Il primo capitolo si pone nella prospettiva delle imprese, per le quali le
operazioni di private equity si inseriscono nell’ampia gamma di strumenti a loro
disposizione per l’approvvigionamento delle risorse finanziarie. La scelta della
struttura finanziaria mette in evidenza una serie di problematiche sulle quali la
finanza aziendale si è a lungo dibattuta, e che vengono in sintesi ripercorse,
relativamente ai costi di agenzia, ai costi di fallimento e alle asimmetrie
informative, che determinano fenomeni di selezione avversa e azzardo morale, che
possono compromettere un trasparente rapporto di collaborazione tra investitore e
imprenditore.
Ogni fase del ciclo di vita di una impresa presenta punti critici e esigenze
finanziarie differenti: per questo l’attività di investimento nel capitale di rischio,
oggi identificata, nella sua globalità, come attività di private equity, viene suddivisa,
in funzione della tipologia di operatore che la pone in essere, tra venture capital e
private equity. Nella terminologia attualmente ricorrente, infatti, il venture capital si
riferisce al finanziamento dell’avvio di nuove imprese, mentre il private equity
comprende le operazioni di investimento realizzate in fasi del ciclo di vita successive
a quelle iniziali. In linea generale, ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda, mutando
dimensioni, esigenze e prospettive, si rende necessario un intervento diverso
dell’investitore istituzionale, soprattutto in termini di diverse combinazioni dei due
ingredienti chiave di tale attività: capitale e know how.
Le operazioni di private equity permettono alle imprese di usufruire di una
serie di benefici non soltanto finanziari, dato che l’investitore, diventando a tutti gli
effetti socio della società, apporta capitale che va a migliorare la struttura finanziaria,
ma anche consulenza nelle scelte strategiche e gestionali dell’impresa, maggiore
funzionalità della compagine sociale, maggiore visibilità sul mercato, maggiore forza
contrattuale.
Il secondo capitolo è invece dedicato alle diverse tipologie di investitori
istituzionali pronti a finanziare validi progetti imprenditoriali, che si distinguono per
la struttura giuridica e organizzativa, per le strategie di raccolta e di investimento dei
capitali e per le correlate scelte operative. Particolare attenzione sarà dedicata ai
“fondi chiusi”, in quanto, per alcune caratteristiche, si adattano a questa attività:
raccolgono capitali provenienti, tipicamente, da risparmiatori privati con più elevata
qualificazione e da investitori istituzionali orientati verso impieghi a medio-lungo
termine (fondazioni, compagnie assicurative, fondi pensione) e, in prossimità della
data di scadenza, i gestori provvedono a liquidare gli investimenti precedentemente
effettuati, per poi procedere al rimborso delle quote maggiorate dell’eventuale
rendimento.
I fondi chiusi si collocano nel mercato finanziario al fianco di altri
intermediari attivi nel settore dell'offerta del capitale di rischio alle imprese non
quotate: le società di venture capital e le merchant banks, caratterizzate dal fatto che
il patrimonio che gestiscono coincide con il patrimonio della società, i business
angels, operatori informali che rivolgono l’attenzione verso giovani imprenditori o
ricercatori bisognosi di finanziamenti, e infine i più recenti e ancora poco diffusi
fondi di fondi, che rendono possibile una collaborazione tra il sistema finanziario e
altri soggetti investitori non professionali, principalmente il settore pubblico.
L’investitore, con il suo contributo, cerca di far raggiungere all’impresa
adeguati flussi reddituali che permettano di incrementare il valore della
partecipazione e di ottenere, con lo smobilizzo della stessa, un adeguato guadagno in
conto capitale. Il suo obiettivo è infatti quello di raggiungere la miglior performance
ottenibile, il cui calcolo può essere effettuato utilizzando diverse metodologie, non
sempre univocamente accettate dalla letteratura, che si soffermano o sui risultati
dell’imprenditore o su quelli del fondo.
Entrando nel vivo di questa analisi, si analizzano perciò i diversi fattori
capaci di condizionare l’andamento dell’operazione, fattori che possono essere
distinti in due macrocategorie: da una parte quelli inerenti la capacità dell’investitore
di selezionare l’impresa target e di porre in essere condizioni contrattuali che
permettano di ridurre le asimmetrie informative, di garantire all’investitore una
ingerenza più o meno incisiva nelle decisioni strategiche, di ottenere flussi
informativi per un adeguato controllo sulla gestione; dall’altro fattori riguardanti le
caratteristiche del mercato in cui si svolge l’operazione, i canali per il
disinvestimento, l’andamento dei mercati azionari e la presenza di flussi di capitali
da convogliare verso le imprese, la normativa societaria e fiscale e l’offerta di altre
forme di finanziamento, capace di ridurre la domanda di capitale di rischio.
Sui primi fattori ci si sofferma nel terzo capitolo, nel quale si cerca di
individuare in ogni fase di sviluppo dell’operazione le problematiche cui deve far
fronte l’investitore e le possibili soluzioni per ridurre i costi, che derivano dalla
ricerca delle opportunità di investimento e dalla valutazione dell’azienda target, e gli
strumenti contrattuali per il monitoraggio dell’operazione e per la riduzione delle
asimmetrie informative. Particolare attenzione viene dedicata al ruolo
dell’imprenditore e alla comunicazione economico-finanziaria necessaria nella fase
pre e post contrattuale. Le diverse considerazioni indicate sono supportate da
ricerche empiriche effettuate sia sul mercato italiano e sia su mercato esteri, e
permettono un primo confronto a livello globale che viene approfondito nel
successivo capitolo.
Il quarto capitolo è infatti dedicato a una analisi “macro” che, ripercorrendo i
due principali filoni letterari, definisce le caratteristiche del mercato e le condizioni
ideali per lo smobilizzo della partecipazione, nonché pone a confronto l’investimento
in private equity con le altre asset class. A tal proposito si evidenzia un “puzzle”
inerente il rendimento ottenibile con un investimento in private equity e il tentativo
di individuare una correlazione tra performance e l’ammontare dei risparmi diretti.
Inoltre, si accenna ai fattori regolamentari e normativi che influiscono sulla
diffusione del capitale di rischio e guidano le scelte di investimento degli individui.
Ripercorrendo l’evoluzione normativa in Italia, ci si sofferma infine nel
quinto capitolo su alcune problematiche attuali e potenziali del nostro mercato
riguardanti le peculiarità del tessuto produttivo, compresa quella che può essere
definita la “cultura” del capitalismo familiare. L’analisi si conclude con la
presentazione dei dati forniti dall’AIFI, l’associazione di categoria italiana, che
permettono di disegnare un quadro generale del fenomeno, continuando a seguire
l’approccio seguito nel resto della trattazione, distinguendo cioè investitori
istituzionali e imprese.
Infine, il presente lavoro evidenzia alcune problematiche rimaste “aperte”, in
particolare la valutazione dell’effettiva capacità di questi operatori di costituire non
solo dei partner finanziari, ma anche dei consulenti capaci di guidare l’imprenditore
nel processo di creazione del valore della propria impresa.
CAPITOLO 1
Il private equity: aspetti teorici e scelte di finanziamento
delle imprese
1.1. Le scelte finanziarie delle imprese e gli strumenti a disposizione
L’attività di produzione di beni o servizi che viene effettuata dalle imprese
necessita di mezzi, di qualsiasi natura, con i quali esse possano svolgere questa
attività. Risulta evidente come la gran parte dei mezzi utilizzati abbia natura
finanziaria e come la loro reperibilità sia limitata e costosa. E’ in questo contesto che
acquistano dunque importanza le decisioni finanziarie
1
con le quali tutti gli
organismi produttivi si devono confrontare e che rivestono un’importanza cruciale
nella nascita e nello sviluppo di ogni tipo di impresa.
La struttura finanziaria di un’impresa è “la composizione delle risorse
monetarie che consentono l’acquisizione di fattori produttivi necessari allo
svolgimento dell’attività d’impresa: essa è influenzata sia dal tipo d’attività svolta,
che dovrà essere in grado di fornire risorse monetarie alla gestione mediante flussi
di cassa positivi, e sia dalle scelte riguardo alle molteplici fonti cui accedere
2
”. La
composizione delle risorse finanziarie concorre alla realizzazione del valore sul
piano sia dell’efficienza, minimizzando il costo e il rischio inerente al raccolta
finanziaria, e sia sul piano dell’efficacia, assicurando in modo tempestivo ed
economico il basilare afflusso di risorse.
E’ noto che le attività delle imprese assumono diverse scadenze temporali, in
particolare risultano essere a lungo o a breve termine. E’ importante quindi che le
passività destinate a finanziarle siano coerenti con la scadenza temporale delle
suddette attività. Infatti questa coerenza del ciclo temporale significa che le aziende
1
Onida P. (1993), “Economia d’azienda”, Utet.
2
Perrini F., “Innovazione, struttura finanziaria e valore d’impresa”, Economia & Management, N. 1,
Gennaio 2000, pag. 48.
possono disporre dei fondi quando necessario e dunque predisporre un piano di
rimborso in linea con l’esaurirsi del fabbisogno. Questo non deve far pensare ad una
relazione diretta tra un investimento e un finanziamento, se non in casi in cui
l’investimento in questione sia di un’importanza tale da richiedere un tipo di
controllo, soprattutto da parte dei finanziatori, particolarmente invasivo. Negli altri
casi la difficoltà oggettiva nel seguire un flusso di denaro all’interno dell’azienda da
un lato e la cosiddetta interdipendenza generalizzata che lega tutte le forme di
finanziamento dall’altro, fanno si che la suddetta relazione diretta venga a mancare.
Il finanziamento dell’impresa richiede un mix di capitale di debito e di
capitale di rischio in funzione delle caratteristiche finanziarie (per esempio la
capacità di autofinanziamento, l’indice di indebitamento e di patrimonializzazione)
proprie dei singoli stadi di sviluppo del business aziendale. Le due tipologie in
oggetto presentano ognuna caratteristiche peculiari che è bene tener presente nel
momento in cui si è chiamati ad effettuare una scelta tra le due alternative.
Il capitale ottenuto a titolo di debito rende l’impresa creditrice verso il
possessore del titolo in oggetto (sia esso un’obbligazione o un titolo avente altra
natura). Questo comporta che nel momento in cui l’impresa emette il titolo
obbligazionario promette al possessore di esso il pagamento periodico di una somma
a titolo di interesse e alla scadenza del prestito la restituzione del capitale.
Per contro, il capitale ottenuto a titolo di capitale di rischio attribuisce al
sottoscrittore la qualità di socio, il che include una serie di diritti
3
molto diversi
rispetto a quelli del creditore, primo fra tutti la possibilità di intervenire nella
gestione dell’azienda.
Questa distinzione è stata comunque oggetto di alcune precisazioni da parte di
alcuni autori
4
. Il fondamento di tale critica è basato sulla convinzione che alcuni
strumenti detti “ibridi” rendono più sfumati i contorni di una rigida classificazione: si
pensi alle azioni di risparmio (le preferred shares) che costituiscono un’articolazione
estrema del concetto stesso di azione, agli strumenti di mezzanine finance
5
, a metà
3
Per una disamina approfondita dei diritti spettanti all’azionista si veda A.A.V.V. (2004) “Il Nuovo
diritto delle società”, Giuffrè.
4
Si veda Tombari U. (2000), “Azioni di risparmio e strumenti “ibridi” partecipativi”, Giappichelli,
Torino.
5
Si tratta di strumenti ibridi che combinano il debito, per lo più subordinato, al cosiddetto equity
kicker (o sweetener), che consente al creditore mezzanine di guadagnare dall’incremento di valore del
strada tra capitale di debito e quello di rischio, alle fonti di finanziamento che
provengono dai soci stessi le quali, per la qualità soggettiva del prestatore, ricevono
spesso un trattamento “ibrido”.
In ogni caso, oltre alle differenze evidenziate poc’anzi, il ricorso al capitale di
rischio richiede un sistema di mercati, istituzioni e intermediari finanziari in grado di
mitigare le asimmetrie informative che si vengono a creare tra emittenti e investitori
e di ridurre quanto più possibile i costi di transazione relativi allo scambio dei
capitali.
L’investitore nel capitale di rischio non chiede garanzie patrimoniali, ma
sopporta una parte del rischio d’impresa come gli altri azionisti ed è interessato al
processo di creazione del valore dell’impresa per aumentare il valore della sua
partecipazione e quindi dei suoi profitti.
Il capitale di debito mostra proprietà opposte rispetto alla forma precedente:
esso è una fonte rigida di finanziamento, va restituito con schemi e tempi ben precisi
contrattualmente e va remunerato in misura predefinita, secondo un tasso d’interesse.
L’imprenditore sa, in questo caso, che la capacità di ripagare il suo debito,
sottoforma di quote capitale e interessi, è avvallata dal patrimonio aziendale e,
talvolta, dai suoi beni personali. Nel caso in cui risulti impossibile il rimborso del
prestito, l’istituto di credito può chiedere la liquidazione dell’azienda e rivalersi
sull’attivo patrimoniale per il soddisfacimento del suo credito. Le banche, in veste di
fornitori del capitale di debito, non sono direttamente interessate alla creazione del
valore dell’impresa finanziata, ma solo alla sua solvibilità finanziaria e forniscono
all’impresa consulenze di tipo accessorio e burocratico relativo al finanziamento.
E’ ben noto, tuttavia, che il ricorso all’indebitamento presenta dei limiti
fisiologici, superati i quali non è più possibile ottenere ulteriore credito, anche a
causa dell’elevato grado di rischio e della rigidità finanziaria che si accompagnano a
tali situazioni. Inoltre, in base al noto principio della leva finanziaria, vi è
convenienza economica a spingere l’indebitamento fin quando il reddito operativo
garantito dai capitali così reperiti si mantiene superiore al loro costo. Qualora, però,
le condizioni sopra ipotizzate dovessero invertirsi, e il costo dell’indebitamento
dovesse pertanto superare il rendimento dell’investimento, l’effetto-leva si
capitale di rischio. Per una trattazione più analitica, si veda Forestieri G. (2005), “Corporate and
investment banking”, Egea, Cap. 9.
trasformerebbe da positivo in negativo, causando conseguenze rovinose ad una
azienda già altamente indebitata. Con l’aumentare dell’indebitamento il costo del
capitale tende ad aumentare ulteriormente, per cui, pur potendo in una certa misura
contribuire a sostenere lo sviluppo immediato di un’impresa, ne limita fatalmente
quello futuro.
La scelta tra capitale di debito e di rischio è quindi effettuata in conformità ad
una serie d’elementi, quali la convenienza economica della fonte di finanziamento, le
implicazioni fiscali, le esigenze legate al controllo dell’impresa e la compatibilità con
l’equilibrio e la struttura finanziaria desiderata o esistente.
1.2. L’investimento in capitale di rischio: il private equity
L’esigenza di maggiori investimenti per attuare le strategie aziendali, e la
conseguente domanda di finanziamenti da parte delle imprese, trova soddisfacimento
anche nel conferimento di risorse da parte di soggetti che svolgono
professionalmente questa attività e che vengono comunemente definiti investitori
istituzionali nel capitale di rischio: questi ultimi, approvvigionandosi a loro volta di
risorse finanziarie dei privati risparmiatori o da operatori nazionali e internazionali
(banche, fondi pensione, compagnie di assicurazione), riescono a veicolare tali
risorse in partecipazioni nel capitale di rischio di quelle imprese che si prevede siano
in grado di consentire all’investitore un adeguato capital gain.
Gli investitori nel capitale di rischio
6
sono soggetti
che svolgono come
attività prevalente l’apporto di finanziamenti a titolo di capitale proprio, comunque
permanente, per l’avvio e/o lo sviluppo di imprese con un elevato potenziale di
sviluppo o per la ristrutturazione di imprese o, ancora, per la trasmissione della
proprietà, che hanno come principale obiettivo il conseguimento nel medio-lungo
termine, di capital gain per remunerare i rischi assunti
7
.
6
Secondo la definizione data dall’ EVCA (European Venture Capital Association).
7
Si veda: Bygrave W.D., Timmons J.A. (1992), “Venture capital at the Cossroad”, Harvard Business
School Press, Boston.
L’attività di investimento nel capitale di rischio, è oggi identificata, nella sua
globalità, come attività di private equity
8
, suddivisa poi, in funzione della tipologia di
operatore che la pone in essere, tra venture capital e private equity. Nella
terminologia attualmente ricorrente, il venture capital si riferisce al finanziamento
dell’avvio di nuove imprese, mentre il private equity comprende le operazioni di
investimento realizzate in fasi del ciclo di vita successive a quelle iniziali
9
.
Figura 1: Le principali categorie di investimento nel capitale di rischio
Fonte: Maggi A. I. (2005), “Un esempio di private equity nel panorama italiano”, in Amministrazione
e Finanza n.11.
8
Alcuni economisti hanno definito questi operatori “consulenti con un interesse finanziario”: si veda
Fried V.UH., Hirsrich R.D. (1994), “Towards a model of venture capital investment decision
making”, Financial Management, Vol.23/3.
9
In Europa è stata ampliamente dibattuta in sede di Associazioni Nazionali di Venture Capital e di
EVCA l’opportunità di definire l’attività come “venture capital” o piuttosto, dato l’ampliamento delle
tipologie delle operazioni che rientrano sotto questa etichetta e che rappresentano una naturale
evoluzione del settore, sia meglio parlare di “private equity”. Per ulteriori precisazioni in merito alle
definizioni adottate da EVCA si veda EVCA (2000), “Priorities for Private Equity”, White Paper,
Zavantem.
AVVIO
Seed financing
SVILUPPO
Second stage financing
Third stage financing
Fourth stage financing
Cluster venture
CAMBIAMENTO
Replacement capital
LBO/MBO
Turnoround financing
Private
Equity
Venture
Capital
Un operatore di private equity si pone come obiettivo quello di identificare sul
mercato imprese che presentino buone prospettive in termini di crescita e opportunità
di business. Lo scopo è quello di fornire loro i capitali e il know how necessari per
mettere in atto i piani strategici. Grazie a questo apporto l’impresa è in grado di dar
vita ai propri progetti e allo stesso tempo, crescendo e sviluppandosi, garantisce
all’operatore istituzionale che ha posto in essere l’operazione la realizzazione, nel
medio-lungo termine, di un adeguato guadagno attraverso la cessione della
partecipazione acquisita.
Questo tipo di attività nacque negli Stati Uniti durante gli anni ’40, quando
cominciarono a comparire sul mercato i primi operatori specializzati
nell’investimento in capitale di rischio
10
. Secondo molti, il primo vero operatore
istituzionale di private equity e venture capital nacque a Boston nel 1946: l’American
Research & Development Corporation. Inizialmente i capitali a disposizione erano
rappresentati da conferimenti di privati interessati al business, solo successivamente
anche operatori istituzionali come banche, fondi pensione e altre istituzioni
cominciarono a destinare parte delle proprie dotazioni a questa tipologia di
investimento.
In linea generale, ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda, mutando
dimensioni, esigenze e prospettive, si rende necessario un intervento diverso
dell’investitore istituzionale, soprattutto in termini di diverse combinazioni dei due
ingredienti chiave di tale attività: capitale e know how.
A queste considerazioni è riconducibile la più classica e diffusa
segmentazione del mercato del capitale di rischio, le cui categorie, seppur con
minimi adattamenti, sono internazionalmente adottate dagli operatori, dalle
associazioni e dai centri di ricerca
11
(sinteticamente espressa nella tabella 1):
10
Si potrebbe ritenere che la prima e più importante “capitalista di ventura” fu la regina Isabella di
Castiglia, che nel 1492, finanziò il rischio della spedizione che portò Colombo a scoprire le Americhe.
Tuttavia, è solo nel secondo dopoguerra che si è iniziato a parlare di quelle operazioni di
finanziamento che noi oggi definiamo venture capital.
11
Si veda Pratt S.E. (1980), “How to rise venture capital” , Charles Scribner’s Sons, New York;
AIFI (1999), “Capitali per lo sviluppo - 6˚ rapporto biennale 1997-98”, Guerini e Associati.