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prevalentemente, alla riforma del codice di procedura civile promossa dalla legge n.
353 del 1990, con l’istituzione nell’ordinamento giudiziario italiano, della figura del
giudice di pace e la soppressione dell’ufficio del conciliatore. Quanto alle
competenze ed al procedimento penale, l’intento che emergeva era quello di “varare”
il giudice di pace con le sole competenze civili, differendo nel tempo (segnatamente
sino al 1° gennaio 1994), dopo adeguata sperimentazione, l’attribuzioni di
competenze penali. Il modello di giudice di pace emergente in materia penale –
stando alle competenze assegnate dalla legge che lo istituisce – è dunque del genere
“debolissimo”. Infatti, la legge n. 374 del 1991, prevedendo, all’art. 35, che la
definizione dell’area di competenza penale dell’istituendo giudice fosse realizzata
attraverso il meccanismo della delega, indicando, nell’art. 36, generici ed ampi
criteri, a cui il Governo doveva attenersi, per l’attribuzione di delitti e
contravvenzioni alla cognizione del nuovo giudice e stabilendo, nell’art. 37, che il
procedimento davanti a tale giudice fosse disciplinato dalle norme regolatrici del
processo pretorile, ulteriormente semplificate dalla “particolare competenza” dello
stesso, dimostra come la competenza penale sia stata introdotta, nell’iter
parlamentare del provvedimento, più per “qualificare” il giudice onorario che per una
concreta esigenza di alleggerimento dei carichi gravanti sui giudici togati e, quindi, di
complessiva razionalizzazione del sistema di esercizio della giurisdizione.
Benché il primo modello di giudice di pace fosse nato in Italia tra la fine del
‘700 e gli inizi ‘800 nel Regno di Napoli, durante il breve e sfortunato regno di
Gioacchino Murat, in base al modello francese di tradizione bonapartista, tale figura
non è presente solo nell’ordinamento italiano. Nella Gran Bretagna il justice of peace
svolge il suo lavoro gratuitamente, attende ad un impressionante carico di affari
giudiziari, occupandosi, anche, della direzione relativa allo svolgimento dei giudizi
penali pendenti nel territorio di sua competenza, tanto da impersonare, per
antonomasia, la figura del giudice-cittadino. Negli Stati Uniti d’America, il giudice di
pace tratta processi i quali non tanto comportano un dibattimento in forme alternative,
quanto, piuttosto, mettono capo ad una alternativa al dibattimento. In altre parole, non
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si ha a che fare con un giudizio il quale si svolga secondo modalità contratte e
semplificate, ma con un procedimento destinato a chiudersi, quasi sempre, con una
formale dichiarazione di colpevolezza da parte dell’imputato e, quindi, con la
semplice applicazione della pena.
Dopo la legge n. 374 del 91, la vicenda dell’attribuzione di competenze penali
al giudice di pace era ancora lontana dall’epilogo: dopo una serie di proroghe del
termine di scadenza della delega, l’ultima delle quali risale al 30 dicembre 1994, il
Governo rinunciava ad esercitarla. Diffidenze ed avversioni nei confronti di un
giudice onorario del quale non appariva ancora chiara l’effettiva fisionomia erano
cresciute, infatti, a tal segno, da rendere indispensabile il sacrificio della competenza
penale, nel timore che un atteggiamento di difesa ad oltranza della stessa finisse per
pregiudicare le sorti anche della competenza civile.
Il sacrificio era comunque solo temporaneo. Quando la situazione si fu, almeno
in parte, consolidata, essendosi addivenuta ad un dialogo più sereno sugli ulteriori
sviluppi dell’istituto, venne presentato, dal Ministro della Giustizia, on. Flick, il 15
luglio 1996, un disegno di legge inteso a reiterare la delega sulla competenza penale
(d.d.l. n. 1873 del 1996), il quale, tra l’altro, si prestava, tra l’altro, particolare
attenzione a ridurre i margini di indeterminatezza dei criteri direttivi che avevano
negativamente pesato sui destini della delega pregressa.
Il percorso che ha condotto all’approvazione della legge delega n. 468 del 1999
prende le mosse da una iniziativa governativa (il d.d.l. n. 1837, presentato del
suddetto Ministro Flick) che costituiva, di per sé, elemento di assoluta novità; per la
prima volta, un governo della Repubblica si impegnava direttamente nella battaglia
per l’assegnazione di una competenza penale al giudice onorario.
Dalla lettura delle relazioni, che hanno accompagnato il corso dei lavori
preparatori, prende corpo la concezione di una legge ispirata alla parola d’ordine
della semplice deflazione; l’idea guida della riforma è riassumibile in una sola frase:
«l’obiettivo della qualità del servizio giustizia comporta la necessaria riduzione del
carico di lavoro che grava sugli uffici giudiziari».
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L’iter dei lavori preparatori relativi a tale legge ha riportato alla ribalta le
consuete difficoltà che, più che sul terreno del procedimento applicabile al giudizio di
fronte al giudice di pace o delle sanzioni irrogabili, si sono appuntate sull’esatta
delimitazione dei reati da devolvere alla cognizione del magistrato stesso. Il
legislatore delegante, abbandonando una mera logica di deflazione, nell’individuare i
reati da devolvere alla competenza del giudice di pace, ha enunciato criteri che –
evitati i riferimenti alla sola pena edittale e con la previsione di un procedimento la
cui disciplina è stata mutuata dalle disposizioni che regolano il processo davanti al
tribunale in composizione monocratica – tengono adeguato conto della “specificità”
del nuovo organo della giurisdizione penale.
Secondo una parte della dottrina, lo sgravio degli affari penale che intasavano la
magistratura togata, sarebbe potuto avvenire attraverso un’opera di depenalizzazione
più coraggiosa di quella fino ad allora attuata. Il legislatore, però, ha preferito
introdurre la nuova figura del giudice onorario, poiché, in punto di garanzie, la
competenza penale dello stesso si dimostra, rispetto alla depenalizzazione, ben più
accettabile ed in linea con i principi costituzionali. Sicuramente, dal confronto tra i
due strumenti emerge come la competenza penale del giudice di pace sia preferibile,
sia sotto il profilo del rispetto delle finalità generalpreventive della sanzione, sia in
relazione alla tutela dei diritti della persona sottoposta al procedimento.
L’attuazione della legge delega 24 novembre 1999, n. 468 sulla competenza
penale del giudice di pace, operata con il decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274,
costituisce un passaggio decisivo nel senso della progressiva attuazione di quel
circuito giudiziario “differenziato”, relativo ai reati di minore gravità ed incidenza
sociale il quale, affidato alla nuova figura di magistrato onorario, era destinato a
divenire uno dei punti nodali del progetto di riforma del sistema giudiziario, sin qui
attuato altresì, con la recente riforma del giudice unico di primo grado e con la
depenalizzazione dei reati minori.
A seguito del d.lgs. n. 274 del 2000 nasce una nuova figura di autorità
giudiziaria: il giudice di pace, il quale viene a profilarsi quale un giudice conciliatore
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tra autore e vittima del reato. Il nuovo organo giurisdizionale diventa competente, in
sede penale, per una serie di illeciti previsti sia dal codice penale che dalla
legislazione penale: si va dall’ingiuria alle lesioni, dai furti minori alle percosse, fino
all’omissione di soccorso. Tali reati, che il legislatore par considerare minori,
sicuramente minori non sono, soprattutto da un punto di vista quantitativo, data la
loro capacità di intasare le aule dei tribunali. E’ risaputo, infatti, che la risposta penale
– da troppo tempo cristallizzata sul binomio pena detentiva/pena pecuniaria – è
sempre più lontana dalle domande di giustizia dei cittadini.
La citazione a giudizio davanti al giudice di pace, da parte della persona offesa,
costituisce certamente una delle innovazioni più significative introdotte dalla legge
delega; onde sulla medesima prevedibilmente, si incentrerà l’attenzione degli studiosi
del processo penale, per ricercare una sistemazione concettuale dell’istituto.
Nel procedimento davanti al giudice di pace, l’offeso dal reato riconquista, pur
parzialmente, la centralità perduta molto tempo addietro, quando, ancora, poteva
agire davanti al giudice di pace nella veste di parte accusatrice. E’ vero che la riforma
processuale penale del 1988 sembra aver potenziato il ruolo dell’offeso dal reato nel
processo penale, ma essa non è giunta fino al punto di restituire, a tale soggetto un
potere d’iniziativa penale.
Con l’originale strumento del “ricorso immediato”, disciplinato dagli artt. 21-28
del decreto legislativo n. 274, cit., sia pur limitatamente ai soli reati perseguibili
previo impulso di parte, si è introdotto un modulo, alternativo alla citazione per
opera della polizia giudiziaria, in cui la “vittima” del reato trova, finalmente, il
riconoscimento di un autonomo spazio operativo nell’ambito del procedimento, nel
senso del potere di determinare l’attivazione della fase del giudizio, di cui, per di più,
viene garantita una peculiare celerità.
Si tratta, in sostanza, di una vocatio in iudicium rimessa alla disponibilità della
persona offesa dal reato, mediante un atto a formazione progressiva che vede il
coinvolgimento del pubblico ministero e del giudice di pace, e comporta l’elisione
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delle indagini preliminari, attraverso la richiesta diretta al magistrato onorario avente
per oggetto la comparizione dell’imputato.
Nella Relazione al decreto legislativo (Relazione allo schema di decreto
legislativo del 25 agosto 2000, n. 274 recante �Disposizioni in materia di competenza
del giudice di pace�, Citazione su istanza della persona offesa , § 4.1, in Diritto e
Giustizia, 2000, n. 31, p. 49) si legge «Si è così preferito impostare il nuovo istituto
sulla falsariga di una sorta di citazione civile con effetti penali (ispirandosi per certi
versi al ricorso nel processo del lavoro, per la sua tempistica, e alla costituzione di
parte civile nel processo penale), che consenta all’interessato di giungere in tempi
brevi a quell’udienza volta a ottenere soddisfazione del torto subito».
Diverse sono le posizioni circa la natura giuridica da attribuire al ricorso previsto
dall’art. 21 d. lgs. n. 274 del 2000: si va dalla qualificazione di “citazione civile con
effetti penali” – in base alla denominazione di un istituto nell’ambito del rito del
lavoro con cui il ricorso de quo ha in comune la celerità – cioè, come un atto a natura
“mista”, composto sia dall’attivazione del procedimento penale, sia dalla
manifestazione della volontà punitiva della persona offesa, sia, inoltre, da una
funzione di tutela civilistica; alla riduzione dell’azione processuale della persona
offesa a mero atto propedeutico inidoneo a determinare il giudizio, in quanto
sottoposto al controllo del pubblico ministero (art. 25) e del giudice terzo (artt. 26 e
27), con l’esclusione che si possa trattare di una forma di azione penale privata; alla
configurazione di tale istituto quale atto introduttivo di un procedimento a struttura
soggettiva complessa, che contiene in sé tutte le potenzialità dell’azione penale
privata, ma si manifesta come tale solo in determinate condizioni ovvero nell’ipotesi
in cui il pubblico ministero non formuli l’imputazione né emetta alcun parere, ma,
semplicemente, resti “silente” decorsi i dieci giorni dalla comunicazione del ricorso e
abbia manifestato la sua contrarietà rispetto alla prospettazione “accusatoria”
contenuta nel meccanismo; fino al riconoscimento dell’istituto in esame come una
vera e propria azione privata penale condivisa dal Tonini (TONINI P., La nuova
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competenza penale del giudice di pace: un�alternativa alla depenalizzazione?, in
Diritto penale e processo, 2000, n. 8, p. 929)
Nell’impalcatura del d. lgs. n. 274/2000 i presupposti perché possa esperirsi il
ricorso immediato davanti al giudice di pace sono di natura oggettiva (cioè, occorre
che il delitto sia perseguibile a querela) e soggettiva (ossia la necessaria qualità di
persona offesa dal reato).
Il ricorso, contenente tutti i requisiti di cui all’art. 21 comma 2, deve essere
presentato nella cancelleria del giudice di pace territorialmente competente, entro il
termine di tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato, così come dispone
l’art. 25 del decreto in esame: con tale deposito, il p.m. viene a conoscenza del
ricorso. L’art. 21 comma 5 parifica, in ordine agli effetti, il ricorso alla querela. Per la
verità, la equiparazione riguarda solo gli effetti della presentazione, dovendosi
escludere una completa omologazione dei due atti. Si tratta di una norma di
“sicurezza”, dirette ad evitare lacune nella disciplina del ricorso, il quale, però,
mantiene la sua autonomia e specificità.
In primo luogo, il deposito del ricorso realizza, esattamente come la querela,
la rimozione di un ostacolo al perseguimento del reato, purché ovviamente siano
presenti i requisiti formali e sostanziali indicati nell’art. 21. La parificazione-
equiparazione tra i due istituti è possibile in quanto il ricorso comprende al suo
interno tutti i contenuti, formali e sostanziali, della querela; anzi potrebbe dirsi che il
medesimo rappresenta una forma sofisticata di evoluzione della species querela, nella
misura in cui si ritenesse che lo stesso sia un atto a contenuto complesso.
Il ricorso immediato comporta oneri particolari, legati all’accentuata formalità
dell’atto, al costo derivante dalla necessaria assistenza di un avvocato, alle spese di
notificazione (art. 27.4), alla necessità d’individuare il giudice territorialmente
competente (art. 22.1) per evitare ulteriori problemi connessi alla reiterazione
dell’atto (art. 26.4) e, soprattutto, determina l’obbligo, per il ricorrente, di presenziare
all’udienza di comparizione, pena rifusione di spese e danni in favore della persona
citata in giudizio (art. 30.2).
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A fronte di tali aggravi, in sostanza, il ricorso garantisce, soltanto, il, pur
prezioso, vantaggio consistente nel poter ottenere la convocazione in udienza
dell’autore del reato allegato entro il termine di cui all’art. 27, sicuramente più breve
rispetto agli ordinari tempi del giudizio determinato dalla presentazione della querela.
Nella presentazione del ricorso immediato al giudice di pace, la costituzione di
parte civile beneficia di un’alternativa: alle modalità consuete, infatti, si aggiunge la
possibilità d’inserire la dichiarazione costitutiva nell’atto di ricorso, secondo quanto
dispone l’art. 23 d. lgs. n. 274 del 2000.
Si delineano, dunque, le seguenti possibilità: la persona offesa, se coincide con il
danneggiato, può scegliere tra le presentazione del ricorso al giudice di pace – con
simultanea costituzione di parte civile – o l’attesa relativa all’instaurazione del
processo ad opera della polizia giudiziaria, oppure, optare per l’esercizio dell’azione
in sede propria; se la persona offesa ed il danneggiato dal reato non coincidono, la
prima avrà la possibilità d’inoltrare il ricorso immediato al giudice, essendole,
tuttavia, preclusa la costituzione di parte civile, mentre il secondo, pur non essendo
legittimato a ricorrere, potrà, ovviamente, costituirsi in udienza (o prima), entro il
termine indicato dall’art. 79 c.p.p..
Per quel che concerne la costituzione di parte civile ad opera della persona
offesa-ricorrente (possibilità riservata alle sole ipotesi di reati procedibili a querela),
l’art. 23 d. lgs. n. 274 del 2000 stabilisce ch’essa deve avvenire, a pena di decadenza,
con la presentazione del ricorso.
Il ricorso dell’offeso può risultare inammissibile quando si ricade nelle ipotesi
previste dall’art. 24 del decreto in esame. Quanto specificamente alle cause di
inammissibilità, esse possono venir suddivise in tre gruppi: la lettera a), che stabilisce
il termine di tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato (art. 22 comma 1), si
fonda sulla circostanza per cui il ricorso equivale alla presentazione della querela (art.
21 comma 5), sicché la proposizione del primo non può, ovviamente, avvenire oltre
la scadenza lasciata, in via generale, per l’esercizio della seconda: si tratta, in effetti,
più che d’una causa di inammissibilità, di motivo di improcedibilità del ricorso (v.,
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art. 26 comma 2); la lettera b) riguarda la presentazione del ricorso al di fuori dei casi
previsti, e, dunque, nelle ipotesi in cui il reato, addebitato all’incolpato, non sia di
competenza del giudice di pace, o non sia procedibile a querela di parte, ovvero il
ricorso sia stato presentato da un soggetto non legittimato; le lettere successive
disciplinano casi variamente riconducibili a vizi formali dell’atto, i quali il legislatore
ha inteso sanzionare con l’inammissibilità poiché il privato, ove intenda tutelarsi con
il ricorso immediato al giudice, è tenuto, oltre che a rispettare le formalità prescritte,
anche a delimitare con sufficiente precisione l’ambito degli addebiti, con
l’indicazione delle fonti di prova.
Accanto alle cause d’inammissibilità, il decreto legislativo ha previsto che il
ricorso immediato sia sottoposto ad un controllo sulla non manifesta infondatezza. La
valutazione relativa dev’essere condotta sulla base delle stesse prospettazioni fatte dal
ricorrente, senza, cioè, disporre preventivamente qualsiasi attività investigativa, a
meno che il pubblico ministero non disponga d’elementi valutativi. L’infondatezza
deve essere manifesta, cioè, evidente allo stato degli atti, senza che occorra alcuna
verifica di natura istruttoria; in tutti i casi in cui, invece, appaia necessario compiere
accertamenti, anche semplici, per ritenere l’infondatezza, il ricorso non potrà essere
bloccato.
Costituiscono ipotesi di manifesta infondatezza i casi in cui difettino i
presupposti di diritto dell’accusa , ad esempio, quando si tratti di fattispecie di reato
abrogate o depenalizzate, o d’ipotesi d’estinzione del reato o di cause di non
punibilità evidenti, o, ancora, dell’eventualità in cui il ricorso contenga “pseudo-
notizie” di reato, cioè, dei ricorsi dai quali non sia possibile ricavare in alcun modo
un fatto di reato.
Come nelle altre ipotesi d’inammissibilità, la manifesta infondatezza non dà
luogo ad un vero e proprio provvedimento, ma determina l’effetto della restituzione
degli atti al pubblico ministero perché proceda secondo la ordinaria procedura.
Nel predisporre la disciplina del ricorso immediato, il legislatore delegato ha
scelto una soluzione in linea con gli assetti processuali tradizionali, conservando, in
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capo alla pubblica accusa, l’iniziativa penale e la formulazione dell’imputazione.
Entro il termine ordinatorio di dieci giorni dalla comunicazione del ricorso prevista a
pena d’inammissibilità, dall’art. 24 comma 1 lett. e), il magistrato inquirente deve
presentare alla cancelleria del giudice di pace le sue richieste, avendo verificato la
possibilità o non di proseguimento del presente secondo il particolare modello
attivato dalla persona offesa dal reato. Trattandosi di termine ordinatorio, il
pubblico ministero potrà presentare le proprie richieste anche successivamente. Le
cause d’inammissibilità sono quelle dell’art. 24: in particolare la “manifesta
infondatezza” deve apparire prima facie, senza alcun controllo di carattere istruttorio,
così come evidente dev’essere l’incompetenza territoriale del giudice adito.
Fuori da queste ipotesi, l’alternativa, per il p.m., è quella di sostenere il ricorso
attraverso la formulazione dell’imputazione. L’art. 25 prevede, esplicitamente, due
possibilità per la pubblica accusa:
a) formulare l’imputazione confermando l’addebito predisposto dal ricorrente;
oppure
b) modificare il contenuto dello stesso.
Il pubblico ministero può, certamente, qualificare diversamente il fatto indicando
altre norme, e se necessario, anche modificare l’addebito, in attuazione del principio
di delega ma secondo la Relazione d’accompagnamento al decreto (Relazione allo
schema di decreto legislativo del 25 agosto 2000, n. 274 recante �Disposizioni in
materia di competenza del giudice di pace�, Richieste del pubblico ministero , § 4.6,
in Diritto e Giustizia, 2000, n. 31, p. 53) la modifica operata dal pubblico ministero
non può «giungere fino al punto di snaturare il thema decidendum circoscritto
dall’originario addebito di derivazione privata, integrandolo magari con contestazioni
che, pur descritte nella narrativa del ricorso, non abbiano formato oggetto
dell’addebito in ordine al quale avviene la citazione».
L’articolo in esame contempla anche il caso in cui il pubblico ministero, sebbene
avvertito ritualmente della presentazione del ricorso, resti inerte, non presentando
alcuna richiesta. Si tratta d’una evenienza implicitamente ammessa dall’art. 26
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comma 1, laddove prevede che il giudice assuma le proprie decisioni anche in
mancanza del parere, decorsi dieci giorni entro cui il magistrato d’accusa avrebbe
dovuto presentarlo. Ciò consente di ritenere che la partecipazione di quest’organo
non sia necessaria, ma eventuale, nel senso che la sua inerzia non determini lo
“stallo” della procedura, né condizioni le determinazioni del giudice.
La procedura avviata, con il ricorso immediato, dalla persona offesa si conclude
davanti al giudice di pace, al quale viene offerta un’alternativa: disporre la
regressione del procedimento alla fase delle indagini – disattendendo, in questo
modo, la richiesta del ricorrente – oppure convocare le parti per l’udienza
dibattimentale.
Tali provvedimenti sono assunti in assenza di qualunque forma di contraddittorio
tra le parti interessate: il giudice decide fuori udienza, sulla base delle informazioni
contenute nel ricorso e della documentazione ad esso allegata, nonché dei contributi –
eventuali – del pubblico ministero Si tratta, infatti, d’una fase preliminare della
procedura in cui devono essere assunte decisioni non di merito, ma esclusivamente
processuali, in relazione all’idoneità o non del ricorso ad instaurare il giudizio.
Mentre l’art. 26 comma 2 non indica la forma del provvedimento con cui il
giudice si pronuncia sull’ammissibilità o sulla manifesta infondatezza del ricorso,
riguardo alle ipotesi d’incompetenza sia per materia che per territorio é previsto che
la decisione abbia le forme di una ordinanza conforme all’art. 26 comma 3.
L’art. 27 regola le modalità di convocazione delle parti davanti al giudice di
pace, la quale si ha una volta superato positivamente il vaglio dei controlli diretti ad
evidenziare eventuali vizi del ricorso. Occorre che la convocazione delle parti venga
disposta in tutti i casi in cui il giudice non ritenga di provvedere ai sensi dell’art. 26.
La legge prevede che il decreto di citazione venga emesso entro venti giorni dal
deposito del ricorso e che la data dell’udienza sia compresa entro novanta giorni dallo
stesso deposito. Una volta emesso, il decreto dovrà essere notificato al pubblico
ministero, all’imputato, al suo difensore e alle altre persone offese di cui il ricorrente
conosca l’identità. Unitamente al decreto, va notificato anche il ricorso. Solo così,
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infatti, si possono portare le altre parti a conoscenza di tutti gli elementi in esso
contenuti, e si riesce a consentire loro il pieno esercizio del diritto di difesa.
Con una disposizione la quale sottolinea le caratteristiche di “azione penale ad
iniziativa privata” del procedimento per ricorso, la legge, nell’art. 27 comma 4, affida
il compito di effettuare le notifiche al ricorrente.
Nell’ipotesi di ricorso immediato al giudice di pace, la mera presentazione del
ricorso non è una modalità d’esercizio dell’azione penale, idonea ex se a costituire lo
status di imputato, neppure nel caso in cui il pubblico ministero, chiamato ad
interloquire sul ricorso ex art. 25, abbia formulato l’imputazione, confermando o
modificando l’addebito contenuto nell’atto de quo.
Con l’emissione del decreto di convocazione, la persona chiamata in giudizio
acquista, formalmente, la qualità d’imputato. E’ l’art. 3 ad individuare nel decreto
l’atto dal quale deriva questo effetto, evidenziandone una distinzione tra il momento
d’esercizio dell’azione penale e quello in cui si ha l’acquisizione della qualifica
d’imputato. La disgiunzione è intesa ad evitare che un uso strumentale del ricorso
possa recare danno alla persona citata in giudizio.
Il quinto comma dell’art. 27 prevede, esplicitamente, le cause di nullità del
decreto; tali cause fanno, tutte, riferimento al contenuto del decreto emesso dal
giudice, e possono essere sollevate in sede di prima udienza, quando, per la prima
volta, si realizza il contradditorio tra le parti. E’ in questa sede che si dovranno
sollevare tutte le eccezioni riguardo alla validità del decreto e che il giudice dovrà, in
ultima analisi, valutare la regolarità o non dell’atto che è destinato ad introdurre il
giudizio.
Nel disciplinare il procedimento davanti al giudice di pace il legislatore ha
tenuto conto sia delle norme contenute nel libro VIII del c.p.p. riguardanti il
procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica, che dei nuovi
principi introdotti dall’art. 111 della Costituzione sul necessario contraddittorio tra le
parti.
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La struttura del giudizio introduce alcune opportune deroghe al rito monocratico
come, ad esempio, l’esclusione dell’udienza preliminare e l’esaltazione del momento
conciliativo e di deflazione processuale nell’udienza di comparizione. Lo scopo
principale di questa udienza è quello di favorire la conciliazione tra le parti e,
comunque, di evitare ove possibile il dibattimento.
La conciliazione tra le parti è il primo onere posto a carico del giudice
all’udienza di comparizione, cui questi deve attendere immediatamente dopo la
verifica della regolare costituzione delle parti. Si tratta, quindi, di un’attività che, pur
collocata nell’udienza di comparizione, è fuori sistematicamente dal processo: infatti,
da un lato, il giudice che la promuove ha una limitatissima conoscenza degli atti,
visto che si deve ancora procedere alla formazione del fascicolo per il dibattimento e
lo stesso giudice ancora si deve pronunciare sull’ammissione dei mezzi di prova (art.
29 comma 7); dall’altro lato, le stesse dichiarazioni che le parti dovessero rendere nel
corso dell’attività di composizione non hanno alcuna valenza processuale, non
potendo essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione, neppure attraverso
il meccanismo delle contestazioni (art. 29 comma 4, ultima parte).
La formula della norma («promuove») depone inequivocabilmente nel senso che
trattasi di incombente doveroso e non rimesso alla valutazione discrezionale del
giudicante, il quale dovrà, sempre e comunque, provvedervi anche con l’ausilio dei
centri e delle strutture pubbliche e private presenti sul territorio come previsto dal
quarto comma dell’art. 29 del decreto in esame.
L’effetto positivo della conciliazione si realizza o con la rinuncia al ricorso o
con la remissione della querela. La rinuncia al ricorso produce gli stessi effetti della
remissione di querela, inoltre, sia le rinuncia che la remissione devono essere
accettate dall’imputato (art. 29 comma 5).
Gli artt. 30 e 31 del decreto legislativo riguardano la disciplina relativa alla
mancata comparizione della persona offesa all’udienza di comparizione e la
disciplina di fissazione di una nuova udienza a seguito di impossibilità a comparire.
Tali disposizioni si applicano pertanto solo all’udienza di comparizione fissata dal
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giudice di pace a seguito di proposizione del ricorso immediato da parte della persona
offesa dal reato.
La mancata comparizione ingiustificata (in quanto non dovuta a caso fortuito o a
forza maggiore secondo l’art. 30 comma 1), della persona offesa–ricorrente o del suo
procuratore speciale, dà luogo alla improcedibilità del ricorso da questi presentato,
avendo il legislatore ritenuto che tale comportamento fosse da considerarsi come
dimostrativo della mancanza di interesse alla prosecuzione del giudizio; tale
conseguenza viene dichiarata con apposita ordinanza.
La declaratoria d’inammissibilità del ricorso, non è l’unica conseguenza in caso
di mancata comparizione ingiustificata, essendo, altresì, previsto che il ricorrente
venga condannato alla rifusione delle spese processuali e, se la persona citata ne ha
fatto domanda, anche al risarcimento dei danni in suo favore (evitando così
l’eventualità che possano essere presentati ricorsi pretestuosi e temerari).
Al ricorrente, comunque, è concessa la facoltà di effettuare un’apposita istanza
con la quale, provando che c’è stata la causa impeditiva, chiede al giudice che venga
fissata una nuova udienza. L’istanza è sottoposta al termine di decadenza di 10 giorni
dalla cessazione della causa impeditiva. In caso d’accoglimento, il procedimento
regredisce; il giudice, infatti, emette un nuovo decreto di convocazione delle parti ai
sensi dell’art. 27 del d. lgs., il quale dovrà essere notificato a cura del ricorrente ai
sensi del comma quarto dello stesso articolo.
Se il giudice di pace respinge l’istanza di remissione in termini, pronuncia
decreto motivato, il quale potrà essere impugnato dinanzi al tribunale in
composizione monocratica.