4
Ho deciso di scrivere la mia tesi su questo autore in un primo momento
appunto sulla scia dell’entusiasmo che il suo modo di scrivere suscita in un
lettore ben disposto; in seguito, dopo essermi documentato sulla sua figura e
sulla sua vita, per il fascino della sua storia personale e per il carattere che lo ha
portato a difendere la propria “immaturità” e la propria autenticità anche negli
ultimi anni della sua vita.
Il Ferdydurke, il suo romanzo più conosciuto in Europa, è la sintesi di
questo suo spirito: Gombrowicz - è stato detto - è l’incarnazione del Ferdydurke
2
. E’ un libro che ha anticipato temi tuttora attuali, come il dominio della forma
nella vita individuale e sociale, la falsità di queste forme, l’incapacità dell’uomo
di sottrarsi ad esse e la necessità di essere coscienti di questo dominio.
La “battaglia del Ferdydurke”, che aveva già trovato appassionati
sostenitori in Polonia, continua in Argentina con l’auto-traduzione d’autore del
romanzo, un’impresa del tutto particolare che Gombrowicz porta a termine, a
seguito di avventurose e travagliate vicende, nel 1947.
Questo lavoro di auto-traduzione d’autore è di particolare interesse
perché si tratta di un’esperienza del tutto anomala ed inusuale. Il Ferdydurke
argentino non può considerarsi una semplice versione spagnola dell’originale
polacco: è un libro nuovo, scritto sulla base del testo del 1938, ma rielaborato
per adattarlo ai nuovi destinatari, i lettori argentini. Il risultato è stato talmente
efficace che, nonostante le critiche mosse alla correttezza di questa versione, il
nuovo Ferdydurke argentino è diventato la base per la seconda edizione polacca
del 1957
3
e per le successive traduzioni nelle altre lingue.
Per questo lavoro Gombrowicz si avvalse dell’aiuto di un gruppo di
giovani artisti semi-sconosciuti, alcuni dei quali sarebbero diventati esponenti
rinomati della letteratura sud-americana del XX secolo ed anche di occasionali
collaboratori anonimi. E’ evidente l’interesse per un’ impresa di questo genere,
svoltasi in circostanze così scomode, ad opera di un autore che non conosceva
abbastanza lo spagnolo, senza nemmeno l’aiuto di un dizionario polacco–
spagnolo - non esisteva ancora -, per lo più in un ambiente anomalo come la
sala scacchistica di un caffè nel centro di Buenos Aires.
Le scelte stilistiche e linguistiche che scaturirono da questa particolare
collaborazione meritano una analisi approfondita perché il Ferdydurke che era
apparso a Varsavia nel 1938 non era un’opera facile da trasporre: già allora la
5
lingua di Gombrowicz aveva sorpreso l’ambiente letterario polacco per la sua
originalità, che stravolgeva lessico e norme grammaticali. Pertanto la
trasposizione per i lettori argentini fu in realtà l’invenzione di un nuovo
“ferdydurkismo” spagnolo, in virtù della quale si può affermare che con essa
Gombrowicz divenne a tutti gli effetti uno scrittore argentino. Le parole di
Ricardo Piglia
4
non appaiono dunque fuori luogo quando egli definisce Witold
Gombrowicz uno dei più importanti scrittori argentini del XX secolo
5
.
6
PROFILO DI WITOLD GOMBROWICZ
Per inquadrare la personalità di Witold Gombrowicz non si può
prescindere dalla lettura delle opinioni e dei profili che di lui danno coloro che
lo conobbero, soprattutto nel corso degli anni centrali della sua vita, quelli
passati in Argentina. La conseguenza di questa lettura è ovviamente una
conoscenza frammentaria della persona, ma forse proprio in questo
frammentarismo sta la chiave della personalità di Gombrowicz […] il geniale
scrittore polacco cercò di ripararsi, maschera dopo maschera, dal “pericolo”
di una personalità definita, unilaterale
1
. Come afferma Juan Carlos Gómez
2
,
uno dei suoi più cari amici, in una conversazione con Tamara Kamenszain,
capire un po’ Gombrowicz implicava di accettare il fatto che lui non
rappresentava un ruolo fisso, ma cambiava costantemente maschera
3
.
Un’altra fonte importante, ma con un punto di vista del tutto differente,
quello soggettivo dello stesso Gombrowicz, è il romanzo della sua giovinezza,
Wspomnienia polskie (Ricordi polacchi), pubblicato postumo nel 1977 ed edito
in Italia nel 1998 con il titolo Una giovinezza in Polonia
4
. Un’opera - o più
esattamente una serie di testi
5
- scritta per lasciare un messaggio di identità,
come Gombrowicz stesso dichiara: Vorrei che un po’ alla volta tutta la storia
della mia vita fosse conosciuta. Secondo la mia interpretazione. Se si potesse
avere una storia senza interpretazione, la fornirei “in crudo”: solo nudi fatti.
Ma del resto bisogna operare una scelta, separare ciò che è importante,
creativo, dall’inutile e sterile […] devo costruirmi un passato perché la storia
mi assegni un futuro
6
.
Witold Marian Gombrowicz nacque il 4 agosto del 1904 a Małoszyce, a
pochi chilometri da Radom (a metà strada tra Varsavia e Cracovia), da una
famiglia di agiati nobili di campagna. Ultimo di quattro figli, crebbe a stretto
contatto con la madre, donna intelligente e sensibile, ma fortemente
nevrastenica; sembra anche che nella famiglia materna si annoverassero casi di
patologia mentale
7
. Il padre era spesso fuori casa per motivi di lavoro e
nell’immaginazione dello scrittore ne rimase una visione idealizzata, quella di
un uomo attraente e di successo. La continua assenza del padre e la personalità
patologica della madre, che lo vestiva da bambina, contribuirono a formare il
carattere timido e irresoluto del piccolo Witold. Questi anni dell’infanzia e della
7
fanciullezza sono anni fondamentali. Le esperienze di questo periodo
ritorneranno in massa nella sua opera e influiranno in maniera determinante
sulla sua formazione come uomo e come scrittore, come egli stesso riconosce
apertamente in Una giovinezza in Polonia. Non appare fuor di luogo, pertanto,
soffermarsi ampiamente sul racconto che egli fa di quegli anni, molto importanti
per capire lo sviluppo della sua personalità e per la creazione del suo mondo di
idee e del suo stile stesso. In questa giovinezza in Polonia sta del resto anche
tutta la genesi del Ferdydurke, l’opera al centro di questo lavoro: il primo
romanzo di Gombrowicz
8
, pubblicato a trentatré anni, nel 1937, quando ancora
egli si trovava in Polonia, circa due anni prima della partenza per l’Argentina.
La storia di vita personale è substrato di tutto il romanzo, ispira i temi di
maggior rilievo così come sequenze, personaggi, episodi, fino ai piccoli
particolari, e da essa non possono prescindere i lettori né, a maggior ragione,
chi si impegni nella difficile opera della traduzione.
Così dunque Gombrowicz ricorda, o ricostruisce, la vita in famiglia
negli anni della sua infanzia e fanciullezza: Nella mia casa natia regnava una
grande dissonanza che quotidianamente straziava le mie orecchie infantili.
Molte le cause concomitanti, prima fra tutte l’incompatibilità di carattere e di
temperamento tra mio padre e mia madre
9
. Così ricorda il padre, non senza far
percepire il proprio sentimento di inferiorità nei suoi confronti: Mio padre,
uomo bello, elegante, “di classe” come si usava sottolineare a quel tempo,
godeva fama di persona seria, responsabile e onesta. Il contrasto tra il suo
comportamento dignitoso oltre che corretto e le stravaganze di noi ragazzi
ispirava ai più considerazioni quali: “Che direbbe il suo signor padre?”
oppure: “Peccato che i ragazzi non abbiano preso dal vecchio Gombrowicz!” Il
suo aspetto impeccabile, unito a un’intelligenza poco profonda e di limitati
interessi ma estremamente efficiente, assicuravano appunto a mio padre quelle
famose cariche di grande prestigio in svariati consigli di amministrazione
10
.
Così, invece, descrive la madre e il suo rapporto con lei, nel quale si rappresenta
costantemente associato ai fratelli maggiori: Mia madre invece si distingueva
per un temperamento straordinariamente vivace e un’immaginazione sfrenata.
Nervosa. Esaltata. Incoerente. Incapace di controllarsi. Ingenua e, quel che è
peggio, con un’idea di se stessa assolutamente distorta. […] le mancava
completamente tutto ciò che conferisce la sicurezza di sé, la naturalezza e la
8
semplicità perfino a una semplice guardiana di mucche: l’essersi misurata con
la vita. Praticamente non ci aveva mai avuto a che fare. Ed era precisamente
questo che le toglieva autorità ai nostri occhi e faceva sì che si muovesse come
dentro una sorta di vuoto. Un vuoto che le impediva di capire se stessa, di
capire chi fosse veramente; tant’è vero che si era costruita una personalità
fittizia, inventata di sana pianta. […] “Quanta fatica mi è costato questo
giardino!” diceva, mostrando agli ospiti il giardino di Małoszyce, mentre noi
sapevamo che era tutta opera del giardiniere. […] Tuttavia, il fatto di non voler
essere quella che era, quel suo non voler riconoscersi, le si ritorse contro, in
quanto noi figli le dichiarammo guerra. Ci irritava. Ci provocava. E fu lì,
penso, che cominciarono le mie tristi scaramucce con le dissonanze della forma
polacca. […] La guerra che io e i miei fratelli maggiori muovevamo a mia
madre consisteva soprattutto nel contraddire sistematicamente tutto quello che
lei diceva. Bastava che osservasse di sfuggita come piovesse, perché una forza
irresistibile mi costringesse a ribattere con calcolato stupore, quasi avessi udito
la cosa più assurda del mondo: ”Come, ma non vedi che sole?”. Penso che
questo allenamento precoce alla menzogna lampante e all’assurdità manifesta
mi sia tornato estremamente utile anni dopo, quando cominciai a scrivere le
mie opere. Visto che eravamo in tre a praticare quello sport […], a poco a poco
la nostra casa diventò una specie di manicomio, dove solo la severità e la
serietà di mio padre ci salvavano dalla catastrofe più completa. L’incessante e
demenziale polemica con la mamma si estendeva a tutto lo scibile […] Quelle
scaramucce ci permettevano di dimenticare i conflitti più interni e drammatici
nascosti in profondità e ci facilitavano enormemente i contatti con nostra
madre. Fu lì che nacque il mio culto per il gioco, che così spesso si ritrova nella
mia opera […] Ma in tutto questo c’era qualcosa di più del semplice gioco.
Sotto sotto ci rodeva il sospetto che neanche noi fossimo del tutto immuni da
quella sindrome da “irrealtà” che tanto combattevamo in nostra madre.
Secondo me, cominciavamo a intuire […] che neanche noi avevamo ancora
assaggiato la vita e che le nostre esperienze esistenziali non erano più
consistenti delle sue […]
11
.
A questo punto il discorso si estende al tema più
ampio e generale della vacuità e dell’inadeguatezza di tutta una classe della
società polacca, quella dei proprietari terrieri alla quale egli apparteneva,
oggetto da parte sua al tempo stesso di una feroce satira, come nel Ferdydurke,
9
ma anche di un radicato senso di appartenenza e, si direbbe, di un’intima
nostalgia: Sono convinto che in Polonia tutta la cosiddetta classe superiore
soffrisse di quella malattia, eccettuati certi professionisti […] i proprietari
terrieri, la borghesia abbiente e buona parte degli intellettuali erano tutta gente
dalla vita facile, gente che ignorava completamente la lotta per l’esistenza […]
12
. La critica coinvolge in pieno anche il padre, rappresentante perfetto
dell’aristocrazia terriera così come sarà impietosamente ridicolizzata nel
Ferdydurke: […] solo di rado e quasi per combinazione mio padre si rendeva
conto dell’anormalità della sua situazione sociale […] Per mio padre, avere un
cameriere era la cosa più ovvia del mondo, che si spiegava da sola; e anche
dopo, quando democratizzandoci passammo dal cameriere alla domestica, si
lasciava servire come se ciò rientrasse nell’ordine naturale delle cose. Mio
padre era padrone in un modo assolutamente disinvolto, anzi devo dire che la
gente del popolo avvertiva d’istinto questa sua naturalezza e gli si affacendava
attorno molto più volentieri che non a noi, padroncini rattrappiti […] Anche
mia madre accettava la nobiliarità come qualcosa di perfettamente naturale
[…] Ritenevano che ognuno dovesse vivere sul gradino assegnatogli dal destino
[…] Il signore doveva far bene il signore e la servitù servir bene: ecco in due
parole la loro filosofia. […]
13
. Per il piccolo Witold, “padroncino rattrappito”,
l’asfissiante e snaturante sistema di comportamenti derivante dalla sua
appartenenza a quella classe (o, per usare la terminologia che sarà al centro
della sua filosofia, la “forma” che gli era inculcata in ragione del suo status
sociale) era causa di enorme disagio: […] nella prima fase della mia giovinezza
[…] non mi preoccupavo tanto dell’aspetto morale della questione, quanto delle
umiliazioni che la disuguaglianza sociale mi procurava. Finché stavo a
Varsavia
14
la situazione era più o meno sopportabile: il dramma cominciava
quando, arrivate le vacanze, partivo per la campagna. […] mio fratello Janusz
aveva voluto organizzarmi una “guardia del corpo”, ossia un reparto di
contadinelli sotto i miei ordini […] mentre addestravo il mio reparto, la
mamma o la governante mi chiamavano da lontano per dirmi di non bagnarmi i
piedi o per chiedermi se ero sicuro di non aver freddo. Muto e straziato, in
preda a una furia impotente, subivo la cinica impudenza di quelle donne, così
inconsapevoli del danno che mi causavano. […] gli attributi della mia
signorilità quali le scarpe, la giacca, la sciarpa, la governante e, orrore!, le
10
calosce, mi condannavano alla più nera umiliazione, ed era con
un’ammirazione furtiva, accuratamente dissimulata, che sbirciavo i piedi scalzi
e i rozzi camiciotti in tela dei miei sottoposti
15
. Gli elementi che più lo
affascinavano erano in effetti quelli “bassi”, contrapposti alla forma “alta” in cui
la famiglia voleva inquadrarlo: cercava il contatto con i servi e i contadini,
provava profonda ammirazione per quelli che camminavano scalzi, in modo
naturale, contrapposto alla falsità del suo mondo di piccolo nobile. Tutto ciò con
un’intima sensazione di disagio, di diversità, di solitudine. Così, ancora, si
descrive Gombrowicz parlando di quegli anni: Non lasciavo avvicinare nessuno
a ciò che in me era poco chiaro, particolare, e che per niente al mondo voleva
uscire alla luce del giorno. Ancora una cosa: ero assolutamente inadatto
all’amore. L’amore mi era stato tolto per sempre e sin dall’inizio, ma non so se
ciò sia avvenuto perché non sono stato capace di trovare una forma adatta ad
esso, un’espressione appropriata, o se invece non l’avevo in me. Non c’era o
l’avevo repressa? O forse l’aveva uccisa mia madre?
16
Nel 1915 i genitori lo iscrivono, a Varsavia, al liceo-ginnasio classico
San Stanislao Kostka, dove ricorderà di essere stato spesso oggetto di percosse,
vittima designata dei “bulli” della situazione: […] prima di sopportare alla
meno peggio quell’infame baracca e di conoscerne tutti i trucchi e trucchetti, mi
toccò subire un lungo martirio, accompagnato dagli sghignazzi selvaggi dei
miei massacratori. In quei primi anni di scuola non vedevo l’ora di crescere,
per passare finalmente alle classi superiori che mi parevano un angolo di
paradiso, paragonate a quell’inferno urlante, saltabeccante in tutte le direzioni,
sempre in ebollizione, senza mai un attimo di pace; per non parlare della
sporcizia e della bruttezza di quei marmocchi tutti smorfie. […]
17
In quella
scuola frequentata da molti adolescenti appartenenti alla nobiltà avrebbe potuto
senza dubbio frequentare i figli degli aristocratici, ma non fa il minimo sforzo in
questo senso: Probabilmente già allora si manifestava in me l’impossibilità, che
in seguito mi avrebbe tanto danneggiato, di stare con persone di rango sociale
superiore al mio. Non si trattava della manifestazione di un complesso di
inferiorità: accadeva piuttosto che già allora possedessi un mio modo di essere
e stessi bene solo con le persone alle quali potevo imporre quella mia forma
18
.
Cresce in lui, in quegli anni, una forte attrazione verso altri paesi, un bisogno di
sperimentare qualcosa di diverso dall’impotenza che sentiva gravare sulla
11
società polacca: Per me l’Europa si riassumeva in queste due parole: condizioni
diverse. Lì non vigeva quell’orribile realismo, caratteristico di tutta l’Europa
dell’Est, che tanto avevo sentito rammentare da schiere di zii e di non zii: un
realismo fatto di passività nei confronti della natura e di convinzione che lo
schifo fosse realmente inevitabile, che non ci fosse niente da fare e che ci si
dovesse sprofondare fino al collo
19
.
Dopo la fine della I guerra mondiale, nel 1918-19, frequentando la casa
“illuminata”, “culturale” dei Baliński
20
viene a conoscenza delle esperienze
degli “scamandriti”
21
, che allora erano ancora agli inizi e si riunivano al caffè
Pod Pikadorem, ma non contrae con essi un significativo rapporto: […] sebbene
vivessi con grande intensità il risveglio della nuova vita polacca, in pratica non
sapevo stabilire con essa il minimo contatto. […] Allora, però, non ero capace
di esprimermi quasi con nessuno. […] In me maturavano rivolte che non sapevo
comprendere né dominare
22
. In effetti alcuni episodi raccontati da Gombrowicz
e risalenti a questi anni testimoniano al meglio questi abbandoni ad impulsi
incontrollati e a comportamenti irriverenti: Ricordo il funerale di un nostro
parente […] A un tratto non so che diavolo mi prese: assunsi un fare
provocatorio e, le mani in tasca, mi misi a tirar calci a tutto quello che mi
capitava tra i piedi, a voltarmi per guardare le donne e infine, con spavento dei
miei genitori, a interpellare ad alta voce gli altri […] Giunto al cimitero, mi
feci addirittura venire un attacco di ridarella isterica, rimanendo piegato in due
sopra la bara, senza riuscire a prender fiato. Un’altra volta andai dal nostro
professore di disegno […] “Professore, sono stato alla sua esposizione,” […]
“però devo dirle che i suoi quadri non mi piacciono affatto. Secondo me non
valgono un accidente! Una vera vergogna! Mi meraviglio di lei!” Ma il
professore aveva su di me un potere che i pittori odierni non hanno. Mi prese
per un orecchio e mi portò in segreteria, dove rimasi al muro per un’ora,
ingoiando lacrime di rabbia e di umiliazione. Più crescevo più diventavo
pericoloso. […] Una volta il professor Ciepliński ci assegnò un compito in
classe su Slowacki
23
. Stufo dell’eterno osannare al poeta-vate, decisi che era
ora di cambiare musica. Se ben ricordo, il mio tema iniziava così: “Questo
ladro di Julius Slowacki, che saccheggiava a tutto spiano Byron e Shakespeare
senza riuscire a tirar fuori qualcosa di suo” […] Il professore […] mi dette
12
zero e minacciò di spedire il tema al ministero. Risposi che non capivo perché
volesse obbligare i suoi allievi all’ipocrisia […]
24
.
Nell’agosto del 1920, al culmine della guerra russo-polacca, mentre i
bolscevichi si avvicinavano a Varsavia, il maresciallo Józef Piłsudski
25
riuscì a
mettere in rotta l’esercito sovietico: il “miracolo della Vistola”. Il sentimento
patriottico divampa e tutti i giovani si arruolano, sollecitati da manifesti
imperiosi; le ragazze apostrofano i loro coetanei maschi: “com’è che non sei
ancora in divisa?” Per il giovane Gombrowicz, che invece non si arruola, il
disagio è grande: in un momento così cruciale per la Polonia, il suo isolamento
diventa più definitivo e più manifesto. […] Il servizio militare, ecco il mio
incubo. Non per il fatto di andare alla guerra e di dover combattere: erano le
caserme, la divisa, il sergente, gli addestramenti e il regime militare in genere a
riuscirmi odiosi e addirittura insopportabili. […] a sedici anni un ragazzo non
sa niente di se stesso e la sua sola salvezza consiste nel sentirsi uguale ai
coetanei. Quel 1920 fece di me un essere “diverso dagli altri”, un isolato, con
una vita eccentrica rispetto alla società. […] La separazione dal gruppo e dalla
nazione, che mi avrebbe costretto a cercarmi una strada e una vita per conto
mio, cominciò appunto nel memorabile anno della battaglia per Varsavia. […]
Sentivo di essere solo, solo contro tutti, e di dovermi chiudere in me stesso
senza lasciar entrare nessuno […].
26
In una situazione che non mancherà di
avere importanti conseguenze per quanto riguarda le sue scelte future,
Gombrowicz prende sempre più coscienza del suo individualismo e si sente fuor
di posto nella sua Polonia: cominciavo già a intuire che la vita umana in
Polonia valeva ben poco. Nella letteratura occidentale […] l’individuo aveva
un peso maggiore. […] Penso che sia stato il 1920 a fare di me ciò che sono
tuttora: un individualista
27
. Con una delle reazioni abnormi e per certi versi
paradossali che caratterizzeranno sempre il suo comportamento, in questo
periodo di notevoli difficoltà psicologiche si rifugia in un attacco di snobismo.
Si butta a capofitto, sulla scia del fratello maggiore, nella ricostruzione
dell’albero genealogico della sua famiglia: ogni particolare concernente i beni,
le cariche o le parentele mi riempiva di gioia e mi autorizzava a darmi più arie
che mai. […] Le mie zie - le “terribili zie” che tanta parte avranno nel mondo del
Ferdydurke - commentavano desolate: “Quel povero Itek, com’è blasé! Che
posatore!” […]
28
. Ma, al di là di questa facciata, la crisi è grande: Il mondo mi
13
era diventato insopportabile. Tutto mi appariva una caricatura velenosa. La
mia famiglia, la mia “sfera” sociale: tronfie, viziate, rammollite. […] La mia
solitudine si era fatta assoluta. Ma, al tempo stesso, passeggiando così per i
campi, osservavo i miei amici di qualche anno prima, i campagnoli della mia
“vecchia guardia”, che ormai andavano a lavorare. Quelli lì non erano
caricature! Semplici, sinceri e, come dire? giusti. […] Non riuscivo a capire
come mai la cultura, l’istruzione e l’educazione falsificassero l’uomo, mentre
l’analfabetismo dava risultati così positivi […]
29
.
La riflessione sulla
condizione della gente della sua classe sociale e sulla “forma” di cui è schiava
trova ampia enunciazione in un discorso con uno zio: […] “Non avendo
bisogno di lottare per l’esistenza, [sc. noi eccentrici proprietari terrieri] ci
inventiamo dei falsi bisogni. […] Questa artificiosità dei bisogni produce anche
l’artificiosità delle forme: ecco perché siamo così strambi e ci riesce così
difficile trovare il tono giusto…”
30
.
Dopo lo sconvolgimento della guerra, con la ripresa della scuola, Witold
si ritrova nella classe settima, dove la sua situazione migliora in quanto, come
afferma, gli altri iniziano a trattarlo come una persona intelligente e a
rispettarlo. Tuttavia il sistema di insegnamento su cui si basa quella scuola - o
meglio, il baraccone scolastico, come impietosamente egli lo definisce - è una
grossa delusione: […] la mia superiorità intellettuale mi assicurava un minimo
di rispetto; in compenso, sempre più chiaramente si rivelava l’assurdità dei
programmi e di tutto il sistema scolastico. […] boccheggiavo durante le
melense lezioni sui vati nazionali […]
31
. La scuola è anch’essa luogo di uno
sfrenato formalismo che agli occhi del Gombrowicz adulto e scrittore è - con
una delle tante ambivalenze che caratteristicamente gli apparterranno - una
disgrazia, ma al tempo stesso una eccezionale fonte di ispirazione, in quanto su
di esso lo scrittore edificherà le sue creazioni: Quel formalismo mi
appassionava: da un lato mi irritava, ma dal punto di vista artistico ne ero
affascinato. La mia opera abbonda di queste forme morenti, come le scene di
duello più volte ricorrenti […]
32
.
Nell’autunno del 1923 – si era appena iscritto alla facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Varsavia – si ammala di petto: localizzazione
agli apici e febbricola serale. Per curarsi passa tutto l’inverno nelle foreste
resinose di Potoczek e di Zakopane (località di soggiorno sui monti Tatra), con
14
la sola compagnia di un giovane servitore di nome Walek
33
. Si sentiva solo
come un cane: non potevo permettermi eccentricità o confidenze […]
34
. La
consapevolezza e il fastidio della sua condizione di privilegio, in questa realtà
senza distrazioni di sorta, si acuiscono dolorosamente: “Sua signoria” si
accomodava alla tavola […]
35
. Per reagire, per dimostrare – in primo luogo a
se stesso – di avere qualcosa da fare, si mette a scrivere, ma i suoi risultati
vengono giudicati scadenti dal fratello: Fu allora che per la prima volta
conobbi la vergogna che accompagna ogni creazione artistica, soprattutto
quella che non ottiene un riconoscimento ufficiale e non si vende. Una
vergogna che ho continuato a sentirmi addosso per anni e anni, e che solo
recentemente si è un po’ mitigata
36
. Lui stesso, giudicando quello che aveva
scritto, ammette che ancora gli mancava completamente la brillantezza nello
scrivere. Nondimeno, forte è in lui la convinzione di essere intellettualmente
superiore.
Il colpo di stato di Piłsudski del 12 maggio 1926, lo sconvolgimento di
maggio, che pure fece tremare tutto lo stato
37
, non riesce a tirarlo fuori dal suo
isolamento. Era più forte di me: non ce la facevo a condividere la vita collettiva
polacca, politica o culturale che fosse […]
38
.
Nel 1927 si laurea in Giurisprudenza a Varsavia, ma sa bene che non è
quella la sua strada: A diventare giudice o avvocato non ci pensavo nemmeno.
La mia famiglia aveva comunque deciso che io dovessi completare i miei studi a
Parigi, e non ero certo così folle da oppormi: tanto più che quegli studi mi
permettevano di rimandare ulteriormente il servizio militare […]
39
. Lo stesso
anno si trasferisce a Parigi per studiare economia e filosofia all’ “Institut des
Hautes Études Internationales”. L’attività principale fu […] girare per le strade
[…]. Penso che pochi, a Parigi, siano riusciti a vedere meno cose di me… non
andavo a visitare nulla, non c’era nulla che mi interessasse […]
40
. Di questo
comportamento il Gombrowicz degli anni ‘60 fornisce una sua interpretazione:
A quell’epoca ero effettivamente molto maldisposto verso l’arte. Ero invasato
da Schopenhauer e dalla sua antinomia vita – contemplazione, e anche da
Mann, dove tale contrasto assume un aspetto ancor più doloroso. Per me l’arte
era il frutto della malattia, della debolezza, della decadenza; […] penso fosse
colpa della mia insofferenza per i luoghi comuni […] in realtà
quell’indifferenza per Parigi era solo un’apparenza sotto la quale si celava una
15
guerra all’ultimo sangue […]
41
. L’energia provocativa incontrollata che lo
animava durante quel soggiorno esplose nel peggiore dei modi, in un bar vicino
al Panthéon, nel corso di una discussione con dei giovani studenti parigini
appena conosciuti: […] insomma, io Parigi la trovo nauseabonda […]
42
. La
priorità in quel momento era quella di […] difendere la mia sovranità: non
potevo permettere a Parigi di sopraffarmi!
43
. E’ dunque un atteggiamento di
protesta, di dissociazione dal senso comune, e soprattutto di polemica nei
confronti della comunità polacca di Parigi, che giudica troppo succuba nei
confronti della cultura occidentale: Fu lì e allora che afferrai per le corna il
toro con il quale in seguito mi sarei così spesso misurato: il toro della
superiorità occidentale. […] il punto sta nel modo di farlo (sc. far conoscere i
valori polacchi nel mondo), un modo che fatalmente rivela il nostro sciagurato
complesso di inferiorità, la nostra mancanza non solo di dignità ma anche di
senso dell’umorismo […]
44
. Durante il soggiorno a Parigi, che è solo
nominalmente un’esperienza di studio, gli apici polmonari tornano a farsi
sentire, ed egli vive la malattia come un dono della Provvidenza
45
per
mascherare la sua inattività. Il problema di salute ha come conseguenza un
periodo di soggiorno di qualche mese nei Pirenei francesi, nel contesto del quale
Gombrowicz vive un’esperienza esaltante ed indimenticabile, una scoperta che
lo scuote e lo avvicina alla vita “vera” che cerca, una gita in bicicletta con
alcuni ragazzi “veri” giù fino al mare Mediterraneo, che egli non aveva mai
visto e che lo affascina: […] una gita fantastica […] I miei compagni non erano
più anziani di me: giovani operai chiacchieroni, vivaci, divertenti […] alla fine
ero talmente sbronzo che non riuscivo assolutamente a ricordare come si
scendesse di bicicletta […]
46
. Quando, pedalando in mezzo a quella banda di
meridionali scatenati, intravede in lontananza la superficie immota e scintillante
di quell’acqua latina, che gli appare di colpo, come al levarsi di un sipario, è
una rivelazione: quel che non erano riusciti a fare tutte le cattedrali e i musei
di Parigi lo fece quella striscia di strada vertiginosa; in un lampo capii il Sud,
la Francia, l’Italia, Roma e mille altre cose; per la prima volta tutto ciò mi
parve prezioso, a me che fino a quel momento avevo considerato gli uomini
bruni come una razza inferiore. Il bianco delle pietre, […] l’azzurro davanti a
noi e sopra di noi […] capivo tutto. Ed ero estasiato che tutta quella santità mi
fosse piovuta addosso mentre filavo come un matto in mezzo a una banda di
16
giovani operai ubriachi e urlanti, la cui primitività si mescolava liberamente e
spontaneamente alla cultura […] Da quel momento non provai più avversione
per il Sud
47
.
L’estate del 1928 era ormai alle porte, e Gombrowicz ritorna a Varsavia
per le vacanze: […] così si conclusero i miei studi parigini che, a dire la verità,
mai erano cominciati […] quel mio incontro con l’Occidente era stato
estremamente importante: da un lato aveva acuito la mia diversità polacca,
dall’altro mi aveva iniziato all’Europa
48
. Diventa avvocato dapprima nella
Corte Distrettuale, poi in quella d’Appello, riuscendo per un certo tempo ad
assuefarsi alla routine del sistema
49
. Quel lavoro lo coinvolge per poco tempo;
se ne stanca presto e inizia ad abbozzare racconti di vario tipo, anche durante le
cause in tribunale. Problematiche vecchie e nuove lo prendono interamente e
abbandona il lavoro forense per dedicarsi interamente alla sua vena filosofico-
letteraria: […] nutrivo una predilezione per il nonsenso e per l’assurdo, così
che niente mi dava più soddisfazione del veder nascere sotto la penna una
scena veramente folle ed estranea ai modelli correnti della “sana” logica,
tuttavia ben coerente con la sua logica interiore
50
. La lacerante sensazione di
essere al tempo stesso un aristocratico e un artista, un “irregolare”, non lo lascia
mai: Mi vergognavo […] ero pur sempre un proprietario terriero, tipico frutto
del mondo rurale […] conservavo pur sempre qualcosa della loro diffidenza
verso l’arte e gli artisti […] Ma al tempo stesso […] provavo una sorda rabbia
per tutto quel che facilitava la mia vita: i soldi, i natali, l’educazione, le
relazioni, in una parola, per tutto quel che, rendendomi un sibarita e un
fannullone, si frapponeva come una lastra di vetro tra me e la realtà […]
51
. In
occasione della frequentazione con una cameriera, una ragazza facile, di quella
particolare facilità prodotta dall’atmosfera sportiva; ma al tempo stesso […]
pura
52
che incontra in un rifugio a Zakopane - località che frequenterà spesso
anche per via della sua malattia - realizza sempre più lucidamente che la vita di
chi non ha problemi economici diventa dura proprio perché la sua facilità pesa
come un macigno
53
. Gli appare chiara, conseguentemente, l’importanza di
questo tema per la sua attività di scrittore: Il fatto di non essere abbastanza
autentico né abbastanza inserito nella realtà poteva diventare il mio tema
centrale, il mio autentico dramma
54
.
17
In questo periodo Gombrowicz fa amicizia con Tadeusz Breza
55
e con
Adam e Zofia Mauersberger
56
, la cui casa era uno dei luoghi di ritrovo di
giovani che preferiva; viene introdotto a Mieczysław Grydzewski
57
, redattore
capo della rivista letteraria “Widomości Literackie” e del mensile poetico
“Skamander”, e a Jarosław Iwaszkiewicz
58
, che allora aveva già fatto il suo
debutto nel panorama letterario polacco. Si mantiene comunque lontano dagli
“scamandriti”: Ero estremamente orgoglioso. Non sopportavo che quella gente,
quegli artisti già realizzati mi trattassero dall’alto in basso. Non sapevo che
farmene di una posizione di secondo piano […]
59
. Inizia a scrivere i racconti
del Pamiętnik z okresu dojrzewania (Diario del periodo della maturazione),
sviluppando il gusto per l’assurdo, per la descrizione della vita come una realtà
caricaturale. Li mostra, non senza timore, ad alcuni suoi amici: Tadeusz Breza, i
fratelli Mauersberger e Tonio Sobański
60
; questi li accolgono con entusiasmo,
convincendolo a pubblicarli. Il Pamiętnik z okresu dojrzewania viene pubblicato
nel 1933 dalla casa editrice Roj di Varsavia; verrà successivamente ripubblicato
con il titolo Bakakaj nel 1957 a Cracovia dalla Wydawnictwo Literackie: Mi
ostinai a chiamarlo Diario del periodo della maturazione. Pensavo che quel
titolo potesse incuriosire e al tempo stesso dimostrare che non consideravo quei
racconti un traguardo definitivo
61
. Le recensioni sono negative, i critici parlano
di lui definendolo un autore “immaturo”. Questa critica non sarà senza
conseguenze sul suo futuro di scrittore: Tanto mi tormentarono, con quella
storia dell’immaturità, da fornirmi lo spunto per il mio libro seguente,
Ferdydurke: fu così che, un po’ per volta, mi trasformai in uno specialista
nonché sacerdote dell’argomento
62
. Sempre nel 1933 inizia a collaborare con la
rivista “Kurier Poranny” (Corriere del Mattino) scrivendo articoli e recensioni
letterarie, come quella dedicata alla nuova edizione polacca del Don Chisciotte
di Cervantes
63
. Il suo ingresso nel mondo della letteratura non è ben accetto
nella famiglia, per la quale fare l’artista era da considerarsi come una vergogna,
una stravaganza che non conferiva uno status sociale: […] Suppongo che, se
fossi entrato in un corpo di ballo e mi fossi messo a sgambettare mezzo nudo in
pubblico, i miei si sarebbero sentiti meno sgomenti
64
.
Il 1933 è anche l’anno della morte del padre: un evento importante, che
diventa per Gombrowicz occasione di riflessione su di sé, sulla sua famiglia,
sulla sua personale situazione e sulle sue prospettive: Quando mio padre fu