionale riportate nel precedente paragrafo. A questo fine
giova fare chiarezza su concetti basilari come sapere, conoscere, comprendere, spiegare e
motivare: essi serviranno da base definitoria sicura per ulteriori riflessioni sul significato della
spiegazione razionale delle azioni umane.
37
Il primo concetto da definire è quello di sapere. Dopo lunga discussione Kutschera giunge
al seguente enunciato: ”Solo il concetto di convinzione vera può essere accettato come
concetto generale di sapere.”
38
“Sapere viene diviso in due componenti: in quella soggettiva
della convinzione ed in quella oggettiva della verità”
39
Entrambe le componenti rappresentano
in sé il grado massimo: non si può essere più che convinti ed un enunciato non può essere più
che vero.
40
Il secondo passo è la definizione di conoscenza: “conoscere è il passo dal non sapere al
sapere”.
41
Esistono diverse forme di conoscenza: “accanto al conoscere che uno stato di cose
esiste
42
, si può conoscere il perché ed il fine per cui qualche cosa è quello che è oppure come
qualche cosa è sorto ed altro ancora.”
43
Tutto ciò può essere detto un comprendere dei fatti.
35
J. Coleman, 1986, p. 1.
36
Per ricordarne solo due cfr. G. S. Becker, 1983 e L. V. Mises, 1949.
37
Essendo tale il nostro scopo non ci attarderemo eccessivamente sulle molteplici questioni che ogni nostra
affermazione potrebbe legittimamente sollevare. Per la stessa ragione faremo riferimento quasi esclusivo per queste
riflessioni alle opere di F. v. Kutschera.
38
F. v. Kutschera, 1981, pag. 76.
39
F. v. Kutschera, 1981 pag. 16
40
Nella definizione di sapere non compare il criterio di fondatezza e di conseguenza non si pone il problema della
falsificazione o verificazione di ipotesi teoriche, solitamente troppo semplicisticamente affrontato. Per due principali
ragioni. 1) Ogni motivazione è di per sé solo relativa, il fondamento epistemico assoluto non si dà. Ciò non implica però
una analoga negazione della possibilità di un fondamento ultimo sul piano aletico. Cfr. S. Galvan, 1989, p. 13, 2) La
scienza (sapere fondato) ha significato e significa sicuramente un grosso progresso nel sapere, ma non tutto il sapere,
che in un certo momento viene giudicato come non scientifico, è non sapere. Le evidenze per esempio, sono ugualmente
sapere, anche se non sono fondate scientificamente. Teorie radicalmente nuove vengono solitamente respinte come non
scientifiche, pur rivelandosi molte volte sapere. Cfr. F. v. Kutschera, 1993. Questa definizione non esclude una
posizione fallibilista, sicuramente però una relativista o radicalmente scettica.
41
F. v. Kutschera, 1981, p. 9
42
Semplificando parleremo a volte di stati di cose e fatti, a volte di enunciati ed enunciati veri, senza ogni volta
ricordare la relazione che tra esse intercorre (Si spiegano enunciati che rappresentano stati di cose).
43
F. v. Kutschera, 1981, p. 79
12
Il terzo passo è ora l’impegnativa definizione parallela di comprendere e spiegare e delle
loro diverse forme. “Compito di una analisi del comprendere è di distinguere le varie forme di
comprendere e di dare i criteri secondo i quali un comprendere è di un tipo o dell’altro.”
44
In
questo contesto ci interessiamo solo al comprendere teorico, non pratico;
45
il primo si
differenzia in diverse forme,
46
delle quali ci limitiamo a trattare solo le cinque principali.
In sociologia (a partire da Wilhelm Dilthey, Wilhelm Windelband e poi Weber) si è
lungamente discusso sulla differenza tra spiegare e comprendere: tra i due concetti non vi è
però contrapposizione:
47
il contrasto può essere infatti eliminato evidenziandone la reciproca e
necessaria dipendenza. “Il criterio generale perché qualcuno ha compreso qualche cosa, è che
lo sappia spiegare.”
48
Per cui alle forme del comprendere corrispondo le rispettive forme di
spiegare: parliamo di spiegazione e comprendere causale, razionale, intenzionale, genetica,
funzionale.
Comprendere (spiegare) causale. “Noi comprendiamo perché un evento si è verificato,
quando riconosciamo le sue cause
49
”.
Comprendere (spiegare) razionale. “Noi comprendiamo poiché qualcuno fa qualche cosa,
quando riconosciamo che ciò è razionale nel senso delle sue convinzioni e preferenze oppure
quando veniamo a conoscenza dei motivi
50
della sua azione”
51
.
Comprendere (spiegare) intenzionale. “Noi comprendiamo le intenzioni o i fini, che
qualcuno con una azione persegue, quando conosciamo, che cose egli con ciò vuole
raggiungere”
52
.
44
F. v. Kutschera, 1981, p. 86
45
Se io comprendo come funziona il mio apriscatole, allora ho raggiunto una comprensione pratica, di cui però qui non
ci interessiamo.
46
Cfr. ad esempio Wolfgan Stegmueller, 1969, pp. 72-90.
47
Più precisamente non vi è contrapposizione tra lo spiegare ed il comprendere scientifico. Il comprendere empatico ed
esperienziale, di cui parla Dilthey non si lascia tradurre in precise affermazioni scientifiche, né è dominio esclusivo
delle scienze umane, non contribuendo con ciò a fondare una distinzione scienze della natura - dello spirito molto
dubbia.
48
F. v. Kutschera, 1981, p. 86. Lo stesso concetto è espresso nella citazione di Coleman in inizio di capitolo. Cfr. anche
H. Esser, 1991a.
49
F. v. Kutschera, 1981, p. 81. Il concetto di causa è molto controverso ed è probabilmente illusorio pensare di
contenere tutte le possibili accezioni che ne diamo in un unica definizione. Sembra comunque corretto porlo in
relazione a quello di leggi naturali. Queste sono enunciati veri sotto forma di leggi. Le scienze naturali hanno il compito
autonomo di definire quali di queste leggi siano vere e quali false. La ricerca logica invece quella di definire che cosa
siano enunciati in forma di leggi. Una proposizione della forma “Ogni F è G ha solo allora forma di legge, quando per
oggetti a, che non sono F, vale la proposizione ipotetica irreale Fosse a un F, allora anche un G” [F. v. Kutschera,
1981, p. 98] Leggi causali sono un tipo particolare di leggi naturali. Per cui un evento p è causa di un evento q, e q è
l’effetto di p, quando esiste una spiegazione causale di p grazie a q. Questa definizione di causa esclude cause modali,
pur frequenti nel linguaggio naturale, e non è per niente probabilistica. Per una teoria modale della causalità cfr. F. v.
Kutschera, 1993, p. 40 ss..
50
Come motivi di una azione si indica di solito ciò che ha mosso l’agente, cioè ciò che nelle sue riflessioni ha dato il
colpo decisivo. Preferenze e ipotesi di un attore si possono definire in modo generale solo possibili motivi di una
azione. Esse sono motivi reali solo in quanto effettivamente sono state prese in considerazione dall’attore. Informazioni
che conducono alla decisione dell’azione, possono essere allo stesso modo qualificate come motivi.
51
F. v. Kutschera, 1981, p. 81.
52
F. v. Kutschera, 1981, p. 81.
13
Comprendere (spiegare) funzionale. “Noi comprendiamo a che cosa serve qualche cosa,
quando conosciamo (...) la sua funzione. E noi comprendiamo come funziona qualche cosa,
quando conosciamo l’insieme di effetti e controeffetti delle parti”
53
. Se si concepisce l’uomo, o
la società, come una macchina
54
, questa tipo di comprensione acquista una notevole rilevanza
anche nelle scienze sociali.
55
Anche nelle spiegazione di effetti emergenti questa forma di
comprendere, assieme a quella genetica, può essere d’aiuto se si presuppone che solo sotto
certe condizioni, in una situazione data, possa mostrarsi un certo fenomeno. Si suppone cioè
che un meccanismo, deterministico o probabilistico,
56
possa essere messo in moto solo da un
determinato input. La spiegazione del fatto che il socialismo negli Stati Uniti per lungo tempo
non abbia preso piede, come in Werner Sombart, o che il capitalismo non sia nato in Italia
settentrionale, come in Weber, sono spiegazioni di questo genere.
Comprendere (spiegare) genetico. “Noi comprendiamo come qualche cosa è sorto quando
conosciamo quali eventi e situazioni portarono ad esso”
57
. Si può dire che sia
nell’individualismo metodologico che nelle teorie dell’azione razionale è implicita una
spiegazione genetica: i fenomeni sociali nascono infatti come conseguenza voluta o inattesa
del comportamento umano e pochi sono in realtà interessati a negare questa ingenua
constatazione. I processi di emersione sono tuttavia spesso sì complessi da sembrare inutile
esercizio, soprattutto per la comprensione dei sistemi sociali, preoccuparsi di ricostruirli a
partire dalla loro naturale origine.
58
Le brevi osservazioni sulle diverse forme di comprensione di cui sopra ci inducono ad
inserire una breve digressione. Esse vogliono infatti indicare una semplice, quanto dimenticata,
modalità di rapporto tra tradizione sistemica e tradizione individualista nelle scienze sociali.
59
Ad ognuna di esse competono particolari forme di spiegazione (principalmente funzionale per
l’una, razionale per l’altra) e ognuna si basa su specifici presupposti, più o meno accettabili. La
proficuità dell’approccio nello spiegare il sistema sociale si può misurare solo tenendo conto
53
F. v. Kutschera, 1981, p. 82.
54
Al di là della sua rappresentazione e congegnatura fisica, la macchina si caratterizza per una piano macchina, nel
quale sono riportati tutti i possibili inputs, outputs e stati della macchina e specificato, da quali stati (con quali inputs)
essa (con quali probabilità) passa ad altri stati (con quali outputs). Cfr. F. v. Kutschera, 1981, p. 271-73. Considerando
l’uomo una macchina si potranno quindi spiegare solo comportamenti.
55
La tradizione durkheimiana, poi sistemica-funzionale, parte da questa astrazione. Per questa ragione da essa ci si
possono aspettare spiegazione funzionali.
56
Più esattamente, come vedremo, nel caso di una macchina a funzionamento probabilistico, non si spiega
funzionalmente lo stato di cose ma una proposizione del tipo: “lo stato di cose a è probabile”.
57
F. v. Kutschera, 1981, p. 82.
58
Coleman dedica due corposi capitoli dell’opera “Foundations of Social Theory” per dare una spiegazione genetica
delle norme sociali, riuscendo a ricavarne un interessante abbozzo, comunque sicuramente non completo. Si comprende
perciò come, se ci ponessimo il fine di spiegare il sistema sociale, sia molto più conveniente partire da norme sociali
come date.
59
Pur consapevoli della rozzezza di tale classificazione la adottiamo per esigenze di brevità. La ricaviamo da V.
Vanberg, 1975 e A. Bohnen, 1975; essa è poi ripresa in termini epistemologici da B. Abel 1983. G. Kirchgaessner,
1991, combinando la dimensione di “oggetto di ricerca economico e non economico” e di “metodo individualistico e
non individualistico” raffina la stessa distinzione.
14
dello spazio di possibilità che esso logicamente consente ed ha veramente poco a che fare con
scelte di tipo normativo,
60
che piuttosto si configurano come derivazioni in senso paretiano.
Ultimo concetto da definire, prima di discutere le forme di spiegazione che
specificatamente riguardano questa ricerca, è quello di motivazione. “Una motivazione è la
risposta ad una domanda sul perché. Questa domanda può essere in primo luogo una
domanda sulle cause, cioè i motivi reali od ontici dell’evento che si spiega, per cui le
motivazioni che rispondono a tali domande sono dette motivazioni causali.”
61
“La domanda sul
perché può vertere in secondo luogo su motivi in un senso più ampio, nel senso che tutti i fatti,
dai quali si dà che uno stato di cose p sussista, sono considerati motivi del sussistere di p.
Siccome da questi motivi si può conoscere che lo stato di cose p sussiste, si dicono motivi di
riconoscimento o di ragione.”
62
Motivazioni che si basano su questo tipo di motivi verranno
dette epistemiche. Il cambiamento della pressione atmosferica è il motivo in senso stretto del
movimento della lancetta del barometro; da questo movimento si può riconoscere che la
pressione atmosferica è mutata. Dalle affermazioni di una persona si può riconoscere in quale
stato psicologico essa sia, queste affermazioni non sono però le cause dello stato psicologico.
Nelle scienze sociali si scoprono motivi epistemici probabilistici
63
e talvolta anche sicuri, più
raramente motivi reali od ontici. “In una motivazione
64
la proposizione che deve essere
motivata, detta E, viene presentata come la conseguenza di una o più proposizioni motivanti
A
1
A
n
”
65
.
Disponiamo ora di tutti le nozioni necessarie per discutere lo statuto epistemologico da
concedere alle spiegazioni razionali e per rispondere alle pretese dei teorici dell’azione
razionale, come quella implicata nella citazione di Coleman in apertura di capitolo.
60
Se per esempio l’uno sottenda una antropologia umanista, cfr. J. Coleman, 1995 p.15 o meno o se gli uni siano
sostenitori di atteggiamenti individualisti ed altre amenità.
61
F. v. Kutschera, 1981, p. 91.
62
F. v. Kutschera, 1981, p. 91
63
Motivi epistemici probabilistici sono, più correttamente, motivi epistemici di enunciati del tipo: “La presenza di q
rende probabile p, senza che q sia la causa di p”.
64
Si distinguono altri due tipi di motivazioni a seconda della modalità con cui l’explicandum E è derivato dall’explicans
A. Se E è conseguenza analitica di A la motivazione sarà detta deduttiva, se invece vale la proposizione “E poiché
sussiste A” la motivazione è detta modale. “Mi sono rotto le gambe perché sono caduto in bicicletta” contiene una
motivazione modale non essendo il rompersi le gambe conseguenza analitica del cadere in bicicletta, pur potendo
diventarlo aggiungendo altre proposizioni esplicative.
65
F. v. Kutschera, 1981, p. 87. Una motivazione (deduttiva o modale) di E con A
1
A
N
è formalmente corretta quando:
1)le proposizioni A
1
A
N
sono vere; 2)tra le proposizioni non si trovano espressioni sinonime di E; 3)E segue (in modo
analitico o modale) da A
1
A
N
. La prima condizione è molto criticata: economisti come M. Friedman, 1953, p. 15-19,
argomentano che una motivazione, o una teoria che contiene motivazioni, deve essere giudicata non in base alla verità
dei suoi presupposti ma dei suoi risultati. Ciò potrebbe anche essere accettato, se per esempio i presupposti fossero
irreali nel terzo senso, (tipi ideali) secondo la tipologia di E. Nagel, 1963, p.211-219. Continua inoltre a valere la
massima tomistica a noesse ad esse non valet illatio per cui se i presupposti sono falsi non diverse saranno le
conclusioni. La seconda condizione si pone per evitare circoli logici: concludere da E ad E è formalmente corretto ma
non molto significativo Correttezza formale non è però sufficiente perché una motivazione sia utilizzabile: la verità
delle proposizioni A
1
A si deve poter riconoscere senza appoggiarsi alla validità di E, che si vuole dimostrare. La
struttura delle dimostrazioni logiche è un esempio di motivazione non circolare corretta che mostra l’utilità di una
motivazione, solo quando si dichiara assieme a quali proposizioni vere ci si appoggia.
15
In accordo con quanto detto precedentemente è utile ora specificare i presupposti di
questo approccio, o per seguire due termini abusati, di questo programma di ricerca
66
ovvero
programmi di conoscenza
67
. Quale è quindi il nocciolo nomologico di questa tradizione di
ricerca?
Scrive Gary Stanley Becker: “I presupposti del comportamento volto alla massimizzazione
degli utili,
68
dell’equilibrio di mercato
69
e della stabilità delle preferenze,
70
assunti in senso
stretto e senza alcuna limitazione, formano il nocciolo dell’approccio economico alle scienze
sociali, così come io lo vedo.”
71
A titolo di riprova, Johnatan H. Turner
72
afferma, con maggiore precisione: “Assunzioni
della teoria della scelta razionale: 1) Gli uomini sono orientati ad intenzioni e fini. 2) Gli uomini
possiedono insiemi di preferenze o utilità ordinate gerarchicamente. 3) Nella scelta della
modalità di comportamento, gli uomini compiono calcoli razionali
73
in relazione a: 3a) l’utilità
della modalità di azione considerando la propria struttura gerarchica di preferenze; 3b) i costi
di ogni alternativa secondo l’utilità prevista; 3c) il miglior modo di massimizzare l’utilità totale.
4) Fenomeni sociali e strutture sociali emergenti, decisioni collettive e comportamento
collettivo sono in ultima analisi il risultato delle scelte razionali compiute da individui che
massimizzano l’utile. 5) Fenomeni sociali emergenti che derivano dalle scelte razionali
costituiscono un insieme di parametri per le scelte razionali successive degli individui nel senso
che determinano: 5a) la distribuzione delle risorse tra individui; 5b) la distribuzione delle
66
Imre Lakatos, 1974
67
Hans Albert, 1976, 1987, et al. (Erkenntnisprogramm) Preferiamo questa formulazione del concetto in quanto meno
compromesso con la metodologia dei programmi della ricerca scientifica di Imre Lakatos, ed obiettivamente più
generale. Questo non significa che condividiamo l’uso che ne fa Albert, che presenta preoccupanti sfumature di
razionalismo non critico.
68
Noi ci siamo limitati, con il principio R del paragrafo precedente, a definire un criterio quasi unico di razionalità della
scelta, rifiutando l’assunzione generale di comportamento massimizzante. Tra le azioni che possono essere spiegate
razionalmente certamente vale questo principio, anche se non con necessità in modo consapevole.
69
Assunzione tipicamente economica; sociologicamente significa postulare l’esistenza di mercati, con relativa offerta e
domanda e prezzi-ombra per ogni bene in qualche modo scarso, (oggettivamente o almeno soggettivamente) dai
bambini alla domanda di servizi odontoiatrici. L’assunto di scarsità, di sapore sociobiologico, è severamente criticato da
M. Tietzel, 1988. J. Coleman, 1995, p. 80-85, con l’intenzione di dare sostanza ai molti mercati di cui si postula
l’esistenza, introduce quello sovraordinato dei “diritti di azione”. Gli attori regolano le loro interazioni scambiandosi
non direttamente i beni ma il diritto ad agire sull’altro in determinati modi.
70
Come abbiamo mostrato nel capitolo precedente assumere stabilità di preferenze totale annulla la libertà di volere
dell’attore oltre ad essere lontano dal vero. Becker utilizza del resto un concetto di preferenza molto generico, arrivando
ad esempio ad affermare che ne esistono solo due: benessere psicofisico e riconoscimento sociale. Ad un livello tale di
astrazione può anche valere che le preferenze non mutino ma buona parte della capacità esplicativa dell’approccio è
persa, dovendosi costruire per ogni azione immaginarie teorie su quali modalità di azione massimizzino il benessere
psicofisico e il riconoscimento sociale.
71
G. S. Becker, 1983, p. 4, traduzione propria. A motivo di questi presupposti, Becker è considerato il più radicale tra i
sostenitori della teoria della scelta razionale. Per questo si guadagna, da parte di M. Tietzel, 1988, l’espressione:
“Becker è come il barocco nella storia dell’arte”. I suoi maggiori e controversi risultati riguardano la sociologia della
famiglia. Cfr. G. S. Becker, 1981, W. Meyer, 1987 e T. Klein, 1996.
72
J. H. Turner, 1991, (Tavola 17-1). Turner non è un sostenitore dell’approccio individualistico. Traduzione propria.
73
Non è in realtà necessario che gli attori compiano consapevolmente questi calcoli: si può agire razionalmente in modo
intuitivo; questa condizione può quindi valere in via ipotetica, cioè “come se l’attore compia calcoli razionali.” Non per
questo la motivazione perde la sua capacità di fornire motivi reali dell’azione: semplicemente la scienza, per soddisfare
ai criteri di oggettività, presenta analiticamente ciò che in realtà può succedere diversamente, ad esempio
intuitivamente, non essendo del resto suo fine riprodurre i ragionamenti dell’agente sotto esame.
16
opportunità connesse con le varie modalità di azione 5c) la distribuzione e la natura delle
norme e obbligazioni in una determinata situazione."
74
Consistendo una spiegazione razionale
di una azione in una motivazione si possono riportare questi assunti in uno schema sillogistico.
Possiamo scrivere, avvalendoci della terminologia della teoria delle decisioni:
La persona A ha queste e quelle preferenze e aspettative riguardo alle conseguenze delle
alternative di azione che, nella situazione S, secondo le proprie convinzioni, si trova di fronte
L’utile atteso di F per a è in S almeno così grande come quello di ogni altra alternativa
Nella situazione S per A è razionale agire F
75
Come si può subito notare viene motivata una proposizione sulla azione F di A,
precisamente: “In S F è per A razionale”. “Una spiegazione razionale di una azione non
consiste infatti in una motivazione che conclude il verificarsi dell’azione, ma in una motivazione
del fatto che questa azione era razionale.”
76
Se noi diciamo: “L’azione X è per A in S razionale”,
non affermiamo che A in S ha agito X, cosa che si potrebbe affermare al massimo in maniera
probabilistica, al contrario noi motiviamo l’enunciato “X è razionale”. Noi possiamo dire che
persona A vuole che lo stato p si verifichi, esattamente allora quando p per A in ogni caso è
almeno tanto buono quanto lo è non p. Dalle premesse non si evince che a compia
effettivamente p, come spesso è stato notato, ma ciò non è necessario perché vi sia
spiegazione razionale, e intenzionale, di p. Molti studiosi, specialmente scienziati sociali che
parlano con molta leggerezza della spiegazione causale, farebbero molta fatica a considerare
un tale comprendere valido e per di più utile. Di frequente si utilizzano perciò altri schemi di
motivazione sussumibili i due principali versioni; entrambe concludono che A in S agisce F
A si trovava in una situazione di decisione del tipo C
77
A era un attore razionale
In una situazione del tipo C ogni attore razionale agisce F (Schema R)
Per cui A agì x
74
Le premesse sulla emergenza di fenomeni sociali e sull’influsso che esse esercitano sugli individui, non sono
esplicitamente nominate in Becker; esse non sono tuttavia in contrasto con il suo approccio e la lettura delle sue analisi
dimostra come invece vengano ampiamente utilizzate. I presupposti di una spiegazione razionale dell’azione sociale
non sono quindi strettamente solo i tre nominati da Becker.
75
F. v. Kutschera, 1993, p. 63
76
F. v. Kutschera, 1981, p. 121.
77
Può essere una decisione in condizioni di certezza o rischio, per le quali abbiamo già definito un criterio di
razionalità, oppure in condizioni di incertezza, se si definisce e motiva previamente un determinato criterio di tal
genere.
17
La persona A ha nella situazione S solo lo scopo di raggiungere M
A è convinto, che egli in S può raggiungere questo fine solo se agisce F
Ogni agente con caratteristiche i, come A effettivamente possiede, in S agisce sempre F
Persona A agisce F
Entrambi gli schemi di motivazione aggiungono una premessa per poter spiegare
razionalmente l’azione F piuttosto che una proposizione su di essa. Nel primo caso si aggiunge
ciò che si definisce lo schema R,
78
nel secondo una legge psicologica o fisica. Altri, come
Charles Taylor,
79
ritengono invece di fare a meno di tale premessa aggiuntiva restringendo la
validità dello schema di motivazione ad azioni per le quali tra il momento della decisione e
dell’esecuzione non si intromettono ostacoli esterni o ulteriori riflessioni. Come più avanti si
vedrà, Ajzen nella sua teoria del comportamento pianificato (TOPB) giunge inizialmente a
conclusioni simili.
Alla base di molte motivazioni razionali vi sono alcuni aspetti dubbi, che ora
evidenzieremo. In primo luogo mostriamo che lo schema R o altre leggi psicologiche o fisiche
sostitutive non sono esplicitamente menzionate tra i presupposti dell’approccio di scelta
razionale. L’affermazione che gli individui scelgano l’alternativa migliore, o che il loro
comportamento sia volto alla massimizzazione, non significa strettamente che gli attori
agiscano effettivamente secondo quanto hanno razionalmente scelto. Vi è quindi un difetto di
chiarezza per coloro che usano lo schema R senza dichiararlo esplicitamente ed un difetto
teorico per coloro che assumono leggi psicologiche
80
o fisiche sostitutive senza specificare
chiaramente quali esse siano e come si motivino a loro volta. Ma la questione deve essere
posta in seconda battuta in modo più radicale: allo stato attuale delle conoscenze si possono
accettare premesse come lo schema R oppure le leggi psicologiche o fisiche sostitutive? Si può
presupporre che un attore sia sempre e necessariamente razionale nelle proprie azioni?
Evidentemente no: lo schema R può valere solo probabilisticamente. E’ plausibile che si possa
individuare la probabilità che degli attori con caratteristiche g in situazione S si comportino
razionalmente. Ma in questo caso noi non spieghiamo razionalmente l’azione ma solo la
proposizione “F è probabile”. Questa spiegazione ha senso solo prima che F accada giacché
ogni evento successo ha probabilità uguale a 1 e rende superflua ogni spiegazione di
proposizioni di tal genere.
81
78
Cfr. C. G. Hempel, 1977, pag. 201-203.
79
Cfr. C. Taylor, 1966.
80
Solitamente si fa uso di teorie comportamentiste che trovano un certo fondamento su animali come topi o piccioni.
81
Ciò implica che non vi è alcuna concorrenza tra spiegazioni causali e razionali e probabilistiche di una azione: le
prime spiegano solo azioni avvenute, le seconde solo azioni previste o semplicemente possibili. Chi sostiene teorie
probabilistiche della causalità e di conseguenza considera la conoscenza di informazioni che rendono maggiormente
probabile un altra proposizione E una spiegazione di E, ignora questa fondamentale distinzione. Cfr. G. Hempel, 1977,
p. 55-58.