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CAPITOLO I
DALL’ISTITUZIONE DELLE REGIONI ALLA RIFORMA DEL TITOLO V
1. Il modello costituzionale originario
In Italia, la Regione non è mai stata concepita come un livello di governo a sé
stante, a maggior ragione per il fatto che essa non era mai esistita nel nostro
ordinamento. Durante i lavori dell’Assemblea Costituente, le forze politiche si
divisero da subito fra un blocco antiregionalista e uno regionalista in merito al
ruolo politico da assegnare alla Regione alla luce delle dinamiche affermatesi a
livello nazionale: da una parte, oltre ai liberali e ad alcune frange delle forze
conservatrici, c’erano i social-comunisti, ostili all’introduzione di un livello di
governo intermedio (fra lo Stato e gli enti locali) dotato di potestà legislativa, non
solo per il rischio che ivi potessero venire ad insediarsi dei notabilati
conservatori, ma soprattutto perché esso avrebbe reso difficoltosa quella
pianificazione centrale dell’economia che era il perno delle loro politiche di
governo; dall’altra, c’erano invece i costituenti eletti nelle fila della Democrazia
Cristiana e del Partito Repubblicano, che vedevano nell’istituzione di un forte
ente intermedio un ulteriore allargamento delle basi della democrazia, allora
tutt’altro che solide. La situazione si sbloccò per il mutamento degli interessi
politici in gioco, conseguente alla probabile estromissione delle forze politiche
social-comuniste dal governo nazionale nelle elezioni politiche del 1948 (causata
da eventi politici aventi rilevanza internazionale, ma dagli incisivi riscontri anche
sulla realtà politica nazionale): tali forze si dichiararono favorevoli all’istituzione di
un ente intermedio, visto da quel momento come un baluardo da conquistare al
fine di evitare un’eccessiva concentrazione dei poteri in mano al governo
centrale (Rubechi 2008).
La Costituzione del 1948 sancì la nascita di uno Stato regionale quale variante
dello Stato unitario (Baldi 2006); si trattava di una soluzione di compromesso
che, rifiutando l’opzione federalista, andò ad istituire Regioni autonome a cui
furono riconosciuti poteri piuttosto contenuti, i cui principi si estrinsecarono:
ξ nella previsione di statuti deliberati dai consigli regionali, ma approvati con
legge del Parlamento; ad essi, «in armonia con la Costituzione e le leggi della
Repubblica», spettava dettare «le norme relative all’organizzazione interna
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della Regione» (art. 123), ma non la forma di governo, stabilita invece –
ricalcando il modello parlamentare nazionale – direttamente dalla Costituzione
in modo uniforme per tutte le Regioni (artt. 121, 122, 126);
ξ nella previsione di una limitata potestà legislativa (artt. 117 e 127) di tipo
concorrente (il potere regionale di dettare norme legislative doveva avvenire
solo in materie espressamente elencate e «nei limiti dei principi fondamentali
stabiliti dalle leggi dello Stato» e sempre che le norme medesime non fossero
state «in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni»,
previo controllo del Commissario del Governo) e di tipo attuativo di leggi
statali (allorché le leggi stesse avessero demandato tale facoltà alle Regioni);
ξ nell’attribuzione di potestà regolamentare e funzioni amministrative nelle
stesse materie di potestà legislativa regionale (secondo il principio del
parallelismo) e sempre che tali funzioni non fossero «di interesse
esclusivamente locale» (art. 118);
ξ nel riconoscimento di autonomia finanziaria, costituita da tributi propri, quote
di tributi erariali e contributi speciali, e vincolata alle «forme» e ai «limiti
stabiliti da leggi della Repubblica», alle quali spettava il coordinamento della
finanza pubblica (art. 119)
ξ nel potere (al pari dello Stato) di difendere le proprie attribuzioni legislative e
amministrative dinanzi alla Corte costituzionale (Morrone 2004).
I poteri di controllo statale nei confronti delle delibere legislative erano incisivi,
primi fra tutti il ricorso in via d’azione (dinanzi alla Corte costituzionale, per
violazione di disposizioni costituzionali) e quello – attivabile in via preventiva – di
merito (dinanzi al Parlamento, in caso di contrasto con gli interessi nazionali e
con quelli di altre Regioni); era inoltre possibile il sindacato sugli atti
amministrativi (ibidem).
Non fu prevista alcuna forma di rappresentanza regionale nel Parlamento, le
Regioni furono escluse dai processi di revisione costituzionale e – benché
istituita la Corte costituzionale quale arbitro chiamato a risolvere i conflitti di
competenza fra lo Stato e le Regioni – per queste ultime non fu stabilito alcun
coinvolgimento nel processo di nomina dei giudici costituzionali (Baldi 2006).
Le Regioni, dunque, nacquero deboli; e non solo nei confronti dello Stato, bensì
anche verso gli enti locali (era infatti previsto il potere statale di definire
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l’ordinamento e le funzioni degli enti locali mediante «principi fissati da leggi
generali della Repubblica», art. 118) (Morrone 2004).
Ma la vera debolezza originaria del regionalismo italiano si esplicò nella
previsione di cinque Regioni a statuto speciale (art. 116), riconosciute tali per la
presenza di minoranze linguistiche, identità storiche, condizioni arretrate di
sviluppo. Si trattava delle Regioni in cui si erano già prodotte delle mobilitazioni a
sostegno dell’autonomia, cioè Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige (articolata nelle
province autonome di Trento e Bolzano), Friuli Venezia Giulia, Sicilia e
Sardegna; ad esse si riconobbero maggiori poteri, non rigidamente predefiniti dal
testo costituzionale, bensì negoziati con i rappresentanti dei territori e garantiti
da statuti approvati con legge costituzionale. Tale asimmetria, che si tradusse in
un più ampio potere legislativo – meno vincolato e comprensivo di competenze
esclusive – e in una maggiore autonomia finanziaria e amministrativa per le
Regioni speciali, rese quelle ordinarie ancorate ad una prospettiva depotenziata
di sviluppo (Baldi 2006).
2. Il regionalismo prima delle riforme degli anni Novanta
L’evoluzione del regionalismo risentì delle debolezze originarie: a differenza
delle Regioni speciali, che nacquero a breve distanza dall’approvazione della
Costituzione (con la sola eccezione del Friuli Venezia Giulia, il cui statuto fu
approvato nel 1963), le Regioni ordinarie conobbero un’attuazione tardiva e
parziale (Baldi 2006). L’affermazione della DC e, con essa, della conventio ad
excludendam nei confronti delle forze politiche rientranti nell’alveo della sinistra,
diede vita a quel periodo poi definito “ostruzionismo di maggioranza”: la DC,
cioè, di fronte al rischio di perdere l’egemonia nel paese e nelle istituzioni, ritardò
l’attuazione di significative parti della Costituzione, fra cui, appunto, quella delle
Regioni ordinarie. Esse furono infatti introdotte nell’ordinamento solo nel 1970,
proprio perché negli anni precedenti non si voleva permettere al Partito
Comunista di conquistare delle roccaforti in quelle porzioni territoriali del Paese
in cui la domanda politica gli era stata storicamente più favorevole (Rubechi
2008); come se non bastasse, furono loro conferiti poteri insufficienti a
consentirne l’operatività: pochissime furono le competenze devolute, senza le
risorse amministrative e finanziarie necessarie al loro esercizio e in assenza di
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una contestuale riforma degli apparati amministrativi centrali per le competenze
trasferite (Baldi 2006).
Con la legge delega n. 382/1975 e il conseguente decreto legislativo n. 616/1977
il regionalismo ebbe un primo sviluppo: le Regioni ordinarie furono dotate delle
competenze legislative previste dall’art. 117 e di numerose competenze
amministrative delegate dallo Stato in base all’art. 118; complessivamente, esse
risultavano competenti in materia di servizi sociali, assistenza scolastica, cultura
e formazione professionale, pianificazione territoriale e sviluppo economico
locale. La distanza dalle Regioni speciali dunque si ridusse per quanto riguarda
le competenze, ma permase in merito alle modalità di esercizio del potere
legislativo, al rapporto con gli enti locali e agli aspetti fiscali (la legge n. 281/1970
disegnò il sistema finanziario delle Regioni ordinarie all’insegna della
centralizzazione e dell’uniformità, basandolo su trasferimenti statali vincolati e
definiti con criteri uniformi di spesa procapite, con evidente inattuazione del
principio di autonomia finanziaria enunciato dalla Costituzione all’art. 119) (Baldi
2006).
Fu soprattutto con la legislazione statale successiva che il modello costituzionale
venne fortemente alterato e ridotto nelle sue potenzialità di sviluppo: lungi dal
realizzare la direttiva costituzionale che imponeva allo Stato di adeguare «i
principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del
decentramento» (art. 5), il Parlamento finì per sacrificare l’autonomia e il
decentramento «sull’altare del centralismo e dello statalismo» (Morrone 2004). Il
potere legislativo regionale venne progressivamente svuotato da una
legislazione statale invasiva che si sostanziava, da un lato, in interventi diretti
nelle materie di competenza regionale, giustificati sulla base dell’interesse
nazionale (Baldi 2006), trasformato da limite di merito a presupposto di legittimità
(Morrone 2004), dall’altro, nella regolamentazione minuziosa degli spazi
regionali attraverso principi e leggi quadro nazionali sempre più di dettaglio. Le
Regioni speciali, invece, nonostante l’accrescimento dei vincoli posti dalla
giurisprudenza costituzionale, riuscirono a preservare un grado maggiore di
autonomia (Baldi 2006).