6
In terzo luogo, il sistema competenziale individuato dall’art. 117 Cost. tipizzava le
materie di legislazione regionale, con ciò impedendo che ulteriori settori di competenza
potessero essere attribuiti alle Regioni in via interpretativa.
3
L’art. 118 Cost. sanciva,
infine, il principio del parallelismo fra competenze legislative ed amministrative;
ciononostante, nessuna norma lasciava intravedere la possibilità di estendere tale
parallelismo anche al rapporto fra le attribuzioni interne e loro proiezione in ambito
estero.
Il “potere estero” era, invero, prerogativa riservata allo Stato: solo quest’ultimo era
abilitato ad instaurare relazioni con soggetti non appartenenti al proprio ordinamento. Il
monopolio della politica estera a livello governativo centrale assicurava, infatti, sia la
continuità, sia la non-contraddittorietà di tali rapporti, evitando di esporre l’ordinamento
complessivo a forme di responsabilità sul piano internazionale.
4
In altre parole, il sistema costituzionale attribuiva rilevanza agli interessi di una
collettività politica costituzionalmente riconosciuta – quale quella regionale – soltanto
in quanto non trascendessero i limiti territoriali stabiliti, pur essendo innegabile che
alcuni degli interessi facenti capo agli enti regionali non possono considerarsi
geograficamente circoscrivibili.
5
L’interpretazione del modello regionale invalsa nella prassi avallò l’attrazione di
molteplici competenze delle Regioni nella potestà politica generale dello Stato, laddove
si avvertiva la necessità di una loro proiezione a livello internazionale. Con ciò, tuttavia,
3
Analogo discorso vale per gli Statuti delle Regioni speciali, contenenti elencazioni tassative delle
competenze regionali: v. artt. 14 e 17, Statuto della Regione Sicilia; artt. 3 ss., Statuto della Regione
Sardegna; artt. 2 s., Statuto della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; artt. 4 ss., Statuto della
Regione Trentino–Alto Adige/Südtirol; artt. 4 ss., Statuto della Regione Friuli–Venezia Giulia.
4
W. LEISNER, La funzione governativa di politica estera e la separazione dei poteri, in Riv. Trim. Dir.
Pubbl., 1960, p. 343.
5
Basti pensare ai vari interessi sussumibili nelle materie di “fiere e mercati” o di “turismo ed industria
alberghiera”, che già l’originario art. 117 Cost. attribuiva alla potestà concorrente fra Stato e Regioni.
In ambiti di tal genere, sarebbe paradossale circoscrivere l’attività regionale all’interno dei territori
stabiliti, poiché si tratta di materie che per loro natura implicano un necessario rapporto con enti esterni.
7
si erodeva la portata sostanziale delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite,
compromettendo l’autonomia politica delle Regioni, tutelata dall’art. 5 Cost.
Invero, sin dall’origine, l’assetto costituzionale dimostrava la natura politica ed
esponenziale delle Regioni, poiché l’attribuzione di potestà legislative e regolamentari
autonome sottendeva il potere di esprimere compiutamente la volontà politica delle
collettività rappresentate.
6
Tale potere deve tuttavia confrontarsi continuamente con
quello dello Stato, cui fanno capo interessi che, nella loro essenza unitaria, sono
rappresentativi della più ampia collettività nazionale. Il bilanciamento fra le opposte
esigenze può giustificare l’imposizione di vincoli all’autonomia regionale; ma non può
condurre ad una compressione di tale autonomia, che è costituzionalmente garantita.
Un parametro di composizione fra i principi dell’unità e dell’autonomia, applicabile
anche alla proiezione esterna dei rispettivi interessi, potrebbe rinvenirsi nell’art. 5 Cost.
Nel corso dell’evoluzione storica della Repubblica, questo articolo ha rappresentato la
base di una struttura in grado di riequilibrare armonicamente spinte contrapposte: da un
lato, le forze “centripete” di unità e indivisibilità della Repubblica; dall’altro, quelle
“centrifughe”, volte al riconoscimento ed alla promozione delle autonomie locali.
7
6
Sulla natura politica ed esponenziale delle Regioni, v. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni
territoriali delle Regioni, Padova, 1979, p. 118 ss. Sulla necessità del riconoscimento di tale loro natura
quale presupposto per l’attribuzione del potere estero, v. F. PALERMO, Il potere estero delle Regioni -
Ricostruzione in chiave comparata di un potere interno alla Costituzione italiana, Padova, 1999, p. 51.
7
Art. 5 Cost.: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento».
8
Tale disposizione rappresenta la “chiave di volta” del sistema costituzionale, alla
luce della quale interpretare tutte le norme del Titolo V e, conseguentemente, verificare
il possibile riconoscimento di una “vocazione internazionale” dell’attività regionale e
gli eventuali limiti della stessa.
8
L’art. 5 ha dunque fornito alle Regioni il fondamento normativo, alla luce del quale
giustificare l’esercizio delle competenze loro sottratte dall’attribuzione allo Stato del
monopolio delle relazioni con l’estero. In conformità a tale impostazione, gli enti
regionali iniziarono ad intrattenere relazioni con soggetti stranieri; successivamente,
legittimarono e svilupparono coerentemente la propria attività internazionale, in ciò
confortati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
9
L’evoluzione della disciplina consente, pertanto, di affermare che il potere estero
delle Regioni sia frutto di una “creazione pretoria”: esso si è affermato nell’attività
interpretativa che della Costituzione ha offerto la giurisprudenza della Corte
costituzionale. Facendo venir meno la tradizionale monoliticità della sfera dei rapporti
internazionali, la Corte è giunta a riconoscere in capo alle Regioni la titolarità di un
potere estero complementare rispetto a quello statale.
10
Si potrebbe affermare – in accordo con alcune posizioni espresse in letteratura – che
tale titolarità sussistesse “in potenza” sin dal principio dell’esperienza regionale e che
8
F. PALERMO, op. loc. cit. L’art. 5 Cost. viene indicato come «norma chiave del “sistema costituzionale”
dei rapporti Stato-Regioni, comprensivo di alcuni tra i principi caratterizzanti la forma di stato: in
primis quello autonomistico, ma anche quello internazionalistico e quello solidaristico. Di conseguenza,
tutta la normazione derivata e la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale volte a riconoscere il
potere estero regionale e a tracciarne i limiti di esercizio costituiscono elementi di espansione di un
potere implicitamente contenuto nella Costituzione come “sistema”, e nell’art. 5 come sua stella polare,
grazie alla “naturale flessibilità” della norma e alla sua implicita capacità espansiva».
9
V. infra, sub par. 2.2.
10
V., in particolare, Corte cost., sent. n. 179/1987, in Giur. Cost., 1987, p. 1288. Questa pronuncia ha
distinto i rapporti internazionali in senso stretto (riservati allo Stato, ma con le deroghe operate dallo
stesso legislatore statale) rispetto alle attività di mero rilievo internazionale (di competenza delle
Regioni, anche al di fuori delle materie ad esse attribuite): v. infra, par. 1.3.
9
attendesse una situazione contingente favorevole alla sua traduzione “in atto”. Fu la
giurisprudenza ad operare, a fronte del silenzio serbato dal legislatore, una
razionalizzazione sistematica di tale manifestazione dell’autonomia regionale.
11
Il dato normativo da cui ha preso le mosse questa evoluzione è rappresentato, come
si è già avuto modo di evidenziare, dall’art. 5 Cost. Più in particolare, il principio che ha
permesso di dare concreta attuazione giuridica alla teorizzazione giurisprudenziale del
potere estero – contribuendo altresì a calibrare le opposte istanze dello Stato e delle
Regioni – è stato quello della “leale collaborazione” fra livelli di governo, il quale
rinviene nello stesso art. 5 il proprio fondamento costituzionale. Si tratta di un
«principio politico-costituzionale immanente nel nostro sistema regionale, operante […]
come un permanente fattore di composizione unitaria del disegno autonomistico».
12
Il fatto che il potere estero regionale abbia ricevuto forma tramite l’operato
giurisprudenziale non significa, peraltro, che esso non sia stato oggetto di disciplina
positiva. Come si avrà modo di vedere, già il D.P.R. n. 616/1977 riconobbe alle Regioni
la facoltà di svolgere talune attività a diretta rilevanza internazionale, individuate come
“attività promozionali”.
11
Queste considerazioni consentono di attribuire natura “maieutica” all’operato giurisprudenziale, che ha
sviluppato coerentemente l’originario disegno regionalista elaborato dall’Assemblea Costituente:
l’espressione è utilizzata da F. PALERMO, op. cit., p. 217. Secondo tale interpretazione, il potere estero
regionale era già implicito nella Costituzione, trovando riscontro concreto nell’attività svolta dalle
Regioni medesime. L’evoluzione storica dell’ordinamento avrebbe creato – mediante le spinte
contrapposte dell’unità e indivisibilità da un lato, dell’autonomia dall’altro – un clima politico
favorevole al rinvenimento e all’esplicitazione di tale potere. Più che una “creazione pretoria”, pertanto,
esso sarebbe il prodotto di una “selezione naturale” degli interessi degni di tutela istituzionale: di essi la
Corte costituzionale si sarebbe limitata a prendere atto, per darne pubblica coscienza.
12
L. BEDINI, Ordine pubblico e leale collaborazione nel rapporto tra Stato e Regioni, in Giur. Cost.,
2001, p.1669.
10
Tuttavia, solo nell’ultimo decennio il legislatore è intervenuto con l’intento di
conferire organicità alla materia oggetto della presente indagine. Ciò è avvenuto,
anzitutto, con l’attuazione del c.d. “federalismo amministrativo”, realizzato in
particolare mediante la L. n. 59/1997 e il D. Lgs. n. 112/1998. È stata poi la L. C. n.
3/2001 a determinare la recezione nella Costituzione repubblicana del potere estero
regionale, tramite il nuovo art. 117 Cost., che ha infine ricevuto attuazione legislativa
attraverso l’art. 6 della L. n. 131/2003 (c.d. legge La Loggia).
13
1.2. I rapporti delle Regioni con lo Stato, tra unità della Repubblica e principio
autonomistico
Si è in precedenza accennato alla funzione che l’art. 5 Cost. ha rivestito ai fini
dell’affermazione del potere estero regionale. L’Assemblea Costituente ha accolto
esplicitamente il principio autonomistico, collocandolo fra i principi fondamentali su cui
poggia l’ordinamento costituzionale. Sotto questo profilo, l’art. 5 Cost. opera una
composizione dei principi di unità e di autonomia.
Il binomio “unità e indivisibilità della Repubblica” solleva una serie di questioni. In
primo luogo, la ratio di questi principi non può essere solo giuridico-formale, poiché in
tale ipotesi essa escluderebbe la diretta derivazione costituzionale dei poteri regionali,
configurandoli come “derogatori” rispetto a quelli dello Stato. Al contrario, il principio
di unità ha la funzione, di carattere sostanziale, di impedire che il concreto riparto dei
13
Sulla L. C. n. 3/2001 v. B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del titolo V, Torino, 2002. Del
nuovo art. 117 Cost. vengono in rilievo, in particolare, il comma III, che introduce la “materia” dei
rapporti internazionali delle Regioni nell’ambito della potestà legislativa concorrente fra queste e lo
Stato, ed il comma IX, che attribuisce alle Regioni la potestà di concludere, nelle materie di propria
competenza, accordi con Stati ed intese con enti territoriali interni ad altro Stato.
11
poteri fra centro e periferia possa intaccare l’unità politica della Nazione: «il pluralismo
giuridico non deve trasformarsi in una separazione o contrapposizione politica».
14
In secondo luogo, all’enunciazione del principio di unità e indivisibilità fa seguito la
proclamazione che la Repubblica stessa non solo “riconosce”, ma anche “promuove” le
autonomie locali. Ciò consente di precisare come le spinte centripete «non possano
considerarsi principio direttivo positivo, ma solo “limite” al riconoscimento delle
autonomie (che costituiscono invece il principio positivo)».
15
Conseguentemente,
l’attribuzione di funzioni alle autonomie locali non costituisce una deroga alla sovranità
statale, ma determina un modello competenziale che si mantiene nella fisiologia del
sistema nei limiti in cui non sfoci in una contrapposizione diretta fra centro e periferia.
16
14
C. ESPOSITO, La Costituzione italiana - Saggi, Padova, 1954, p. 67 ss. «In realtà quella dichiarazione di
unità della Repubblica italiana non permette di elencare preventivamente quali fatti non siano da
ammettere, ma impone che tutti i provvedimenti che siano stati presi o che siano per prendersi in
materia di autonomie locali siano esaminati sotto il profilo del pericolo che essi possano rappresentare
per l’unità d’Italia, nella situazione storica in cui siano presi e siano mantenuti». Quanto al principio di
indivisibilità, esso sancisce, pur sempre su un piano politico, «la illegalità di ogni attività che entro lo
Stato tenda alla divisione della Repubblica italiana in due o più stati, o alla separazione di una o più
parti d’Italia dallo Stato».
15
C. ESPOSITO, op. cit., p. 73. V., altresì, G. BERTI, Art. 5, in G. BRANCA, Commentario alla
Costituzione, Bologna - Roma, 1975, p. 292: «l’interiore pluralismo dell’ordinamento repubblicano
viene a rappresentare la sostanza intima della sua unità e della sua indivisibilità. Le quali dunque non si
contrappongono al principio autonomistico: ed invero l’uno dei principi non vuole affermarsi a
discapito dell’altro, ma entrambi, poiché operano su piani differenti, attendono e pretendono attuazione
piena e incondizionata».
16
A. RUGGERI, Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali, in
http://www.federalismi.it/federalismi/document/ACF38B2.pdf, 2002, p. 4: l’Autore riconosce «che tra
eguaglianza e autonomia può, sì, esservi conflitto, […] ma che, nella ricostruzione dei significati
riconducibili agli enunciati costituzionali, deve metodicamente muoversi dall’assunto della loro
necessaria, equilibrata riconciliazione o, meglio, […] dall’assunto che esse possono essere
correttamente inquadrate ed acquistare il loro più genuino significato unicamente dalla prospettiva che
le vede orientate l’una verso (e non contro) l’altra ed, anzi, l’una quale parte integrante dell’altra»
(corsivi dell’Autore).
Sul versante delle spinte “centrifughe”, l’Assemblea Costituente ha voluto distinguere il principio
autonomistico da quello del decentramento, con ciò liberandolo da un collegamento troppo stretto ed
esclusivo con i problemi di mera organizzazione amministrativa. V., a tal proposito, G. BERTI, op. cit.,
p. 283: contrariamente al principio di autonomia, «il decentramento non risponde infatti ad un’esigenza
di garanzia, ma a un principio di efficienza sociale dell’amministrazione». Il decentramento
amministrativo, strettamente inteso, consiste in un mero trasferimento di funzioni dal centro alla
periferia; ma «il più ampio decentramento» cui fa riferimento l’art. 5 Cost., coinvolge anche «i principi
e i metodi» della legislazione. Si può dunque affermare che la funzione di questo principio sia stata
quella di improntare l’ordinamento repubblicano ad una logica opposta a quella di accentramento, che
aveva contraddistinto il precedente regime fascista.
12
A contatto con il principio autonomistico, il decentramento delle funzioni normative
non risponde più soltanto ad una logica di maggiore efficienza organizzativa, ma – nel
riconoscere natura politica agli enti territoriali – si pone a garanzia di una tutela
specifica degli interessi differenziati. «In sostanza il decentramento vuole che lo Stato,
da meccanismo mosso dal centro, si muti in organismo vivente composto di parti
viventi, nel quale alla molteplicità degli organi corrisponda molteplicità di vita e di
centri di azione».
17
Il concetto di autonomia richiama innanzitutto l’autonomia normativa, con ciò
intendendosi il potere che un soggetto ha di porre da sé le norme che disciplinano la
propria azione e che vanno a costituire l’ordinamento complessivo.
18
Un ente territoriale
può essere titolare del potere di normazione soltanto in quanto dotato dei caratteri
dell’esponenzialità e della politicità. L’ente è esponenziale se si fa carico della
rappresentanza degli interessi di una collettività individuata e se questa gli riconosce
siffatta capacità rappresentativa; è politico, infine, se è in grado di determinare da sé i
fini della propria azione, esprimendo così una specifica volontà d’indirizzo nell’attività
di cura degli interessi rappresentati.
17
C. ESPOSITO, op. cit., p. 83.
18
L’autonomia normativa non è, invero, l’unica forma d’autonomia costituzionalmente rilevante. V., in
particolare, L. PALADIN, op. cit., p. 39: «l’autonomia regionale costituisce in tal senso una espressione
sintetica assai più complessa, in quanto contiene almeno quattro figure diverse, tutte dotate di uno
specifico rilievo costituzionale, che in sede scolastica devono venire separatamente analizzate (sebbene
interferenti o sovrapposte nel più vario modo), per la natura e le forme di esercizio dei poteri rispettivi,
o per le altre questioni peculiari che ineriscono a ciascuna di esse: vale a dire l’autonomia statutaria;
l’autonomia legislativa; l’autonomia amministrativa; l’autonomia finanziaria».
13
Ne consegue una stretta connessione fra il principio autonomistico ed il pluralismo
politico-istituzionale, la cui affermazione procede di pari passo con quella del
pluralismo sociale.
19
L’eterogeneità degli interessi emergenti dai singoli gruppi sociali
individuati è requisito necessario ai fini dell’allocazione in capo agli stessi delle
funzioni relative alla cura di tali interessi, con il riconoscimento dell’autonomia
normativa.
20
Un ordinamento che accolga il principio autonomistico rilascia “quote” di
sovranità agli enti politico-esponenziali dei vari livelli, in corrispondenza dei quali
riconosca una differenziazione delle esigenze sociali.
21
Tuttavia, per lungo tempo, simile riconoscimento è rimasto privo di pratico
riscontro. L’attuazione delle Regioni ordinarie subì forti ritardi per i timori connessi ad
una probabile affermazione delle forze d’opposizione nelle c.d. Regioni rosse.
22
Fu la
stessa Assemblea Costituente, invece, ad elaborare ed approvare quattro dei cinque
19
G. BERTI, op. cit., p. 288 ss.: l’affermazione del principio autonomistico presuppone una
differenziazione degli interessi fra le diverse collettività, le quali «pretendono di proporre in modo
differenziato e indipendente il problema del consenso al potere pubblico e stabilire quindi differenziati
rapporti con questo ultimo». Quando la società non si presenta più unita ed omogenea al cospetto dello
Stato e dei poteri pubblici, il Governo centrale non ha più sufficiente capacità di rilevazione e sintesi
delle diverse esigenze sociali; in altre parole, esso non sarebbe più in grado di contrastare «l’affluenza
della società verso l’autogoverno». Prosegue l’Autore: «Al fondo dell’idea di autonomia vi è sempre un
principio di autogoverno sociale ed ha senso introdurre una autonomia sul piano istituzionale in quanto
sia sicuro che essa serve a vivificare la partecipazione sociale, a rendere effettiva cioè la libertà dei
singoli e dei gruppi sociali, come presenza attiva nella gestione di amministrazioni comuni».
20
C. ESPOSITO, op. cit., p. 78: «l’affermazione che la Repubblica riconosce e promuove le autonomie
locali non vuole esprimere che la Repubblica tende a dare a questi enti una certa determinata posizione
giuridico-formale, a conferire questo o quel diritto particolare, e questo o quel potere formale, ma che
essa vuole che questi enti territoriali, nel loro complesso, siano così fatti e organizzati, abbiano tanto
potere, da assurgere a centro di vita effettiva ed individuata nella vita dello Stato».
21
M. PEDRAZZA GORLERO, Il potere e il diritto - Elementi per una introduzione agli studi giuridici,
Padova, 1999, p. 99. L’Autore parla di “sottosistemi giuridici” e di “sottosistemi normativi”. I primi
sono organismi imitativi dell’ordinamento giuridico e partecipano “per comunicazione” della sua
giuridicità, dando attuazione a fini pre-giudicati come rilevanti dal potere sovrano: si distinguono in
ordinamenti autonomi, titolari di un potere normativo integrato nel sistema giuridico; e in ordinamenti
derivati, istituiti e disciplinati dal sistema giuridico stesso. I secondi sono, essi pure, organismi imitativi
dell’ordinamento giuridico, ad esso soggetti quanto ad esistenza e a limite di validità e di efficacia; ma
non partecipano della sua giuridicità, in quanto le loro norme non realizzano alcuna finalità rilevante
per il potere sovrano: di questo tipo sono gli ordinamenti privati, ossia le organizzazioni sociali private.
Figure intermedie fra i “sottosistemi giuridici” e i “sottosistemi normativi” sono, infine, gli ordinamenti
interni, istituiti dall’organizzazione governativa ma le cui regole valgono solo al loro interno.
22
S. BARTOLE, R. BIN, G. FALCON, R. TOSI, Diritto regionale - Dopo le riforme, Bologna, 2003, p. 14.
14
Statuti speciali, al fine di temperare pericolose tendenze separatiste nelle Regioni
insulari e di confine.
23
L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario avvenne, dunque, solo a seguito della
L. n. 108/1968 – sull’elezione dei Consigli regionali – e della L. n. 281/1970,
contenente i necessari provvedimenti finanziari. Peraltro, anche in seguito all’attuazione
dell’ordinamento regionale, il regionalismo italiano continuò a configurarsi come un
“regionalismo debole”.
Sul piano amministrativo, il primo trasferimento delle funzioni statali fu
frammentario, a causa di molteplici “ritagli” operati dai decreti governativi. In
considerazione dell’“interesse nazionale”, infatti, numerosi settori interni alle materie di
competenza regionale furono trattenuti in capo alla gestione statale, poiché ritenuti
insuscettibili di frazionamento territoriale.
24
Solo in sede di un secondo trasferimento di
funzioni, con il D.P.R. n. 616/1977 si diede luogo ai primi trasferimenti di “settori
organici” di materie.
23
Gli Statuti immediatamente approvati furono quelli di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto
Adige; l’adozione dello Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia si ebbe invece soltanto nel 1963,
dopo la definizione, a livello internazionale, della c.d. “questione di Trieste”.
24
In particolare, si rese esplicita la riserva statale in merito a qualsiasi proiezione internazionale delle
funzioni attribuite alle Regioni: v. T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto
regionale, Milano, 2002, p. 7.
15
Sul piano legislativo, l’interpretazione statale degli ambiti di esercizio della
legislazione regionale tendeva a trasformare i c.d. limiti esterni – che diminuiscono i
margini d’intervento normativo della Regione, senza però coprirli – in ben più
vincolanti limiti interni, in cui la disciplina dettata a livello statale va a coprire parte
dell’ambito normativo, con ciò autorizzando il legislatore statale ad interferire in varia
misura sulle materie di competenza regionale.
25
Il “regionalismo debole” veniva giustificato facendo riferimento al principio di unità
della Repubblica, paventando il rischio che una piena attuazione del principio
autonomistico potesse indebolire l’ordinamento nazionale.
25
M. PEDRAZZA GORLERO, Le fonti del diritto - Lezioni, Padova, 1995, p. 115. L’Autore distingue
anzitutto i limiti alla competenza legislativa regionale in “orizzontali” e “verticali”: i primi relativi alle
materie di legislazione concorrente, e cioè al riparto di competenze; i secondi relativi alla validità ed
efficacia delle leggi. Questi ultimi vengono poi ulteriormente distinti in “limiti esterni” e “limiti
interni”, a seconda che, rispettivamente, «i limiti verticali tolgano spazio alle materie senza regolarle
direttamente oppure entrino in esse costituendone una parte della disciplina specifica». A loro volta,
infine, i limiti esterni possono configurarsi come “limiti di legittimità” (es. limite costituzionale) o
come “limiti di merito” (es. limite dell’interesse nazionale). Si può affermare che «la tendenza a mutare
i limiti esterni in limiti interni, che, al prezzo della trasformazione del limite, realizza una cessione
parziale della sua esecuzione al destinatario di esso; la conversione dei limiti di merito in limiti di
legittimità; il pareggiamento delle diseguaglianze fra gli statuti speciali attuato dalla giurisprudenza
costituzionale, sono – tutti – fenomeni che inducono l’“appiattimento” della competenza legislativa
regionale su di un modello “duale” o ripartito, nel quale lo Stato detta, in diversa misura, la disciplina
di principio nelle materie di competenza regionale e la Regione mette in essere la legislazione di
dettaglio».
16
Tuttavia, in un ordinamento a connotazione autonomistica, i contenuti di tipo
garantistico debbono sempre essere controbilanciati con quelli collaborativo-
partecipativi. Un approccio collaborativo instaura, infatti, un rapporto dialettico fra il
centro e la periferia, impedendo una contrapposizione fra differenti livelli di governo.
26
È stato compito della Corte costituzionale calibrare la crescente spinta verso
l’autonomia delle collettività regionali, relazionandola con le spinte contrapposte ed
accentuandone l’impronta collaborativo-partecipativa. Il principio di sussidiarietà,
ricavato dall’art. 5 Cost., rafforza quest’impostazione: esso attribuisce funzioni al livello
di governo superiore soltanto nell’ipotesi in cui il livello inferiore non sia in grado di
curare gli interessi affidatigli. In generale, l’esercizio delle responsabilità pubbliche
viene allocato al livello politico di rappresentanza degli interessi più vicino ai
cittadini.
27
26
M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni, cit., p. 123: «La contaminazione fra motivi “garantistici” e
“partecipativi” nella costruzione regionalista del Costituente, lungi dunque dal “disarmare” l’autonomia
politica delle Regioni, ne ha indicato ed indica una realistica linea di progressione da contenuti
“garantistici” a contenuti “democratico-partecipativi”, facendo operare l’istanza “garantistica” in
connessione strumentale a quella “pluralistica”»; «non mi pare si possa disconoscere che la
collocazione “consecutiva” di “garantismo” e “pluralismo” nel disegno regionalistico, sia idonea a
consentire non solo la partecipazione al governo locale di tutte le forze politiche organizzate che vi
sono presenti, ma a fare degli indirizzi politici locali elaborati dalle forze politiche escluse dal Governo
centrale – eventualmente disomogenei rispetto a quello nazionale – gli elementi di una sia pur minima
dialettica politica nella quale sono conservati i semi del “pluralismo”».
27
Il principio di sussidiarietà (come attualmente inteso) trae origine positiva dal diritto comunitario,
formalmente espresso dall’art. 5, comma 2, T.C.E.: «Nei settori che non sono di sua esclusiva
competenza, la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in
cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e
possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati
meglio a livello comunitario».
Il principio di sussidiarietà era implicito anche nel diritto pubblico interno (art. 5 Cost.), con riferimento
ai diversi livelli territoriali di governo. Il nuovo art. 118, comma I, Cost. stabilisce ora espressamente
che «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio
unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».
17
Differentemente dal principio autonomistico, la sussidiarietà non può fungere da
criterio di riparto delle competenze, costituendo, piuttosto, modello d’esercizio delle
medesime. In altre parole, la sussidiarietà non opererebbe al momento dell’attribuzione
costituzionale delle competenze, ma soltanto al momento del loro concreto esercizio,
senza poterle allocare definitivamente all’uno o all’altro livello di governo. Si tratta,
dunque, di un concetto dinamico, il quale articola in modo flessibile il bilanciamento
d’interessi stabilito dall’art. 5 Cost.
L’attenzione rivolta al principio collaborativo, alla luce del quale contemperare i
diversi interessi facenti capo allo Stato e alle Regioni, ha consentito a queste ultime di
giustificare il proprio tentativo di riappropriarsi delle attribuzioni costituzionalmente
garantite, anche laddove gli interessi perseguiti non fossero territorialmente
localizzabili.
28
1.3. Principio autonomistico e “vocazione” internazionale delle Regioni. I rapporti
delle Regioni con l’ordinamento internazionale. Questioni terminologiche: a) il
concetto di “politica estera regionale”;
Dalla disciplina del potere estero regionale debbono essere tenuti distinti i rapporti
con l’ordinamento europeo. Non si tratta di una distinzione soltanto formale, giacché i
due ambiti si sono evoluti separatamente.
Quanto alle attività che comportano la partecipazione regionale al processo
d’integrazione comunitaria, già l’art. 60 della L. n. 146/1994 ne aveva sottratto la
disciplina ai vincoli previsti per le relazioni a carattere internazionalistico e, in
28
V. infra, sub par. 2.2.
18
particolare, all’obbligo di previa intesa con il Governo.
29
Oggi, a seguito dell’entrata in
vigore della L. C. n. 3/2001, i “rapporti delle Regioni con l’Unione europea”
rappresentano una “materia” autonoma, oggetto di competenza concorrente fra Stato e
Regioni.
30
In questo settore, si possono individuare due distinti livelli di svolgimento
dell’attività regionale, che sono convenzionalmente denominati “fase ascendente” e
“fase discendente” del diritto comunitario.
29
In forza dell’art. 60, comma I, L. n. 146/1994, la disposizione normativa che autorizzava le Regioni,
previa intesa con il Governo, al compimento di attività promozionali all’estero (art. 4, comma II, D.P.R.
n. 616/1977) «non si applica, per quanto riguarda l’intesa governativa, ai rapporti tra le Regioni, le
Province autonome e gli organismi comunitari, anche se tenuti in sede diversa da quella delle istituzioni
della Comunità Europea».
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V. art. 117, comma III, Cost., come modificato dalla L. C. n. 3/2001. V. altresì il comma V del
medesimo articolo: «Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e
provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea,
nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di
esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza». Sui rapporti delle Regioni con l’ordinamento
comunitario nel nuovo assetto costituzionale, v. P. BILANCIA, Regioni ed attuazione del diritto
comunitario, in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 49 ss.
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Con la locuzione “fase ascendente” si indica, in letteratura, la partecipazione delle
Regioni alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’Unione europea
31
;
con la locuzione “fase discendente”, invece, si indica la partecipazione regionale
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Le modalità di partecipazione regionale alla normazione comunitaria vengono distinte, rispettivamente,
in fase ascendente “diretta” ed una “indiretta”: la prima consente alle Regioni di presenziare
direttamente, con propri uffici o funzionari, presso le sedi delle istituzioni comunitarie; la seconda
consente ad esse di partecipare alla formazione della volontà dello Stato, che quest’ultimo sosterrà a
livello comunitario. V., in particolare, T. GROPPI, Regioni e Unione europea, in T. GROPPI e M.
OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino,
2003, p.158. Dopo aver distinto le modalità di partecipazione regionale in dirette ed indirette, l’Autrice
ne offre una schematica individuazione: «tra le prime, si può richiamare la possibilità per le Regioni di
istituire uffici di collegamento presso le istituzioni comunitarie, o la presenza di funzionari regionali
nella rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione europea. Tra le seconde, viene in rilievo
essenzialmente il ruolo svolto dalla Conferenza Stato-Regioni, e in particolare dalla sua “sessione
comunitaria”».
Il nuovo art. 117, comma V, Cost. individua in capo allo Stato un vero e proprio obbligo di determinare
in via legislativa le forme della partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti normativi
comunitari, sia diretta che indiretta: di tale obbligo si è fatto carico l’art. 5 della L. n. 131/2003. V., sul
punto, A. ALFIERI, I rapporti con le istituzioni dell’Unione Europea, in A. ALFIERI (a cura di), La
politica estera delle Regioni, Bologna, 2004, p. 125: «Viene prevista la partecipazione di esponenti
delle Regioni e delle Province autonome alle attività dei gruppi di lavoro e dei comitati in sede
comunitaria, con modalità da concordarsi in sede di Conferenza Stato-Regioni; è prevista, inoltre, la
possibilità che, nelle materie di competenza esclusiva delle Regioni, il capo della delegazione
governativa sia un Presidente di Giunta regionale. Si prevede infine che il Governo possa presentare
ricorso alla Corte di Giustizia delle Comunità europee contro gli atti normativi comunitari che ledano
gli interessi delle Regioni e delle Province autonome, anche su loro richiesta. Il Governo, inoltre, è
tenuto a proporre tale ricorso qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni a maggioranza
assoluta delle Regioni e delle Province autonome». V. altresì, sul punto, E. CRIVELLI, M. CARTABIA,
Articolo 5 (Attuazione dell’articolo 117, quinto comma, della Costituzione sulla partecipazione delle
Regioni in materia comunitaria), in P. CAVALERI, E. LAMARQUE (a cura di), L’attuazione del nuovo
Titolo V, parte II, della Costituzione. Commento alla legge “La Loggia” (Legge 5 giugno 2003, n.
131), Torino, 2004, p. 113 ss.
L’art. 5 della L. n. 11/2005 ha rafforzato i poteri della Conferenza Stato-Regioni, prevedendone
l’obbligatoria convocazione da parte del Governo ogni qualvolta «un progetto di atto normativo
comunitario riguardi una materia attribuita alla competenza legislativa delle Regioni o delle Province
autonome e una o più Regioni o Province autonome ne facciano richiesta».