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per le costruzioni di navi per poi subentrare nel 1950 l’acciaio; il declino di U.K. era inevitabile,
basti pensare alle immense risorse naturali di U.S.A. e alla rapida crescita demografica.
Il Novecento è stato il secolo della crescita più sostenuta e trasformazioni più profonde, ma anche di
instabilità alte, con aspetti sistematici e continuativi delle fluttuazioni cicliche nella produzione,
occupazione, crisi reali e finanziarie, come similmente avvenute nell’800 che fu anche un secolo
caratterizzato da salari che non superavano i livelli di sussistenza e non esistevano i sindacati.
Nel ‘900 le politiche sociali hanno attenuato la ripercussione delle fluttuazioni e delle crisi
fisiologiche dell’Economia, codeste fattispecie sono state caratterizzate dal Grande Crollo degli
anni Trenta. Il PIL ebbe un decremento del 17% nel 1932 rispetto al 1929, con effetti che la
disoccupazione dilagò in modo preoccupante, il commercio mondiale ebbe un decremento di ¼, il
protezionismo soppiantò la libertà di commercio, il mercato internazionale subì un collasso. E’ stato
il secolo della sfida sovvertitrice, teorizzata da Marx, stimolo potente da parte di un modo di
produzione diverso dall’economia di mercato e a questo avverso, fallito nelle forme del comunismo
sovietico; il socialismo reale europeo è franato nel passaggio industria pesante a produzione
estensiva.
La produzione nell’URSS si era incrementata più rapidamente rispetto agli USA dal 1928 al 1939
(86% contro 9%), mentre dal 1950 al 1973 (200% contro 140%), tuttavia nel (1973–‘90) lo
sviluppo dell’URSS scendeva al di sotto di quello americano (30% contro 55%).
In questo scenario economico la Cina ha raddoppiato il PIL pro-capite, per una popolazione salita
da 546 a 1200 milioni di persone, mentre il tasso annuo di crescita della produzione è pari all’8%,
dopo le riforme liberalizzatici di Deng. Nel 1820 la Cina era la maggiore economia del globo col
29% del prodotto mondiale (5% per U.K).
Nel ventennio 1950-60, la Cina frena il suo PIL al 6%, oggi è risalita al II posto 13% subito dopo al
20%, permane aperta la duplice questione se la Cina evolverà verso una economia di mercato, come
avviene in altre regioni dell’Asia e se sarà amichevole o ostile in politica estera. Mentre per
l’economia ex-pianificate dell’Europa dell’est, il cammino sta diventando arduo.
E’ stato il secolo che ha visto mutare gli equilibri del potere mondiale, d’inizio ‘900 al dominio
pieno incontrastato di USA al ruolo economico assunto dalla Germania e dal Giappone, sconfitti nel
1945. Oggi la crisi USA è caratterizzata dal finanziamento dell’economia (spesa pubblica), in Italia
si congettura la necessità di regole (70 anni fa gli USA già affrontava questa idea), due punti di
vista strettamente diversi. Nel 1870 l’export dell’Europa Occidentale era oltre il 50% fino al 1913,
oggi superano di poco il 40%. Inoltre l’Euro ha contribuito a rimuovere divisioni e conflitti, un
ambizioso piano di unire l’Europa, come mercato con area monetaria comune una super potenza
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finanziaria che ci rende immune da eventuali vortici di crisi prodotte da Paesi a forti economie
instabili, con effetti di riduzione dell’export e decremento del costo della materia prima.
Tuttavia solo con una mutua collaborazione si reggerà meglio la sfida; durante la Crisi del ’29,
Keynes
9
, parlò del ruolo svolto dallo Stato, con incremento del peso delle aspettative e della
speculazione dei mercati finanziari. Obiettivo della politica macroeconomia è il pieno impiego,
stabilità monetaria, equilibrio esterno, concorrenza, trasparenza e funzionalità dei mercati (crescita
ed efficienza), sono diventati obiettivi di ogni Stato.
Lo Stato ha individuato nella funzione di politica economica una nuova legittimazione mentre
perdeva rilievo; con esso anche il ruolo del sindacato, movimento operaio, più salari, più previdenza
sociale, migliorò lo stato di benessere sociale apportando un notevole valore aggiunto alla
collettività con effetti della fine del Laissez-Faire.
Assistiamo al fatto che i tassi d’interesse reali a lungo termine sono oggi su valori (4-5%) doppi
rispetto a quelli d’inizio secolo e più che doppi rispetto al minimo storico degli anni 1950-80;
invariate sono le posizioni relative dell’America Latina, spiccano recenti storie di successo dei
singoli Paesi, che tendono ad un progresso sistematico e continuo.
Non partecipa l’Africa, il cui prodotto pro-capite, non raggiunge quello dell’Europa Occidentale di
due secoli fa, vivendo con un reddito compreso fra 1/100 e 1/50 di chi vive in USA.
La ricchezza di uno Stato dipende dalla quantità della popolazione superiore a 5 milioni ed una
economia che non sia fondata sulla monocultura, presentando un prodotto pro-capite non inferiore
di ⅓ rispetto a quello dell’economia più avanzata. Ad esempio il club dei più ricchi comprendeva
solo 8 Stati alla fine dell’800 (U.K., Australia, Olanda, Svizzera, USA, Belgio, Germania, Francia).
Alla fine dell’900 il gruppo è salito a 15 Stati, aggiungendosi: Italia, Finlandia, Canada, Svezia,
Austria, Danimarca, Giappone; dall’800 il prodotto pro-capite dell’Italia è aumentato del 70%, era
sceso dall’85% al 57% di quello europeo, mentre oggi è sulla media europea superiore a quello del
Regno Unito. Tuttavia, la ricchezza e industrializzazione di U.K, Belgio, USA e Germania dipese
dall’abbondanza di riserve di carbone, mentre la Francia era povera di queste materie prime; altro
aspetto la “Statistica” era caratterizzata da mezzi e dati scarsi e poco affidabili che determinò
eventuali omissioni ed errori. Il ritmo di urbanizzazione della Francia era molto basso, dovuto alla
lenta crescita demografica con forte percentuale impiegata nel settore dell’agricoltura.
9
N.d.a. Jhon M. Keynes, con la Teoria generale, non ha prodotto una “nuova” economia se non per coloro che ignorano
l’antica di A. Smith.
A. Smith, La Ricchezza delle Nazioni, Utet, Totino, 2008 ristampa, p. 38.
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In Europa la situazione era diversa, in U.K. con la I Guerra Mondiale, si incominciò ad abbandonare
il liberismo in seguito all’introduzione nel 1915 dei dazi su alcuni prodotti agricoli e industriali
essenziali.
Furono introdotte misure di circoscrizione nel liberismo nell’ambito dei rapporti di lavoro,
imponendo da parte dello Stato salari decorosi e dignitosi; l’economia di guerra incominciava a
mutare la struttura dell’industria con larga impostazione di produzione in serie, introducendo
modifiche nelle forme di organizzazione del lavoro.
Inoltre la guerra incise in modo negativo sull’export classico di U.K. a livello mondiale come nel
tessile, carbone, prodotti siderurgici, questa fu una delle principali sorgenti della crisi strutturale
negli anni Venti, dando luogo a disoccupazione di massa di lunga durata che produrrà principali
tensioni sociali. I dazi protezionistici, sarebbero stati abbandonati nel corso degli anni Venti, per
essere ripresi dopo la “Grande Crisi” del 1929.
La I Guerra Mondiale diede impulso al delinearsi del “Welfare-State” sotto forma di meccanismi di
copertura rischi come quello della forzata inattività, malattia o vecchia, l’ambito di applicazione si
estese in particolare nel periodo tra le due guerre, finanziato con imposte e tasse generiche.
Nell’Inghilterra degli anni Venti, l’inflazione alla quale era stata costretta a ricorrere per finanziare
lo sforzo bellico era inferiore a tutte le altre potenze del continente. Nel 1925 il ruolo internazionale
di Londra si era consolidato ex-ante alla “Grande Guerra”, in questo periodo i prezzi dei manufatti
inglesi non erano più competitivi sul mercato internazionale.
Le esportazioni avevano fatto la fortuna dell’Inghilterra Vittoriana, la responsabilità andava
imputata ai salari elevati, questo implicò un lungo braccio di ferro tra la classe operaia e blocco
industriale-finanziario che caratterizzò l’intero periodo tra le due guerre, per essere sospeso nel
corso del II Conflitto Mondiale. All’inizio degli anni Venti la disoccupazione venne interpretata
come un fenomeno congiunturale legato al caos del dopoguerra e che la ripresa del commercio
internazionale l’avrebbe fatta sparire per incanto.
L’indennità di disoccupazione che ex-ante alla guerra copriva più di 3 milioni di lavoratori, venne
estesa a tutti i salariati in possesso di un reddito inferiore alle cinque sterline settimanali, con
esclusione dei domestici, agricoltori e impiegati statali; i salari elevati furono messi sotto accusa,
perché dovevano decrescere proprio per uscire dalla crisi. Alla vigilia del giovedì nero di “Wall
Street” si insediò un II Governo Laburista diretto da Mcdonald e con Snowden nuovamente
cancelliere dello scacchiere, di fronte a questa crisi economica mondiale i dirigenti governativi
laburisti apparivano disorientati: “E’ crollato dovunque, perché doveva crollare” ribadì MacDonald
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furono adottate misure deflazionistiche
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mirate a decurtare stipendi degli impiegati statali, dei
sussidi di disoccupazione e all’introduzione dell’umiliante “Means Test”, diretto all’accertamento
caso per caso alle risorse economiche complessive delle famiglie dei disoccupati che fino ad allora
avevano il sussidio per il solo fatto di trovarsi senza lavoro. I settori in crisi erano quelli in cui
vigeva una forte tradizione organizzativa del movimento operaio britannico, con forti resistenze
collettive alla compressione del salario monetario, come prolungamento della giornata lavorativa.
L’obiettivo principale della “politica economica” perseguita dalle autorità (anche quando a Downig
Street, come nel 1924, sedeva un premier laburista) fu quello del pareggio di bilancio, stabilità
monetaria e l’aggancio della sterlina all’oro. Altre decisioni furono quelle dei tagli alla spesa
pubblica creando delle battute d’arresto per l’industria, con effetti:
- Incremento di disoccupazione;
- Potenziali decrementi dei salari reali, non erano diminuiti ed in molti casi si erano
incrementati.
Inoltre 9 Ministri su 20 contestavano la decisione del Governo laburista sulle necessità del pareggio
di bilancio; per attuare queste decisione furono anche ridotte le paghe ai marinai della “Royal
Navy” dando luogo ad uno scandalo supremo. Fu un punto di svolta per l’epoca i possessori
stranieri di sterline britanniche interpretavano codesta fattispecie come un sintomo incontrovertibile
di crollo dell’affidabilità dell’economia di U.K., questo evento assunse aspetto di una “data-
frontiera”anche nella storia britannica tra le due guerre. Nel caso Francese la guerra incise
sull’aspetto di innovazione industriale ed gli effetti economici della guerra ebbero un ruolo di
impulso tanto maggiore quanto furono le perdite materiali subite.
Le misure adottate dal governo per arrestare il declino delle industrie esportatrici furono varie, ciò
che diede impulso all’economia, furono i salari reali alti per la classe operaia occupata, dovuto alla
forza persistente dei sindacati ed anche al mutamento dei termini di scambio dei prodotti agricoli
importati, decrementando i prezzi dei prodotti alimentari, questo contribuì a liberare potere
d’acquisto da orientare il consumo verso prodotti di nuove industrie. La Francia nel periodo
intermedio tra la fine della Grande Guerra alla ripercussioni della “Grande Crisi del 1929”, diventò
una delle grandi Nazioni industrializzate che aveva riconosciuto i valori della proprietà sostenendo i
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Cfr., ad es., M. Fridman, The Balance of Payments: Free versus Fixed Exchange Rates, American Enterprise Institute
for Pubblic Policy Research, D.C., Washington, 1976, p. 90: «Quando gli USA si imbarcarono nella deflazione e
procedettero a ridurre il proprio stock di moneta, il resto del mondo fu spinto verso una grande catastrofe». Una
trattazione manualistica della posizione del professor Friedman si trova in M. Friedaman e A. Schwartz, A Monetary
History of the United States, 1867-1960, Princeton University Press, Priceton 1963 trad. It., Dollaro, Storia monetaria
degli USA, 1867-1960, UTET, Torino, 1969, si veda soprattutto il capitolo 7, che si trova anche pubblicato
separatamente in M. Friedaman e A. Schwartz, The Great Contraction, Princeton University Press, Princeton, 1966.
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vantaggi della stabilità sociale ed economica, conoscendo uno dei boom più importanti della propria
storia.
La Francia fu caratterizzata dalla stabilità della moneta più una perdita di valore del franco, che
iniziò nel 1915, fino alla stabilizzazione operata da Poincarè nel 1928, con una fissazione del valore
in oro del franco. La “Grande Guerra” creò dei danni all’apparato produttivo della Francia,
soprattutto all’industria estrattiva di ferro, carbone, siderurgia e metallurgia, questo evento negativo
fu da stimolo per incentivare/sostenere l’espansione economica.
La ricostruzione, proseguì di pari passo con i settori: dell’elettrificazione; industria della gomma;
derivati del petrolio; auto; beni intermedi, questa espansione fu favorita dal fatto che l’imprese
tecniche si incominciavano a concentrare in distretti industriali, più l’avvento del miglioramento dei
processi di trasformazione mediante l’uso sistematico dei macchinari moderni, con l’introduzione
della produzione in serie e dell’applicazione spinta dei procedimenti tayloristici dei compiti
lavorativi.
Tutti questi processi di cambiamento indotti dall’espansione economica, ebbero effetti di un
incremento del reddito nazionale di ⅓ rispetto al 1913, mentre la produzione industriale ebbe un
incremento del 40%, i salari degli operai erano aumentati solo di ¼. Confrontando il tasso di
crescita del salario reale in Francia e U.K., il salario medio francese passò dall’indice 100 del 1914
all’indice 124 del 1930, contro un salario Britannico che passava da 100 a 121.
Tuttavia, le organizzazioni sindacali Britannici riuscirono non solo a mantenere costante i salari, ma
addirittura ad incrementarli, mentre le contingenze di ristagno della produzione e della dilagante
disoccupazione non consentivano ciò. In Francia, era presente uno squilibrio salari-profitti, in cui
una classe operaia era tenuta ai margini del sistema sociale, divisa politicamente e ideologicamente,
con un tasso di sindacalizzazione molto basso rispetto a tutte le grandi Nazioni industrializzate,
riesce con difficoltà a far crescere il salario reale in una congiuntura favorevole (che avrebbe dovuto
incrementarli) nei rapporti di forza sul mercato del lavoro, crescendo in misura inferiore rispetto
all’aumento della produzione, un forte squilibrio strutturale tra crescita dei salari e dei profitti.
La crisi degli anni Venti, creò destabilizzazione che avrebbe rotto questa pace sociale, con aspetti di
precarietà e squilibrio tra settori. Inoltre lo squilibrio tra i settore industriale e settore agricolo,
continuò in modo incisivo a cavallo tra le due Guerre, con bassi livelli di produttività
dell’agricoltura, tanto che diede un contributo alla crescita industriale nel fornirle manodopera con
un esodo rurale che ammontò a 950.000 unità, con un ritmo di esodi di 80.000 all’anno. Altro
squilibrio fu quello del settore dei beni d’investimento e beni di consumo; i beni di consumo erano
arretrati alla prevalenza della piccola impresa familiare, con alti costi, orientati verso la produzione
di lusso e l’export.
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Difatti, l’economia Francese dipendeva dall’export ed era esposta alle congiunture sfavorevoli che
caratterizzarono l’intero commercio internazionale tra le due guerre. La Francia fu uno Stato che
non presentò il circolo virtuoso tra crescita dei redditi, crescita consumi e investimenti, complesso
le concause da comprendere. La crisi mondiale si manifesto in Francia con notevole ritardo, fine
anni Trenta, fu inaspettata rispetto alla prosperità degli anni precedenti.
Infatti, lo sviluppo sostenuto dall’export francese e le politiche monetarie di stabilizzazione di
Poincarè, avevano fatto della Francia il primo depositario di riserva aurea in Europa. La crisi fu
inizialmente meno devastante che altrove, grazie alla minor diffusione dei rapporti capitalistici
moderni, in particolare la crisi colpì i cittadini stranieri, con ulteriori effetti di decremento delle
esportazioni, dovuta alla svalutazione della sterlina, favorendo l’import francese e spingendo verso
il rosso la bilancia dei pagamenti.
I poteri pubblici reagirono con misura diretta a frenare le importazioni con effetti generali di
riduzione a sua volta delle entrate dello Stato, mettendone in pericolo la solvibilità, con effetti di
contrazione domestica delle spese statali che contribuì ancor più a deprimere il livello generale
dell’attività economica. La crisi finì con il ripercuotesi sugli equilibri politici della Francia,
sviluppando agitazioni sempre più intense, con la rivolta degli stati sociali più duramente colpiti
dalla depressione: operai; disoccupati e contadini, in questo clima il partito comunista trova spazi,
mentre le organizzazioni di sinistra si moltiplicano anche sempre più numerose organizzazioni
eversive di estrema destra, le ligues.
Mentre in Russia, nel 1917 la guerra civile diede un contraccolpo all’economia, in uno Stato che era
già comatoso, la carenza di infrastrutture, danneggiò gli scambi tra città e campagne, la produzione
industriale era al collasso, mancanza di abitazioni, disoccupazione e miseria dilagavano.
Altro aspetto la carestia, che procurò milioni di vittime, con effetti di distribuire le scarse risorse in
base alla tipologia di lavoro, mentre i borghesi in un primo momento allontanati dagli elevati gradi
della burocrazia, furono richiamati ai loro posti. Incominciarono dei rastrellamenti nelle campagne
per requisire con forza ai contadini ogni eccedenza, si diffuse il mercato nero del baratto (la moneta
aveva perso ogni valore) e le retribuzioni furono pagate prevalentemente in natura.
I furti nelle fabbriche aumentarono, indusse il governo nell’aprile del 1920 ad attuare una forma
decisamente autoritaria e militari. Con la fine della guerra civile, la Russia rimase completamente
isolata, i leader comunisti ritenevano che questo isolamento sarebbe stato pur sempre provvisorio;
nel 1924-1925, dovettero prendere atto che il capitalismo mondiale e la borghesia non erano andati
all’atteso collasso. Questo isolazionismo evidenziò una fattispecie di vulnerabilità, contraddistinta
dal totale sfascio del sistema produttivo.