4 di 97
più di 75.000 persone nell’arco di cinque anni e di sottoporre ogni decisione al consenso degli
arabi . Lo scoppio della seconda guerra mondiale vide gli ebrei di Palestina unirsi, tra il 1940-
45, alle forze alleate nella lotta contro i nazisti. Mentre nel solo primo mese di guerra ben
119.000 ebrei palestinesi, su una popolazione di mezzo milione, si arruolarono in unità
speciali a fianco degli Alleati, nel 1940 il gran muftì Haj Amin al-Husseini (zio di Yasser
Arafat) e il filo-nazista Rashid Alì si misero a capo di uno schieramento arabo fiancheggiatore
della Germania nazista. Un’unità araba divenne parte della Wehrmacht e ben 20.000 musulmani
vennero inseriti nella divisione delle SS islamiche della Bosnia.
Terminata la guerra, il mondo si trovò di fronte alla tragedia ebraica della Shoà con oltre sei
milioni di ebrei massacrati (di cui circa un milione e mezzo erano bambini al di sotto dei 15
anni). Dopo la Shoà, niente avrebbe potuto essere come prima: nemmeno la questione
ebraica. I superstiti dei lager non si fidavano più del mondo intero, dell’umanità e delle sue
promesse. Per gli ebrei era fondamentale, affinché il male non si ripetesse più, uno Stato che
fosse soltanto loro, proprio come aveva preconizzato Theodor Herzl fin dal 1895. Tuttavia
nel 1945, tre mesi dopo la vittoria degi Alleati in Europa, numerosi ebrei vivevano ancora
sotto sorveglianza dietro il filo spinato nei campi costruiti dai tedeschi e quasi tutti volevano
recarsi in Palestina. Ma, nonostante i battaglioni della "Brigata palestinese ebraica" avessero
combattuto al fianco delle armate inglesi, la Gran Bretagna appoggiò il rifiuto espresso dalla
Lega Araba.
Il 26 giugno 1946 forze britanniche invasero l’Agenzia Ebraica di Gerusalemme, confiscarono
tutti i documenti, arrestarono 2500 persone e ne giustiziarono sette. La risposta fu altrettanto
decisa: il 22 luglio 1946, dopo un avvertimento, l’Irgun fece saltare un’ala dell’Hotel King
David, sede del quartier generale britannico (90 i morti). Tale era il clima di violenza che la
sera stessa soldati inglesi, percorrendo in auto le vie di Tel Aviv, spararono sui passanti,
causando cinque morti e ventiquattro feriti.
Il governo inglese decise allora di internazionalizzare la questione sottoponendola
all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: era il 20 aprile 1947. Nacque così l’UNSCOP,
una commissione composta da undici Stati (Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala,
Iugoslavia, India, Iran, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay), incaricata di indagare sulla
situazione della Palestina.
Il 1 settembre 1947, l’Unscop rese pubblico il rapporto conclusivo: proponeva, a maggioranza
di sette membri su undici (tre su undici membri proposero uno stato federale, mentre
l’Australia si astenne), la fine del Mandato Britannico in Palestina e presentava un piano di
spartizione del paese in due stati indipendenti e sovrani, uno arabo e uno ebraico, seppure
integrati in una unione economica, con Gerusalemme posta sotto un’amministrazione
5 di 97
internazionale da parte dell’ONU, affinché ne salvaguardasse il carattere di città sacra alle tre
religioni.
Immediata fu la reazione araba: il Comitato Arabo (che era espressione dei principali
movimenti politici degli Arabi di Palestina) e i governi dei paesi arabi respinsero
incondizionatamente la proposta delle Nazioni Unite, esprimendo la loro avversione alla
fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, contro il quale si sentivano autorizzati a usare
violenza .Il 29 novembre 1947, alla seconda sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni
Unite, il piano di spartizione (Risoluzione O.N.U. n. 181 del 27/11/1947) fu accettato con 33
voti favorevoli, contro 13 contrari e 10 astensioni (tra cui la Gran Bretagna). I delegati arabi
lasciarono la sala sostenendo che la risoluzione era senza valore: non riuscivano infatti a
capire perché il 37% della popolazione avesse ottenuto il 55% del territorio. L’8 dicembre
1947, al Cairo, la Lega Araba dichiarò la "guerra santa" contro il futuro Stato ebraico ed il 31
dicembre 1947, alle Raffinerie di Haifa, furono uccisi 39 ebrei dai loro colleghi arabi, il 22
febbraio 1948 più di 50 ebrei vennero uccisi a Gerusalemme da un autocarro carico di
dinamite, l’11 marzo 1948 una bomba scoppiò nel cortile dell’Agenzia Ebraica provocando 13
morti e 40 feriti.
Il 14 Maggio 1948 Ben Gurian annunciava la “ Proclamazione dello Stato d’Israele”, la
riunione dl Consiglio Provvisorio era durata 32 minuti, i membri si dispersero per le strade
assolate di Tel Aviv, consci del passo storico, ma ancor più preoccupati che una volta nato
allo Stato di Israele bisognava assicurare la sopravvivenza, i venti di guerra che venivano dalle
nazioni confinanti non erano per niente rassicuranti, gli eserciti arabi erano pronti a saltare alla
gola del piccolo neonato ed infatti il 15 Maggio 1948 poco dopo la dichiarazione di
indipendenza, gli eserciti di Egitto, Iraq, Libano, Siria, Transgiordania, Yemen e Arabia
Saudita invadono il territorio legale di Israele, ed ha inizio la prima guerra arabo-israeliana ( o
d’indipendenza per Israele), il segretario generale della Lega Araba 'Abd al-Rahmān 'Azzām
Pascià annunciò "una guerra di sterminio e di massacro della quale si parlerà come dei massacri dei
Mongoli e delle Crociate". Nel mese di giugno le Nazioni Unite propongono una tregua, che
Israele utilizzò per riorganizzarsi e aumentare la leva militare, il conflitto si conclude agli inizi
del 1949 con una importantissima vittoria ebraica, e con un nuovo assetto territoriale il quale
lasciava solo il 21% della Palestina in mano araba, Gerusalemme fu divisa in due parti, quella
Ovest ebraica, quella Est araba. La striscia di Gaza passò sotto l'amministrazione egiziana.
Non vi fu un trattato di pace e Israele fu ammesso alle Nazioni Unite, con i nuovi territori,
6 di 97
l'11 maggio del 1949.
1
Altre guerre verso Israele si sono susseguite da allora:
Nel 1956 scoppia il secondo conflitto arabo-israeliano, a seguito della decisione del presidente
egiziano Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, nel deliberato intento di strozzare anche
l’economia israeliana;
Nel 1967 il 5 Giugno aeri egiziani mossero contro Israele , seguiti a breve dall’esercito
giordano e quello siriano, si mossero in tre e fu comunque una disfatta per gli arabi, per gli
israeliani divento la famosa “Guerra dei sei giorni”;
Nel 1973 Israele fu nuovamente coinvolto nella guerra detta “dello Yom Kippur”, ultima
grande battaglia arabo-israeliana.
Oggi si può discutere anche di “due popoli in due stati”, ma la storia ci dice che dopo la
risoluzione dell’ONU del 1948 che già questo aveva detto, il mondo arabo ha condotto una
continua guerra di aggressione verso Israele con l’intento anche dichiarato di cancellarlo dalle
cartine geografiche; la scansione storica è necessaria perché evita di politicizzare il discorso gli
eventi così si sono svolti ed io ancora bambino non potevo concepire che si decidesse a più
riprese di aggredire e sterminare un intero popolo, appena dopo la proclamazione dello Stato
di Israele, ma soprattutto non sapevo di appartenere ad un certo tipo di umanità e che pur
non essendo un ebreo della diaspora mi portava a vivere ed a comportarmi come loro.
Questa aggressione continua ed unilaterale, mi ha fatto fraternizzare con il popolo ebraico, in
effetti questo senso di fraternità che alberga nei popoli paria, come nelle classi sociali e
comportamentali definite nella modernità tali, produce un innegabile vantaggio di calore
umano che però portato all’estremo produce un’atrofia tanto terrificante da condurre
pericolosamente all’acosmia, sempre preludio di barbarie. In tale clima appare evidente che i
perseguitati si avvicinino gli uni agli altri così da provocare la scomparsa dello spazio
intermedio, cioè il mondo. Con l’eliminazione di questo spazio si ottiene un invidiabile calore,
sorgente di gioia e di vitalità, anche per il solo fatto di essere vivi, il che però induce a pensare
che la vita raggiunga il suo acme solo in coloro che appartengono alla categoria degli umiliati e
degli offesi.
Tuttavia la cosa importante che la Arendt
2
mutua da Lessing è che tale umanità, la cui forma
più pura è il privilegio dei paria, non è trasmissibile né tanto meno comprensibile da parte di
coloro che non appartengono al gruppo dei paria. Il calore del popolo dei paria non può
estendersi a coloro che solidarizzano con essi, poiché una diversa posizione nel mondo fa
appunto pesare una responsabilità potremmo dire verso la storia che vieta loro di condividere
1
Abba Eban – Storia dello Stato di Israele – pag. 12
2
Hannah Arendt – L’Umanità in Tempi Bui –pag. 27
7 di 97
l’insofferenza dei paria. Nei tempi bui il calore dei paria sostituisce la luce, nell’invisibilità e
nell’oscurità gli uomini stipati gli uni contro gli altri sviluppano quella fraternità che
compensa la misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che esse si
sviluppano nella acosmia assoluta.
Ma sviluppandosi questi rapporti di calore e fraternità dei paria nel buio non possono essere
rilevati nel mondo, come dice sempre la Arendt”l’umanità degli umiliati e degli offesi non è
mai sopravvissuta all’ora della liberazione neppure un minuto” tutto ciò significa che questo
aspetto della vita, che è pure importante non essendo politicamente rilevante si può , nella
tensione dei grandi eventi storici, anche bay passare con quali effetti tragici poi lo vedremo.
3
Nella mia militanza politica nella sinistra italiana ho avuto modo di constatare come la
questione ebraica fosse poco indagata se non del tutto ignorata, ho ritrovato un intervento
realizzato in convegno che avevo organizzato nel 1985 a Benevento per il circolo”Pietro
Nenni”, tutto teso a giustificare l’esistenza di Israele colpevole anche con la sua ingombrante
presenza, di avere alimentato un nazionalismo arabo –palestinese prima di allora non presente
nell’area. Il mio interesse di giovane goym di sinistra era quella di illustrare come si
intrecciassero nei secoli le radici del messianesimo ebraico, della rivoluzione francese,
dell’illuminismo, del socialismo, del sionismo fino ai pogrom staliniani.
Il conflitto arabo – israeliano evidenzia un difetto di iniziativa politica cioè si dava la parola
alle armi anziché alla forza delle idee, questa mancanza di capacità di parlare ai popoli e
mettere in secondo ordine gli equilibri strategici, di cui conseguenza inevitabile è la mancanza
di fratellanza e di amicizia tra i popoli, questo è il grande vulnus del nostro tempo, ogni qual
volta i capi di stato hanno cercato di sanare questo vuoto, vedi Clinton- Barak- Arafat e/o
Rabin – Arafat, si è stati ad un passo dalla risoluzione di un problema secolare. Ecco dove
emerge l’attualità della H. Arendt, mancanza di cultura della conoscenza, della tolleranza, della
fratellanza tra i popoli, della iniziativa politica per la risoluzione delle controversie
internazionali, populismo, propaganda, tutti difetti connaturati nelle società di massa, creano
oggi nel XXI secolo le stesse premesse che hanno portato ai totalitarismi ed alle barbarie del
secolo precedente.
Possiamo e dobbiamo fare qualcosa? E se sì che cosa? Questa è la grande sfida che ancora
oggi pone di fronte a noi la lettura delle opere della H. Arendt, anche perché ci sono delle
terribili assonanze con quanto ha preceduto, ed è stato terreno fertile per l’antisemitismo pre-
totalitario che ha reso possibile la realizzazione dell’Olocausto nella pressoché totale
indifferenza internazionale, e attuale afasia politica, con la conseguente “migrazione interiore”
che ha ritratto gran parte delle democrazie occidentali dal farsi carico di questo deficit di
3
Hannah Arendt –L’Umanità in Tempi Bui –pag. 68
8 di 97
civiltà dalle incalcolabili conseguenze.
4
Sul piano storico sarebbe utile anche una piccola ricerca storico-romantico-concettuale,
prendendo le mosse dal concetto di genocidio, dal greco ghenos (stirpe, razza) e dal tema latino
uccidere ( uccidere sterminare, neologismo proposto nel 1946, da un giurista ebreo-polacco
emigrato in America, Raphael Lemkin il quale lo utilizzo pubblicamente la prima volta,
durante il processo di Norimberga.
Un altro termine molto utilizzato è Olocausto, etimologicamente un termine dotto, derivato
dal tardo latino Holocaustum che, a sua volta ricalca il greco tarso olokauston, neutro sostantivo
dell’aggettivo olokaustos “ bruciato interamente” composto da olos “tutto, intero “ e kaio
“bruciare”; il termine greco designa pertanto un sacrificio cruento, nel corso della quale la
vittima è interamente bruciata sull’altare della divinità, circostanza che ha prodotto fiumi di
dotte disquisizioni, sul fatto che l’uso di questo termine desse un accezione eminentemente
religiosa allo sterminio ebraico, con tutto che da esso consegue, fermo restando che il termine
Olocausto è adottato dallo Yad Vashem di Gerusalemme, nelle sue pubblicazioni scientifiche
e nelle sue iniziative culturali, quale corretta traduzione del termine Shoah.
Shoah è il termine ebraico, appartenente al linguaggio biblico, che indica in genere una
catastrofe e una situazione di desolazione e di distruzione, e va comunque distinto dal termine
ebraico tradizionale “kurban – distruzione, catastrofe- che fin dai tempi antichi designava la
distruzione del Tempio di Gerusalemme, l’evento più terribile che aveva in passato
caratterizzato la storia ebraica”; Shoah e Kurban appartengono dunque entrambi al lessico
biblico antico e risultano legati a situazione di lutto e dolore, Shoah includendo nella sua area
semantica accezioni come, buio, desolazione totale, , vuoto assoluto, morte, che meglio può
rappresentare quel senso di non vita, e di anti-umanità che ha caratterizzato lo sterminio
nazista.
5
E’ inutile negare come l’utilizzo del termine Shoah introduca di per sé, una specifica
discontinuità linguistica che sembra quasi indicare l’opportunità di riferirsi ad un linguaggio
biblico, per spiegare le ragioni profonde di una persecuzione che ha avuto come suo bersaglio
privilegiato il popolo ebraico. Infine c’è anche chi come Shmuel Trigano, scarterebbe tutti i
termini sopra menzionati, e per parlare dello sterminio ebraico userebbe Auschwitz , l’uso
metanomico di Auschwitz viene assunto quale cifra e simbolo universale dello sterminio
4
Enzo Traverso – Auschwitz e gli Intellettuali – pag. 227
5
Fabio Minazzi – Filosofia della Shoah – pag. 112
9 di 97
HANNAH ARENDT (1906-1975)
Hannah Arendt nacque nel 1906 da una famiglia ebrea tedesca molto benestante e non
praticante. Pur non avendo ricevuto un'educazione religiosa di tipo tradizionale, non negò
mai la propria identità ebraica, professando sempre (ma in modo niente affatto
convenzionale) la propria fede in Dio. Questo quadro di riferimento è estremamente
importante, perché Hannah Arendt dedicò tutta la vita allo sforzo di comprendere il destino
del popolo ebraico e si identificò totalmente con le sue vicissitudini. Riguardo alle esperienze
accademiche, sono fondamentali le città di Friburgo, Marburgo e Heidelberg, dove ebbe
come insegnanti Heidegger e Jaspers. Jaspers le trasmise un amore profondo per la libertà,
mentre a Heidegger è dovuta la sconfinata venerazione per gli antichi greci e per il loro sforzo
di convivere con gli aspetti tragici della vita. A proposito del suo rapporto con Heidegger, è
solo di recente che si è scoperto che furono amanti, non si sa per quanto tempo lo siano stati:
è comunque certo che Heidegger rappresentò per lei qualcosa di più che un insegnante.
Scrisse la sua tesi di dottorato sul concetto di amore nel pensiero di Sant’Agostino, un testo
difficile, in cui però gia emerge l’originalità del suo pensiero che focalizza l’attenzione
sull’amore per il prossimo è il fondamento anche delle altre due forme di amore ( appetitus, e
rapporto creatura –Creatore), la Arendt intreccia profondamente queste forme di amore con
le esperienze temporali corrispondenti, l’amore per il prossimo poggia per la Arendt su due
fondamentali esperienze: la memoria e la speranza; per quanto riguarda la Civitas Dei la Arendt
sottolinea inoltre che il presente essere con gli altri è ravvivato dal ricordo della comune
natalità che fornisce agli uomini anche un principio per il loro orientamento: si ama l’eterno
che è in se e nel prossimo dando origine ad una nuova comunanza, una società contrapposta
e superiore alla società storica appunto la città di Dio.
6
Lasciò la Germania appena dopo
l'ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Andò a Parigi, dove visse i successivi sette-otto anni,
impegnandosi a trovare famiglie disposte ad adottare gli orfani ebrei e i parenti di rifugiati.
Stando alle ricostruzioni bibliografiche più autorevoli, anche lei fece l'esperienza
dell'internamento, non in un campo di sterminio, ma in uno di concentramento. Riuscì a
partire dalla Francia e, all'incirca nel 1941, approdò a New York, dove visse fino alla morte,
avvenuta nel 1975. Si può dire che diventò una newyorkese piuttosto che un'americana. E' in
questa città, infatti, che, a mio avviso, raggiunse la propria maturità e acquistò grandezza.
Il fascino di questa pensatrice deriva, innanzitutto, dalla straordinaria abilità nell'interpretare
determinati fenomeni morali, sociali, politici e culturali. Quando si leggono i suoi libri, si ha la
sensazione che ella comprenda qualcosa che altri potevano capire, ma non hanno compreso.
6
Francesca Brezzi – Re-interrogare Agostino – pag. 520
10 di 97
Io stesso ho ritrovato conferma e spiegazione di una serie di fenomeni di degrado morale,
politico e sociale che vedevo accadere , che annotavo, sulla cui origine abbozzavo delle
spiegazioni che hanno trovato conferma nella analisi della Hannah Arendt di cui è nota la
grande capacità di comprendere e di dare un senso a ciò che vede. Sia che si tratti di passioni
umane come il peccato, la rabbia, la collera o di sentimenti, di istituzioni o ordinamenti
politici, ha da dire qualcosa di nuovo, di originale. Note sono, ad esempio, la profondità e
l'originalità delle sue riflessioni di filosofia politica sul significato della vita che si desume da
una certa costituzione. Ciò che intendo dire che è che, per trarre un insegnamento dalla sua
opera, non è necessario essere d'accordo con lei: anche una semplice frase, un passaggio, un
paragrafo ci rivelano qualcosa sulla condizione umana.
Così è diventata una grande scopritrice di problemi attuali, questo è stato il suo grande
contributo ai dilemmi del nostro secolo: il totalitarismo, la Shoah, la responsabilità di fronte i crimini
nazisti, le sorti della libertà individuale e della capacità di agire nell’orizzonte della scienza e
della tecnica moderna, infatti per la Arendt scoprire i problemi vuol dire costruirli non
risolverli, trovare soprattutto parole nuove per formularli. In una conferenza stampa tenuta
nel lontano 1955 Hannah Arendt aveva detto con molta semplicità “ ciò che è andato storto
è politica” volendo dire che non è la creatività umana che è venuta meno, non è quindi in crisi
ciò che gli uomini o le donne sono in grado di fare al singolare, quanto piuttosto ciò che essi
possono fare insieme gli uni con gli altri, nel mondo condiviso con i propri simili.
7
Ritengo che il motivo principale del suo fascino risieda nel fatto che, pur avendo studiato la
politica nella sua forma peggiore, Hannah Arendt insista nel considerarla, allorché si realizza
nel modo migliore, una delle più alte aspirazioni dell'uomo. Almeno nel XX secolo, nessun
altro teorico della politica è riuscito, come è accaduto alla Arendt, ad unire una comprensione
così profonda del male che può scaturire dall'attività politica con la convinzione, altrettanto
ferma e profonda, che la vita dedicata alla politica, qualora questa assuma la sua forma
migliore, sia una delle più alte conquiste umane.
Dal punto di vista dell'evoluzione del pensiero della Arendt, l'interesse per la forma peggiore
della politica è il primo ad accendersi, col libro sulle Origini del totalitarismo, del 1951. Dalla
pubblicazione di questi due lavori, per tutto il resto della sua vita Hannah Arendt si
preoccupò di indagare il peggio ed il meglio nell'ambito politico e la loro relazione, proviamo
a calarci negli abissi, a vedere nell'oscurità prima di risalire ai vertici. Pur non avendo
sperimentato direttamente il peggio, la Arendt conosceva molte persone che avevano fatto
questa esperienza. Sebbene, quindi, non fosse stata in un campo di sterminio nazista,
conobbe coloro che avevano sofferto, ciò la spinse a cercare di comprendere come con il
7
Hannah Arendt – Laura Boella – pag. 10
11 di 97
nazismo poté nascere, diffondersi e operare il male.
“ Comprendere … significa esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro
secolo ci ha posto sulle spalle, non sottomettersi supinamente la suo peso. Comprendere
significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque
essa sia”( Le Origini del totalitarismo).
“Le origini del totalitarismo” esce nel 1951 e consacra l’autrice nel novero dei grandi
pensatori del Novecento: è un opera divisa in tre parti: la prima è intitolata Antisemitismo, la
seconda Imperialismo, la terza Totalitarismo. Oggi possiamo ben dirlo, a cinquantacinque anni
dalla sua prima stesura, "Le origini del totalitarismo" di Hannah Arendt ci appare come una
delle grandi opere politiche che hanno segnato questo secolo, grazie ad essa infatti è stata
consegnata alla tradizione teorica una nozione "distintiva" del novecento. Nozione
"distintiva" (non esclusiva) del secolo, s'è detto.
8
Perché mai e poi mai il novecento potrebbe
concepirsi senza lo spettro e la realtà del totalitarismo, né avrebbe base alcuna, senza quel
concetto, tutta la discussione attuale su "secolo breve", tragedie etniche, guerre di massa,
"simmetria" di comunismo e fascismi.
Si tratta di un libro molto lungo che ha l'ampiezza, lo spessore e la forza di uno scritto epico,
Hannah Arendt, pensa che niente di inevitabile sia alla base del totalitarismo, del male
politico, ma ciò non toglie che alcuni fenomeni del secolo scorso, come l'antisemitismo e
l'imperialismo, abbiano reso più probabile il suo avvento.
Il totalitarismo è il luogo di cristallizzazione delle contraddizioni proprie della modernità, ma,
allo stesso tempo, esso segna anche la comparsa di un fenomeno radicalmente nuovo nella
storia. Non è possibile una equiparazione, o peggio ancora una confusione, con regimi politici
come dispotismo orientale, dittature, tirannidi che nei secoli si sono susseguiti. Il proprium
del totalitarismo è infatti costituito dall’uso sistematico del terrore contro un “nemico
oggettivo” (gli avversari della rivoluzione, da una parte, gli ebrei dall’altra) e dallo sviluppo di
ideologie totalizzanti. Richiamandosi a leggi necessarie della natura (la supremazia di una
razza) o della storia (la lotta di classe), il nazionalsocialismo e il comunismo pretendono di
conoscere i segreti della storia. Le ideologie alla base di questi regimi finiscono così per
includere forzatamente tutto ciò che accade nelle strette maglie di un sistema (la critica della
“volontà di sistema” è un altro aspetto ricorrente nelle opere della Arendt). Queste
costruzioni, coerenti da un punto di vista logico, anche se false da un punto di vista fattuale,
finiscono così per prescindere da ogni contatto con la realtà e con il sapere del senso comune.
Il vero scopo dell’ideologia totalitaria non è tanto il riassetto rivoluzionario dell’ordinamento
8
Recensione delle Origini del Totalitarismo – di Bruno Gravagnuolo -
12 di 97
sociale ma, ancora più radicalmente, la trasformazione della natura umana che, così com’è, si
oppone al processo totalitario (nei Gulag e nei Lager si esprime “l’aspirazione
all’onnipotenza” dei regimi). Ciò che deve essere distrutto è l’uomo come soggetto di diritto e
come essere libero, l’uomo come capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo.
L’opera della Arendt mette in guardia anche dal possibile riaffiorare di atteggiamenti totalitari
nelle stesse democrazie liberali, alla luce del principio secondo cui il diritto corrisponde a
quanto è bene e utile per il tutto visto come distinto e superiore alle sue parti (chissà cosa
penserebbe oggi la Arendt della enfasi con cui si fanno discorsi “sui costi sociali” delle
malattie incurabili o delle disabilità, sui neo-malthusiani piani internazionali di controllo
demografico, o su un certo ecologismo radicale e antiumanistico).
Il totalitarismo è anche la distruzione sistematica di quello “spazio pubblico” per l’agire e per
il discorso a cui la Arendt dedica pagine molto belle in Vita Activa., il termine “pubblico”
indica in primo luogo che l’esperienza del mondo non può essere qualcosa di esclusivo ed
intimistico. Ciò che appare, ciò che è visto e sentito da altri come da noi stessi, costituisce la
realtà, il suo “essere pubblico”.
Il senso condiviso della realtà, si fonda sull’esistenza di una sfera in cui le cose possono
apparire e l’azione libera e discorsiva può attuarsi, spazio pubblico è il mondo (inteso non
come terra o natura, ma soprattutto come sfera della cultura) in quanto è comune a tutti e
distinto dallo spazio che ognuno occupa privatamente. Vivere in uno spazio comune
comporta la condivisione di un mondo di cose, di un infra, in cui entriamo quando nasciamo
e da cui usciamo al momento della nostra morte (lo sradicamento è caratterizzato proprio
dalla perdita di questo quid che ha il potere di riunire gli uomini tra loro). Dalla lettura delle
opere della Arendt emerge l’immagine di una autrice che richiama il nesso essenziale tra
realismo e politica, ogni politica che voglia dirsi tale, deve infatti presupporre alcuni elementi
fondamentali. La crisi inferta alla tradizione occidentale dal totalitarismo può essere sanata
solo se si recupera il legame tra verità e politica, non nel senso che la politica debba stabilire la
verità (niente di più lontano dalla posizione della Arendt!), ma nel senso che la verità fattuale è
il limite che anche la politica deve accettare se non vuole tramutarsi in ideologia o in
deliberata menzogna. La Arendt, studiosa di Agostino, sostiene un certo pessimismo
antropologico (che tuttavia non degenera mai in cinismo), e una diffidenza verso la “buona”
politica degli utopisti e degli ideologi.
Allo stesso tempo, però, l’autrice è ben cosciente del potenziale pericolo che il potere stesso
può rappresentare per quella capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo che è la libertà umana
(da qui deriva la rivendicazione della pluralità come tratto distintivo della condizione umana).
La prima parte del libro studia l'antisemitismo endemico dell'Europa e la forma particolare