5
carattere divulgativo di cui spesso è molto difficile capire fino in fondo il valore
[Favretto, 1994].
La presentazione più approfondita in merito alla nascita delle ricerche e della letteratura
sullo stress è, qui, affrontata nel Primo Capitolo, nel quale sono definiti i termini
fondamentali, viene fatto un confronto tra il concetto di stress e i costrutti simili e vicini,
vengono esaminati i principali modelli teorici relativi allo stress lavorativo, sono
individuate le più frequenti cause di stress a livello occupazionale, gli effetti dannosi e
le ricadute dello stress sulla vita e sul benessere dei lavoratori e, infine, sono osservate
le principali strategie che individui e organizzazione possono mettere in atto nel
tentativo di far fronte alle situazioni stressanti.
Il capitolo introduce anche il tema dell’autoefficacia vista, qui, come dimensione
personale rilevante nella determinazione dei comportamenti organizzativi.
Solo nel Secondo Capitolo, tuttavia, tale concetto viene approfondito dettagliatamente
attraverso l’analisi dello studio realizzato da Albert Bandura nella sua teoria socio-
cognitiva della human agency.
Il capitolo si apre con un paragrafo relativo all’importanza dei fattori legati alla
personalità nel determinare i comportamenti degli individui e dei gruppi al lavoro.
La personalità viene studiata, in particolare, facendo riferimento agli approcci teorici
cognitivi, i quali focalizzano l’attenzione sulle percezioni e i pensieri degli individui
mentre vivono e interagiscono col mondo che li circonda.
Nello specifico, viene affrontato lo studio delle teorie di Bandura in merito al
determinismo triadico reciproco (ovvero all’idea secondo la quale personalità,
comportamenti degli individui e ambiente si influenzano e si determinano
reciprocamente) e alle determinanti di personalità (ovvero quelle capacità presenti in
tutti gli individui, anche se in misura diversa, come capacità di simbolizzazione, di
autoriflessione, di autoregolazione, ecc., che permettono agli individui di adattarsi e di
interagire con l’ambiente esterno).
Nella teoria di Bandura, la dimensione dell’autoefficacia percepita è strettamente
correlata a queste capacità, soprattutto alle capacità di autoconoscenza e
autoregolazione.
Il capitolo prosegue approfondendo la natura del costrutto in questione: vengono
osservate le fonti dalle quali l’autoefficacia si sviluppa e si rinforza, viene mostrata la
6
differenza tra il costrutto di autoefficacia individuale e quello di autoefficacia collettiva
e, infine, si tenta di spiegare in cosa l’autoefficacia si differenzia da altri costrutti simili
ma spesso considerati erroneamente interscambiabili, come quello di autostima, di locus
of control interno e di motivazione alla competenza.
L’ultima parte del capitolo è centrata sull’analisi delle implicazioni della dimensione
dell’autoefficacia all’ambito lavorativo, in particolare alle influenze esercitate dal
costrutto in relazione alla scelta del settore professionale, ai processi decisionali, e al
processo di empowerment organizzativo.
Il ruolo dell’autoefficacia nei processi di gestione dello stress è, invece, il cuore del
Terzo Capitolo.
La personalità è un aspetto importante da tenere in considerazione nel tentativo di
comprendere le diverse percezioni e reazioni allo stress tra gli individui.
In questo capitolo si cerca di mostrare come il costrutto di autoefficacia possa essere un
facilitatore o un inibitore degli effetti negativi dello stress.
La scelta è quella di effettuare un percorso che osservi in che modo l’autoefficacia
applicata a diversi ambiti della vita (come quello familiare, quello scolastico, quello
sportivo, ecc.) può influire sul processo di gestione dei fattori di stress relativi a questi
ambiti.
In particolare, viene approfondito il ruolo dell’autoefficacia nella gestione degli
stressors legati all’attività lavorativa, soprattutto in quelle funzioni maggiormente
caratterizzate da questo tipo di problemi, come quelle manageriali.
L’osservazione sull’applicazione delle teorie sull’efficacia alle ricerche sullo stress
occupazionale è effettuata sia a livello individuale che a livello collettivo.
Alcuni studi svolti in note riviste scientifiche quali il “Journal of Applied Psychology”
mostrano come, sia a livello individuale che collettivo, l’autoefficacia possa avere un
impatto incisivo sul modo in cui gli impiegati possono reagire ai fattori di stress sul
posto di lavoro.
A titolo esemplificativo è stato mostrato che mentre gli individui con un alto livello di
autoefficacia tendono, in situazioni di stress, a concentrarsi sul problema, convinti di
poter agire per modificare la situazione, quelli con un basso livello di autoefficacia si
lasciano influenzare maggiormente dalle emozioni e tendono più a preoccuparsi del
problema che a cercare di reagire agli stressors che l’hanno determinato.
7
Ovviamente, quindi, il livello personale di autoefficacia può influenzare e orientare le
scelte individuali verso un tipo di lavoro o di ambiente lavorativo piuttosto che un altro:
rispetto a coloro che hanno un basso livello di self-efficacy, per esempio, gli individui
con un’alta autoefficacia sono maggiormente portati e indirizzati verso lavori ad alta
responsabilità, che lascino ampio spazio alle iniziative e alle decisioni personali,
nonostante la maggiore percentuale di rischio presente.
Attraverso lo studio di documentazioni scientifiche, delle ricerche effettuate sia sul tema
dello stress occupazionale, sia sul tema dell’autoefficacia, si cercherà, pertanto, di
osservare le modalità attraverso le quali questa dimensione di personalità incide nella
scelta delle strategie di gestione dello stress e sulla resilienza nei confronti delle
difficoltà e degli eventi stressanti.
Il Quarto Capitolo è rivolto proprio al tentativo di osservare se le ipotesi formulate
possono trovare delle corrispondenze effettive nella realtà.
Viene, quindi, esaminato il caso di una società che ha dovuto attraversare una grossa
ristrutturazione che ha comportato il licenziamento di quasi il 90% del personale.
La società è, in realtà, la filiale italiana di una grossa multinazionale giapponese, la
quale, in seguito a un periodo di crisi, decide di chiudere l’azienda in Italia e di gestire il
commercio nel mercato italiano tramite un’altra filiale di Londra, la capo-gruppo del
marchio a livello europeo.
Tuttavia, con l’appoggio solo di una piccola parte del vertice giapponese, il
management italiano decide di non chiudere la società e di cercare, invece, di risollevare
le sorti dell’organizzazione nonostante le poche risorse in termini economici e il
personale esiguo.
Quando la società riparte, al termine della fase dei licenziamenti, ci sono solo 6
dipendenti a portare avanti l’attività lavorativa, alcuni dei quali sono stati richiamati a
lavorare in azienda a distanza di pochi mesi dalla rottura del rapporto lavorativo.
Mediante l’uso di uno strumento d’indagine come l’intervista semi-strutturata, si è
cercato di capire quali siano state le motivazioni del tentativo di tenere aperta l’azienda
conoscendo perfettamente le difficoltà in cui verteva e il rischio concreto di un
fallimento, le motivazioni del personale che aveva già lasciato l’azienda (e che aveva
già trovato un nuovo impiego) a decidere di rientrare pur essendo a conoscenza delle
scarse garanzie di sicurezza dell’impresa, le maggiori difficoltà riscontrate al momento
8
della ri-partenza, le eventuali ricadute della complicata situazione lavorativa sulla vita
privata e sulle relazioni interpersonali con colleghi e familiari.
Attraverso la somministrazione di un questionario realizzato con tre Scale di
Misurazione dell’Autoefficacia si è, invece, cercato di individuare il livello di
convinzioni di efficacia generalizzata, individuale e collettiva, in modo da confrontare
le variabili e osservare se, nella situazione analizzata, l’autoefficacia può aver
rappresentato un moderatore degli effetti negativi dello stress e possa, in alcuni casi,
esserne anche uscita rinforzata.
9
CAPITOLO 1. Lo stress occupazionale
“Tutto il nostro corpo è un corpo pensante. Quando diciamo che
il nostro cuore scoppia di gioia o che il nostro stomaco
non digerisce una situazione, stiamo letteralmente
descrivendo il pensiero dei nostri organi”
1
.
(Anna Zanardi, psicologa e psicoterapeuta)
1.1 Introduzione: presentazione del tema e definizioni
Psicologia e metallurgia sembrano apparentemente non avere nulla in comune: una
studia intimamente il comportamento, i processi mentali e l’anima umani, l’altra si
occupa dell’estrazione dei metalli e della loro lavorazione.
Sono due realtà completamente distanti, eppure qualcosa che le accomuna esiste: lo
stress.
Il termine “stress” è entrato a far parte del linguaggio corrente: ognuno di noi l’ha
utilizzato almeno una volta nella vita per descrivere una situazione di disagio, di
tensione, di forte preoccupazione o di ansia.
L’uso che se ne fa è indubbiamente molto generico, spesso improprio, soprattutto se si
pensa che, in realtà, l’origine del termine è legata al settore metallurgico, nel quale era
tradizionalmente utilizzato per indicare gli effetti che grandi pressioni determinavano
sui materiali.
Proprio di pressioni e di effetti si deve parlare quando si utilizza il termine stress.
Il tentativo di collocazione etimologica si deve, infatti, necessariamente ancorare alla
definizione proposta da Hans Selye, il quale proprio dalla metallurgia aveva preso in
prestito il termine per indicare una concatenazione di eventi omeostatici, adattamenti, e
1
A. Zanardi, Stress occupazionale: una patologia emergente, in E. Grossi, G. Apolone (a cura di),
Stressati o felici?, Atti del Convegno di Milano, Circolo della Stampa, 28 Febbraio 2003, p. 29.
10
modificazioni fisiologiche che gli animali da laboratorio mettevano in atto come effetto
delle pressioni esercitate da agenti nocivi introdotti nel loro organismo.
Selye è considerato, a giusta ragione, il padre fondatore delle ricerche sullo stress; a lui
va il merito di aver “portato alla luce” il fenomeno e averlo trasferito alla comunità
scientifica.
Egli non avrebbe mai pensato, probabilmente, di attivare un interesse di ricerca che,
nato in un contesto biologico, avrebbe dato e ricevuto poi grandissimi apporti dalla
psicologia e dalle scienze del comportamento umano.
Questo è stato, tuttavia, ciò che è avvenuto in seguito: gli studi di Selye hanno gettato le
basi per la nascita di un filone di ricerca che annovera a tutt’oggi più di 150.000
pubblicazioni.
2
Gli studi sulla psiche e sul comportamento umano, anche applicati al lavoro e alle
organizzazioni, hanno rivolto, nel tempo, un’attenzione e una considerazione sempre
crescente nei confronti delle tematiche relative allo stress.
Anche nella nostra comunità scientifica, quella italiana, le tematiche dello stress legato
alla sfera lavorativa e della qualità della vita stanno acquisendo sempre più spazi e
sempre più importanza, soprattutto in ambito psicologico, pur osservando nel contempo
l’esistenza di un ritardo considerevole rispetto alla ricerca internazionale, in particolare
nella valorizzazione degli aspetti interdisciplinari (medici, psicologici e sociologici) che
caratterizzano questo settore di studi.
3
L’importanza e il peso che le questioni relative al fenomeno “stress” ricoprono
all’interno di tutti i manuali di organizational behavior sono esplicativi di un modo di
guardare l’organizzazione sempre più orientato verso le persone e sempre più incentrato
sulla convinzione che esse possano essere davvero, per l’organizzazione, una risorsa
essenziale, il valore unico e inimitabile, una reale fonte di vantaggio competitivo.
È comprensibile, quindi, come l’assunto basato sulla considerazione delle persone come
determinanti per il successo o l’insuccesso di un’organizzazione, porti con sé
inevitabilmente un’attenzione e una sensibilità sempre crescente nei confronti del loro
benessere fisico e psicologico, tale da motivare un aumento dell’interesse e delle
ricerche legati a questi temi.
2
Cfr G. Favretto, Lo stress nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 7.
3
Cfr G. Favretto, Research into Work Stress in Italy: A Review, in “Work & Stress”, 1988, 2, pp. 113 –
122.
11
Tale “slancio” d’interesse ha portato, tuttavia, anche al proliferare, accanto alle
pubblicazioni più rigorose, di innumerevoli studi dal carattere divulgativo che tendono
ad assumere il termine stress in un’accezione troppo generica e onnicomprensiva col
rischio di minare la qualità dell’impegno di approfondimento dedito a questo tema e il
valore degli esiti possibili.
Questo genere di letteratura, certamente recente, rende difficile riuscire a fare chiarezza
in merito al vero significato del termine “stress”.
La confusione deriva dall’uso distorto che ne viene fatto, volendo indicare con questo
termine “qualsiasi segnale, sintomo, stato di disagio della relazione tra individuo e
organizzazione, al di là di una più precisa concettualizzazione che tenga effettivamente
conto di percorsi causali più o meno complessi”.
4
Per avere un quadro sufficientemente ampio e dettagliato delle innumerevoli sfumature
di significato attribuite al costrutto di “stress” saranno mostrate, nello sviluppo di questo
capitolo, le definizioni date dai pionieri della ricerca scientifica sull’argomento.
Nel desiderio, tuttavia, di fornire immediatamente una definizione univoca del termine,
libera dall’alone di significati impropri entrati nel senso comune, occorre chiarire
innanzitutto che, da un punto di vista etimologico, il termine “stress” è passato dal
significato iniziale di avversità, difficoltà, afflizione, a quello più recente di pressione,
sollecitazione, tensione o sforzo, ed è frequentemente usato per indicare una “spinta a
reagire” esercitata sull’organismo da diversi stimoli sia esterni all’individuo, sia interni
(stressors).
Ciò che portò il “padre dello stress”a formulare la sua definizione scientifica del
termine, fu l’ipotesi, corroborata dai suoi studi, che esistesse, nei meccanismi biologici
che presiedono alle risposte di adattamento di un organismo a fronte di un agente
nocivo, un insieme di segni e di sintomi tra loro correlati e coerenti tale da far pensare
all’esistenza di una sindrome generalizzata di risposte, denominata, successivamente,
“sindrome generale di adattamento” (SGA) o, facendo riferimento alla metallurgia,
“stress”.
4
G. P. Quaglino, Appunti sul comportamento organizzativo, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, p. 137.
12
La definizione scientifica che ne diede in seguito, vedeva lo stress (o SGA) come “una
risposta (generale) aspecifica a qualsiasi richiesta (demand) proveniente
dall’ambiente”.
5
In molti riconobbero che fosse corretto identificare col termine stress una risposta a uno
stimolo ambientale, la reazione adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di
fattori esterni.
Tra questi, Lazarus definì lo stress come “un particolare tipo di rapporto tra la persona
e l’ambiente, che viene valutato dalla persona stessa come gravoso o superiore alle
proprie risorse e minaccioso per il proprio benessere”.
6
Questo significa che lo stress
deriva da una dinamica fra individuo e ambiente che scatena una risposta interiore
dell’individuo, appunto, con effetti fisiologici.
Tali effetti, come aveva spiegato molto bene anche Selye nei suoi studi pionieristici,
non sono necessariamente negativi.
Gli effetti negativi si verificano quando vi è un’incongruenza fra le richieste
dell’ambiente e la capacità soggettiva di esaudirle. Tale incongruenza viene definita
distress, contrapposta alla condizione di eustress che è positiva e fonte di gratificazione
per l’individuo.
Nel suo volume dal titolo Stress without Distress >1974 ≅, infatti, già Selye aveva
sostenuto che lo stato di stress fosse uno stato fisiologico normale e che, quindi, non
potesse e non dovesse essere evitato: “La completa libertà dallo stress è la morte.
Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo, e in realtà non possiamo,
evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio
imparando di più sui suoi meccanismi, e adattando la nostra filosofia dell’esistenza a
esso” >Selye, 1974 ≅.
Ogni individuo, sosteneva ancora Selye, possiede un diverso livello di resistenza al
fenomeno, che, a sua volta, non è sempre e necessariamente negativo o dannoso.
I fenomeni che generano stress si possono riconoscere nell’angoscia, nello sforzo fisico,
come pure nel successo; infatti “dal punto di vista della sua capacità di provocare uno
stress, non ha importanza che l’agente stressante, o la situazione che dobbiamo
5
H. Selye, La sindrome di adattamento, Istituto sieroterapico milanese S. Belfanti, Milano, 1955, p. 4.
6
R.S. Lazarus e S. Folkman, Stress, Appraisal and Coping, Springer Publishing Company, New York,
1985, p. 96.
13
fronteggiare, sia piacevole o spiacevole: conta solamente l’intensità del bisogno di
adattamento o riadattamento” >Selye, 1974 ≅.
Gli individui, secondo Selye, possiedono un “serbatoio di energie” per fronteggiare gli
stimoli esterni, in base al quale si determina il livello di resistenza al fenomeno. Tale
“serbatoio di energie” si esaurisce facilmente quando l’agente stressante è
particolarmente intenso, o quando più fattori stressanti agiscono contemporaneamente,
oppure ancora quando l’azione degli agenti stressanti è prolungata nel tempo.
In tutti questi casi si avrà come risultato una situazione di distress, causa di patologie sia
psichiche, sia organiche.
Quando, al contrario, la risoluzione di una situazione di stress produce nell’individuo
una sensazione di piacere, di gratificazione, agendo come un rinforzo positivo per simili
situazioni future, l’energia del serbatoio aumenta e si determina una situazione di
eustress.
Due variabili sono responsabili per il processo degenerativo dello stress sul soggetto:
- la suscettibilità individuale
- la predisposizione individuale
La suscettibilità individuale è principalmente legata al significato soggettivo che viene
dato a un evento, ovvero alla sua valutazione.
Selye afferma che il problema principale di tali studi è riscontrabile proprio nella
soggettività, ovvero nel “fatto che ciò che è stressante per una persona può non esserlo
per un’altra”.
7
La suscettibilità individuale e la valutazione soggettiva degli eventi sono definibili come
variabili soggettive che rendono vulnerabile il soggetto al fattore di stress.
A questo proposito vale la pena, in questa sede, di citare Albert Bandura, le cui teorie
sull’autoefficacia costituiranno il cuore del Secondo Capitolo.
Con il suo modello sul ritorno di esperienza e sul controllo interno, Bandura evidenzia
quanto la vulnerabilità individuale sia tanto più elevata quanto minore è l’autoefficacia
percepita dal soggetto in merito ai suoi compiti e quanto più il soggetto sia convinto di
avere poca responsabilità e potere sul controllo dei problemi.
8
7
H. Selye, A Sindrome Produced by Diverse Nocuous Agents, in “Nature”, 1936, 138, pp.30-32.
8
Cfr A. Zanardi, Stress occupazionale: una patologia emergente, in E. Grossi, G. Apolone, (a cura di),
Stressati o felici?, cit.
14
Laddove è presente nell’individuo la percezione di controllo, o di potenziale controllo
degli eventi, è più facile far fronte allo stress in modo adeguato e adottare uno stile di
pensiero che influenzi non solo il buon funzionamento dell’organismo ma anche
l’adozione di comportamenti preventivi rispetto alle principali cause di patologia.
La capacità individuale di essere più o meno suscettibili allo stress, ovvero di instaurare
efficaci meccanismi di difesa, si definisce coping, che significa protezione o
adattamento agli stimoli.
Il coping è l’insieme di pensieri e azioni soggettive per fronteggiare le situazioni di
pericolo e può essere focalizzato sull’evento o sull’emozione che ne deriva.
Nel primo caso l’individuo agirà per ridurre le caratteristiche di pericolo dell’evento, nel
secondo caso, invece, cercherà di modificare il proprio stato psico-emotivo.
Se la strategia di coping è efficace il processo stressogeno può essere interrotto qui.
In caso contrario, invece, il processo di stress prosegue determinando patologie
d’organo.
La predisposizione individuale determina l’organo bersaglio della patologia stress-
correlata: l’apparato cardiovascolare, quello digestivo, la sfera sessuale, il sistema
muscolo-scheletrico, la psiche, il sistema immunitario, ora singolarmente coinvolti, ora
in combinazione tra loro.
La reazione allo stress e le sue conseguenze rispondono a biochimismi davvero
complessi, ancora non del tutto chiariti, che coinvolgono delicati assi ormonali.
Se la soglia limite, che è assolutamente personale e variabile, non viene superata, lo
stress è considerabile come “sale della vita”, superata tale soglia, però, può diventare
per l’individuo un “veleno mortale”.
9
9
Cfr G. Briatico – Vangosa, D. Bontadi, Lo stress legato all’attività lavorativa, “sale della vita o veleno
mortale?”: un’esperienza, in E. Grossi, G. Apolone (a cura di), Stressati o felici?, cit.
15
1.2 Origini della ricerca sullo stress: la sindrome generale
di adattamento (SGA)
L’interesse scientifico al tema dello stress deve il suo sviluppo, come già
precedentemente affermato, agli studi pionieristici di Hans Selye, il quale, con la sua
Sindrome Generale di Adattamento, ha spalancato le porte a una ricerca che, dal
contesto biologico originario, ha poi interessato altri settori di studi, dalla psicologia,
alla sociologia e agli studi sul comportamento umano, fino ad arrivare alle discipline
applicate all’ambiente organizzativo (teorie sul comportamento organizzativo, medicina
e psicologia del lavoro).
Lo stesso ricercatore, di origine austro-ungarica, racconta in uno dei suoi ultimi scritti
pubblicato postumo, che l’interesse nei confronti di queste ricerche era scaturito da
un’idea balenata quando era ancora uno studente di medicina all’Università di Praga.
Allievo dell’ematologo von Jaksch, il giovane Selye aveva concepito, in una domanda
posta al suo illustre maestro, un’intuizione in merito al fatto che tutti gli ammalati
sembravano avere un qualche cosa in comune, una sorta di “sindrome
dell’ammalamento”, come la chiamava lui, che era in grado di descrivere alcune
somiglianze generali riconoscibili in ammalati colpiti da patologie affatto diverse.
Trasferitosi a Montreal nel 1932, quale assistente ricercatore del biochimico canadese
Collip, Selye ebbe modo di notare, analizzando alcuni animali da laboratorio, che anche
negli animali accadeva che gli organismi rispondessero con una sindrome comune,
indipendentemente dalla natura di alcune potenziali cause specifiche.
Sottoposti a una continua e accentuata stimolazione di natura fisica (caldo elevato,
freddo intenso, traumi, infezioni, emoraggie, ecc…), gli animali presentavano un
incremento nella secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte del midollo delle
ghiandole surrenali, che preparava l’organismo a reazioni fisiologiche come: aumento
della pressione arteriosa, incremento del battito cardiaco, vasocostrizione periferica,
dilatazione pupillare, riduzione della salivazione, incremento della funzionalità
respiratoria, aumento della sudorazione, aumento della secrezione acida nello stomaco,
ecc…
16
Selye scoprì che tali reazioni non erano le uniche manifestate da un “organismo in
difficoltà”, ma che esse erano parte di una catena di cambiamenti fisiologici che
permettevano all’organismo di “prepararsi” ad affrontare la minaccia esterna
rappresentata dall’agente nocivo.
Proprio queste “reazioni di assestamento” dell’organismo costituirono, per Selye, ciò
che poi definì come SGA (o stress).
I principi innovatori del modello proposto da Selye sono riconducibili alla definizione
che egli attribuisce al termine stress.
Indicando come tale concetto sia riferibile a una risposta aspecifica a qualsiasi richiesta
dell’ambiente, infatti, Selye mette in evidenza un principio nuovo rispetto alle teorie
dell’eziologia tradizionale.
Con il termine “aspecifico” egli elude la solita visione che un effetto, una risposta
biologica, sia sempre riconducibile a una sola causa.
Enfatizza, invece, il fatto che stimoli differenti possano indurre una risposta stereotipata,
chiamata stress, determinata non tanto dalla natura dello stimolo, quanto dalla sua
intensità.
Per questo motivo tale stimolo non deve essere necessariamente negativo o dannoso per
attivare una SGA, ma può anche essere intensamente piacevole o gioioso: tale risposta è
aspecifica perché la sua finalità è favorire un generale adattamento dell’organismo.
Col termine “qualsiasi” si sottolinea proprio come la medesima risposta sia causata
anche da stimoli diversi, di qualsiasi natura: la SGA può essere attivata non solo da
eventi straordinari, ma anche da richieste ambientali solite, purché accentuate o
percepite come soggettivamente intense.
Negli studi di Selye la reazione di stress si articola in tre fasi costituenti la SGA:
- Fase di allarme
- Fase di resistenza
- Fase di esaurimento
La fase di allarme consiste nel riconoscimento dello stimolo stressogeno (stressor) e
nella conseguente e immediata reazione del nostro organismo
10
.
10
La fase di allarme è attivata grazie alla secrezione delle principali catecolamine: adrenalina e
noradrenalina. Il midollo delle ghiandole surrenali immette velocemente questi due ormoni nel sangue,
permettendo una rapida reazione del sistema nervoso autonomo che accelera la rapidità di risposta
dell’organismo allo stimolo stressogeno. Queste due sostanze entrano in azione tanto velocemente quanto
velocemente vengono metabolizzate o riassorbite.
17
Tra il 1910 e il 1920, W. Cannon aveva già usato il termine stress proprio per definire la
reazione d’allarme prodotta nell’organismo da uno stimolo esterno
11
.
Egli aveva parlato di questa istantanea sollecitazione fisiologica come di una reazione di
attacco o di fuga (l’individuo sceglie se affrontare o allontanare lo stressor).
All’interno della fase di allarme Selye riconosce due momenti opposti: shock e
controshock. Il primo corrisponde alla fase iniziale di “caduta” al di sotto del livello
fisiologico di funzionamento dell’organismo (base line), mentre il secondo si identifica
col momento di reazione, attivata e sostenuta, appunto, dal sistema neurovegetativo.
Al contrario della fase di allarme, avente caratteristiche di maggiore immediatezza e
anche di maggiore labilità, tenuto conto della rapidità con cui sono metabolizzate le
catecolamine, la fase successiva, di resistenza, è caratterizzata da una durata maggiore,
correlata alla durata dello stato di stress.
In questa fase l’organismo persiste nel tentativo di rispondere allo stimolo stressogeno
producendo una serie di sostanze che gli permettono di mantenere l’adattamento alla
situazione stressante, mentre viene ristabilito l’equilibrio fisiologico.
Se la fase di resistenza si protrae per troppo tempo o se non è stata adeguata allo stimolo
può subentrare la terza fase della SGA: la fase di esaurimento.
In quest’ultima fase si abbassano le difese immunitarie dell’individuo e si perde il
normale equilibrio fisiologico. Questa situazione è definita pro-patologica, ossia
predisponente all’insorgere di malattie, poiché i valori di funzionalità dell’organismo
scendono oltre il livello di normalità fino alla vera e propria morte.
1.3. I modelli teorici di riferimento dello stress sul lavoro
Ogni individuo è sottoposto a moltissimi stimoli, definiti scientificamente con il termine
stressors, che possono rappresentare la causa di una reazione di stress.
Nonostante la varietà di stressors e le innumerevoli “sfumature” presenti dietro alle
risposte di un individuo a un agente stressante, uno studio condotto da Dohrenwend nel
1974 dimostra come su una lista di 102 eventi stressanti, 21 fossero proprio relativi al
11
Cfr A. Zanardi, Il linguaggio degli organi, Tecniche Nuove, Milano, 2001.
18
lavoro. I punteggi più alti vennero assegnati a fattori lavorativi, superati solo da “morte
di un figlio” e “divorzio”.
Cox, in una ricerca del 1981, afferma che il 54% degli intervistati indica il lavoro come
principale fonte di problemi e stress; il 12% imputa “all’interfaccia lavoro-casa”
l’origine del proprio stress. Non è possibile tracciare un confine netto fra ambito
lavorativo e non-lavorativo, quindi, come dimostrato da molti studi, lo stress lavorativo
influenza la vita privata e viceversa.
La stretta interrelazione rende difficile individuare i limiti dello stress occupazionale,
per questo molti studi vertono sul ruolo del lavoro come causa di stress.
1.3.1 Il modello dello stress nell’analisi di Selye e la
psicosomatica
Tra i modelli di analisi principali nelle ricerche sullo stress, quello di Selye è, senza
dubbio, da considerarsi come il modello “classico”. Tale modello prevedeva l’esistenza
di stimoli stressogeni di varia natura (fisici, biologici, psichici, sociali) da un lato, e una
risposta stereotipata o SGA dall’altro. In realtà, Selye, individuava accanto alla SGA
anche una Sindrome Locale di Adattamento (SLA), tra le quali riteneva esistesse un
processo di connessione in grado di tradurre tutti gli stressors, così diversi per essenza,
in un’unica risposta stereotipata, ma anche e soprattutto in grado di integrare a livelli
progressivamente più complessi risposte fisiologiche normali.
Non tutti gli stimoli fisici, biologici, ecc. sono, infatti, di per sé stressogeni.
La puntura di un insetto, per esempio, non è occasione di stress, ma particolari
condizioni, come un’eccessiva preoccupazione per la puntura dell’insetto stesso,
possono trasformare una risposta specifica e ristretta in una risposta stereotipata e
generale, quindi in stress.
Ciò dimostra come il valore soggettivo assegnato all’evento esterno (stressor) sia
fondamentale nell’innescare e protrarre il processo di stress.
Attualmente le conclusioni a cui era giunto Selye, pur rimanendo valide, sono state in
parte modificate. Da un lato si tende ancora a considerare la risposta dell’organismo allo
stress come reazione generica e aspecifica, dall’altro, però, si pone l’accento sulla sua
specificità e si tende a collegare determinate alterazioni fisiologiche con le
caratteristiche particolari dello stimolo e con quelle specifiche e individuali della