guida il FAI, Fondazione privata senza scopo di lucro, nella sua attività di tutela,
restauro, conservazione e gestione dei beni storici, artistici e naturalistici, ricevuti per
donazione, lascito testamentario o in comodato; molte sono le iniziative, mostre,
giornate a tema, incontri, concerti, ecc., organizzate dalle Delegazioni provinciali nelle
Proprietà, per restituire loro l’originario calore e avvicinare alla cultura, in modo
divertente e insolito, quante più persone possibili, di varia età e di ogni estrazione
sociale. Tutto ciò è reso possibile dai generosi finanziamenti che il FAI riceve dagli
sponsor, in massima parte privati (privati cittadini, imprese e fondazioni bancarie),
amanti della cultura e interessati al ritorno d’immagine associato a tale investimento; a
supporto di questa imponente macchina organizzativa sono messi in atto numerosi
strumenti di comunicazione, quali cartelloni pubblicitari, manifesti, annunci televisivi e
radiofonici, quotidiani e periodici, e, di recente introduzione, il sito WEB.
Il terzo capitolo considera, innanzitutto, l’informazione come risorsa economica e le
imperfezioni (incompletezza, incertezza e asimmetria) che caratterizzano la struttura
informativa della maggior parte dei mercati. La comunicazione, intesa come tutte quelle
attività aventi l’informazione come input e output del processo, permette di reagire a tali
imperfezioni: si analizza la segnalazione, come attività di diffusione di informazione
rilevante da parte dell’agente più (o meglio) informato, e, in particolare, la reputazione,
un segnale forte con cui comunicare qualità e affidabilità all’agente in difetto di
informazioni. Una reputazione positiva infonde fiducia negli interlocutori e ne è
ulteriormente rafforzata, ogniqualvolta l’interazione si dimostra all’altezza delle
aspettative; da qui, il concetto di reputazione come capitale, una risorsa immateriale alla
cui accumulazione l’impresa dedica anni di comportamenti onesti, sostenuti da onerosi
investimenti in comunicazione aziendale, con ritorni positivi nel lungo periodo.
Il quarto capitolo, infine, riguarda il rapporto tra reputazione e aziende non profit, e
mette in luce la validità della reputazione stessa quale segnale di una gestione efficiente
ed efficace; in questo contesto si colloca il FAI, il cui nome è oggi garanzia di impegno,
affidabilità e qualità nella tutela e salvaguardia dei beni culturali e ambientali. A
conclusione della tesi, si dimostra come il FAI, grazie alla sua ottima reputazione,
sappia attivare e mantenere relazioni durature con quattro categorie diverse di
interlocutori, i donatori, gli aderenti, gli sponsor e i volontari, ciascuno apportatore di
risorse a vario titolo imprescindibili per l’esistenza stessa della Fondazione.
1. I beni culturali nella scienza economica
1.1 L’interesse dell’economia per l’arte e la cultura
L’economia della cultura e dell’arte rappresenta una branca importante della disciplina
economica. Le fondamenta risalgono all’economia classica e neoclassica (Marshall
1
,
Smith
2
), ma solo di recente i contributi si sono moltiplicati e arricchiti, in parallelo con
la crescente attenzione alle tematiche della tutela e della conservazione del patrimonio
artistico e naturalistico.
L’economista è interessato ad individuare i meccanismi e gli effetti economici che
operano nel settore dei beni culturali, un settore a prima vista lontano dal tradizionale
ambito di analisi dell’economia. In effetti, da un lato, sono numerose le critiche alla
generalità ed inadeguatezza del paradigma economico, definito da alcuni “imperialismo
economico”, quando applicato alle aree più diverse; dall’altro però è innegabile come da
un po’ di tempo gli stessi operatori del settore si stiano avvicinando all’economia della
cultura, mettendo da parte il preconcetto per cui l’economista, con il suo apparato
scientifico, non sia in grado di indagare le emozioni del mondo dell’arte e della cultura.
1
Marshall, in Pennisi, 1986
2
Smith, in Pennisi, 1986
In linea generale l’economia della cultura ha due campi d’analisi: il primo riguarda le
attività spettacolistiche (un festival di musica, uno spettacolo teatrale, la proiezione di
una pellicola cinematografica, ecc.), il secondo i beni culturali. La distinzione si articola
principalmente sulla base delle caratteristiche che il bene culturale deve possedere per
essere definito tale: innanzitutto esso deve costituire un documento storico di civiltà ed
avere una connotazione materiale. Questo non è però sufficiente a decretare la natura
culturale di un bene: basti pensare, a titolo d’esempio, ai prodotti della speculazione
edilizia che, pur soddisfacendo entrambe le condizioni, difficilmente sarebbero
considerati beni culturali. Emergono poi anche altre ambiguità: non è possibile cogliere
la dimensione materiale nella recitazione di un canto della Divina Commedia, sebbene
ne sia indubbia la testimonianza storica; allo stesso modo, un cd che riproduce le
sinfonie di un celebre compositore del passato non deriva alcuna valenza culturale dalla
sua connotazione materiale.
E’ necessario quindi fare un’ulteriore restrizione, introducendo il concetto di non
riproducibilità
3
: così, la musica registrata su cd non rappresenta un bene culturale
mentre lo è lo spartito originario della composizione. Infine, oltre a queste tre
caratteristiche (la testimonianza storica, la materialità e la non riproducibilità)
determinanti sono i giudizi di valore, generalmente espressi da una élite ristretta di
esperti, in funzione dei quali un bene è definitivamente considerato ‘bene culturale’.
Beni culturali e attività spettacolistiche pongono ovviamente problemi diversi
all’economista, inerenti principalmente l’allocazione delle risorse, pubbliche e/o private,
per la conservazione e la tutela dei primi, e la gestione con fine di lucro delle seconde
4
.
3
Di Maio, 1999
4
Di Maio, 1999
In sintesi, beni culturali ed attività culturali presentano caratteristiche economiche simili
che ne motivano l’accorpamento in un’unica branca di studio dell’economia, tuttavia è
importante mantenerli separati per le nette distinzioni esistenti. L’economia della
cultura si è occupata soprattutto delle attività spettacolistiche che invece non saranno
esplorate in questa trattazione.
E’ solo negli anni settanta che si afferma il concetto di bene culturale, inteso come
documento significativo della storia della civiltà e del costume, apprezzato per la sua
utilità sociale, meritevole di tutela, di conservazione e della più estesa fruibilità. Fino ad
allora si era fatto riferimento alla legge n. 1089/39 che parlava genericamente di
“bellezze naturali” e di “cose di interesse artistico”, privilegiando cioè la dimensione
estetica. Nel 1974 il processo di unificazione della politica dei beni culturali culmina
con la costituzione del Ministero per i Beni culturali ed ambientali per la conservazione,
la tutela, la catalogazione, la valorizzazione e la gestione degli stessi, prima competenza
esclusiva del Ministero della Pubblica Istruzione; tale processo ha comportato
l’affermazione di nuovi orientamenti nelle politiche culturali e la ridefinizione del suo
oggetto.
Negli anni ottanta il concetto di bene culturale si arricchisce di ulteriori significati ed
emerge per la prima volta un approccio di tipo economico: il bene culturale è qualificato
come “bene economico produttivo”, un bene cioè che può essere oggetto di
investimento pubblico e che, se correttamente valorizzato, può anche produrre reddito
(se non altro, in termini di indotto); così all’esigenza conservativa è affiancata
l’importanza della valorizzazione del patrimonio artistico - naturalistico nell’ottica di un
“uso produttivo” dei beni in questione.
Nel 1990 la legge n. 84, oltre a definire i beni culturali “rilevante testimonianza della
storia della civiltà e della cultura”, li riconosce quali “elementi costitutivi della identità
culturale della Nazione” (art.3), contribuendo a ribadire l’importanza degli stessi e
dell’intervento a favore della loro conservazione.
Oggi, come già anticipato, non sono più solo gli specialisti di settore, storici dell’arte,
archeologi, architetti e urbanisti, ad occuparsi dei beni culturali; gli operatori economici,
gli amministratori locali, i media, in generale tutta l’opinione pubblica è molto più
sensibile ed attenta a questa tematica, consapevole del valore simbolico, storico -
artistico, economico e sociale di questi beni.
In questo contesto si inserisce l’approccio degli economisti a tutto ciò che è arte e
cultura. Un ponte tra i due mondi apparentemente così lontani e inconciliabili della
cultura e dell’economia è costituito dal concetto di capitale culturale
5
, un’espressione
utilizzata in sociologia per descrivere certe caratteristiche degli individui che,
chiaramente con un’accezione diversa, si sta facendo strada anche tra gli economisti.
L’analisi economica identifica tradizionalmente tre forme di capitale: fisico, umano e
naturale. Fin dai suoi inizi l’economia si è occupata di capitale fisico, riferendosi con
questo termine ad impianti, macchinari, ecc. necessari per la produzione di altri beni.
Un secondo tipo di capitale, il capitale umano, consiste nell’insieme di competenze
proprie delle persone ed è ormai assodato come nel processo produttivo il ruolo delle
‘risorse umane’, con il loro bagaglio di conoscenze ed esperienza accumulate, sia di pari
importanza rispetto al capitale fisico. Più recentemente è stata introdotta una terza forma
di capitale, il capitale naturale, costituito dalle risorse rinnovabili e non rinnovabili
5
Throsby, 2001
presenti in natura; la natura, la terra in particolare, è sempre stata considerata un fattore
primario di produzione, in realtà, però, è solo con la nascita di nuove discipline, come
l’economia dell’ecologia, e la maggiore attenzione agli effetti delle problematiche
ambientali sull’attività economica che si è giunti ad un’analisi formale del capitale
naturale. Il capitale culturale è il quarto tipo di capitale, chiaramente distinguibile dalle
altre tre forme. Possiamo parlare di capitale culturale in forma tangibile oppure
intangibile: i palazzi storici, le opere d’arte quali dipinti e sculture, i monumenti
appartengono alla prima categoria, come il capitale fisico sono prodotti dell’attività
umana destinati a durare per un certo tempo e che, se trascurati, vanno incontro a
decadenza. Di qui la necessità di intervenire a favore della loro conservazione e di
tutelarne il valore culturale, qualunque sia il valore economico; i due valori sono
determinati in modo indipendente l’uno dall’altro, ma per alcuni beni esiste una
relazione di tipo causale per cui, nel caso ad esempio di un dipinto, è il contenuto
culturale a determinarne il valore economico, altrimenti limitato se si considerano
solamente i componenti materiali (qualche pezzo di legno e i colori). Approfondiremo
comunque meglio più avanti il discorso del valore dei beni culturali.
La seconda categoria riguarda il capitale culturale intangibile: questo, sempre
accogliendo la tesi di Throsby, si manifesta come capitale intellettuale a livello di idee,
pratiche, credi e valori condivisi da un gruppo, come anche sotto forma di lavori
musicali o letterari.
In conclusione, il concetto di capitale culturale è definibile come uno stock di valore
culturale incorporato in un bene e consente dunque di riflettere sul patrimonio sia in
termini economici che culturali.
Alla luce di quanto detto finora appare un po’ più chiaro come l’applicazione dei
teoremi economici all’analisi dei fenomeni artistici e culturali non debba essere intesa
come un’invasione nel campo di altre discipline, ma possa anzi costituire un valido
strumento per una conoscenza più approfondita e completa di tale realtà.
1.2 Beni semipubblici
I beni e i servizi oggetto di attività produttiva possono essere classificati in base ad
un’ampia varietà di criteri ordinatori; ai fini di questa trattazione sono particolarmente
rilevanti due criteri, escludibilità e rivalità, che permettono di ragionare sulla natura
pubblica o privata dei beni.
La prima nozione, l’escludibilità, si riferisce alla possibilità di precludere ad alcuni
utenti il godimento del bene/servizio e i benefici ad esso collegati, sulla base della
disponibilità a pagare oppure attraverso appositi meccanismi. E’ possibile ad esempio
escludere gli individui dalla fruizione di uno spettacolo cinematografico semplicemente
sistemando qualcuno all’ingresso della sala con il compito di buttare fuori tutti coloro
che non esibiscono il biglietto, come in genere è sufficiente una catena con un lucchetto
ad assicurarci dal fatto che nessuno andrà in giro con la nostra bicicletta mentre noi
guardiamo la TV.
L’altro criterio è quello della rivalità: un bene si definisce rivale quando l’uso da parte
di un agente impedisce ad un altro di consumarlo a sua volta. La maggior parte dei beni
fisici hanno questa caratteristica: il fatto che io mangi una mela o guidi un’automobile
esclude che la stesse possano essere contemporaneamente utilizzate da qualcun altro.
La simultanea presenza di entrambe le caratteristiche definisce la natura privata di un
bene ed ha implicazioni particolarmente rilevanti, nel senso che pone le condizioni per
la formazione di un mercato: “da un lato, il fatto che il bene sia escludibile permette di
condizionare il suo trasferimento all’effettuazione di una prestazione corrispettiva;
dall’altro, se il consumo del bene da parte di un individuo esclude la possibilità di
consumo da parte degli altri, coloro che vogliono consumarlo dovranno assicurarsene il
possesso imponendosi alla concorrenza, vale a dire offrendo ai venditori prezzi più alti
degli altri potenziali acquirenti”
6
.
I consumatori attraverso le loro offerte rivelano quanto
effettivamente sono disposti a pagare per entrare in possesso del bene, e se tale
disponibilità è superiore o almeno uguale ai costi necessari per produrlo, le imprese
saranno evidentemente incentivate ad avviare l’attività di produzione.
NON
ESCLUDIBILE
ESCLUDIBILE
NON RIVALE
Beni pubblici puri
(difesa, polizia, tutela
ambientale)
Beni “club”
(spettacoli teatrali e
sportivi, TV via cavo)
RIVALE
Beni pubblici
spuri
(beni culturali)
Beni privati
puri
(mele, automobili)
Figura 1.1- CLASSIFICAZIONE DEI BENI E SERVIZI OGGETTO DI ATTIVITÀ DI PRODUZIONE
Nella letteratura economica si fa invece riferimento ai beni e servizi caratterizzati da
impossibilità di esclusione con l’espressione beni pubblici, puri o spuri a seconda che il
grado di rivalità sia nullo o assoluto; alla prima classe appartiene ad esempio
l’illuminazione stradale (tant’è vero che tutti ne usufruiscono e il numero degli utenti
non incide sulla sua utilità), alla seconda i beni culturali. I beni pubblici spuri, detti
anche beni semipubblici, sono beni o servizi soggetti a congestione, dai quali cioè non è
possibile escludere nessuno, ma che hanno una capacità limitata per cui un numero
eccessivo di utenti genera rivalità.
6
Musella – D’Acunto, 2000
E’ questo il caso di molti beni culturali, sia mobili sia immobili: la Pietà Rondanini di
Michelangelo, conservata presso il Castello Sforzesco di Milano, è collocata in modo
tale che solo un ristretto numero di visitatori possa ammirarla nello stesso momento,
sistemata com’è all’interno di una struttura semicilindrica delimitata anteriormente da
una sbarra; lo stesso dicasi per i due grandi affreschi della Guerra e della Pace, eseguiti
da Picasso nel 1952 per la cappella di Vallauris o, passando ad un contesto storico -
artistico completamente diverso, per il Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. Qui, oltre
alla capienza limitata del sito, interviene anche il fattore tempo, dovuto alla necessità di
un graduale adattamento della percezione visiva, nel passaggio dalla luminosità
dell’esterno alla penombra interna.
Ancora più complessa, e al tempo stesso limitata, è la visita alle tombe affrescate della
necropoli etrusca di Tarquinia (Viterbo): una doppia scala porta all’ingresso della
camera funeraria, chiusa da un vetro davanti al quale possono stazionare fisicamente
pochissime persone e, nei giorni di massima affluenza, per un brevissimo lasso di
tempo.
Alcuni dei monumenti più importanti del nostro paese sono invece da considerarsi a
tutti gli effetti beni pubblici, perché chiunque può goderne la visita e la fruizione
individuale non risente del numero di soggetti presenti contemporaneamente. L’Arena
di Verona e Piazza dei Miracoli a Pisa fanno sicuramente parte di questa categoria,
come anche gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano e Piazza San Marco a
Venezia, in quanto le dimensioni dei siti sono tali che anche in caso di sovraffollamento
si evita il problema della rivalità nel consumo; ciò nonostante è evidente come una
presenza numericamente più ristretta di persone permetta una migliore fruizione del
bene.
Nel caso in cui venga meno la caratteristica della rivalità nel consumo, “il meccanismo
di fornitura basato sul mercato va soggetto ad alcune peculiari anomalie, note appunto
come fallimenti del mercato”
7
. Se, oltre alla rivalità, viene meno anche la caratteristica
dell’escludibilità, il funzionamento di tale meccanismo diventa tecnicamente
impossibile; infatti, gli operatori privati saranno disincentivati a produrre tali beni (beni
pubblici, appunto), dal momento che non possono escludere i terzi dal loro godimento
né imporre un prezzo a coloro che volessero usufruirne, e quindi recuperarne i costi.
Dal punto di vista economico, i beni culturali, beni unici e non riproducibili, sono, come
ho già avuto modo di dire, beni semipubblici: essi, e lo vedremo meglio più avanti,
“generano esternalità, un prestigio per la nazione, effetti sul turismo, sono veicolo di
valori comuni e contribuiscono a forgiare l’identità nazionale”
8
; questi caratteri di bene
collettivo
9
e meritorio
10
giustificano l’intervento dello Stato quale garante della
trasmissione del patrimonio artistico - storico - naturalistico alle generazioni future.
Il settore artistico e culturale è strutturalmente in condizioni di deficit, contraddistinto
com’è da uno squilibrio permanente tra costi e ricavi che impedisce di raggiungere
l’equilibrio economico. Alcuni studiosi
11
riconducono tale squilibrio ad una specifica
condizione del settore e cioè alla rigidità della funzione di produzione; mentre, ad
esempio, nel settore industriale o televisivo il progresso tecnico permette di rendere più
7
Musella – D’Acunto, 2000
8
Benhamou, 2000
9
Weisbrod, in Musella – D’Acunto, 2000
10
Musgrave, in Morelli, 2002
11
Baumol – Bowen, 1966
efficiente la produzione e di avere costi medi decrescenti nel lungo periodo, il settore
culturale (in particolare le performing arts), affetto dal cosiddetto “morbo di Baumol e
Bowen”, è considerato dagli economisti tecnologicamente non progressivo e
caratterizzato da una produttività media del fattore lavoro costante nel tempo.
“Si considerino le diverse funzioni di produzione:
Y
1t
= aL
1t
, per il settore non progressivo (ad es., il settore teatrale)
dove Y
1t
= output complessivo del settore non progressivo; a = output ottenuto da
un’unità di lavoro impiegata nel settore 1 al tempo t ed L
1t
= quantità di lavoro
impiegata nel settore 1 al tempo t;
Y
2t
= be
rt
L
2t
, per il settore progressivo (ad es., il settore industriale)
dove Y
2t
= output complessivo del settore progressivo; b = output ottenuto da un’unità
di lavoro impiegata nel settore 2 al tempo t, e
rt
= fattore di crescita, r = tasso di crescita
unitario della produttività, e t = tempo”
12
.
La produttività media del fattore lavoro è nei due settori pari a:
PMeL
1
= Y
1t
/ L
1t
= aL
1t
/ L
1t
= a;
PMeL
2
= Y
2t
/ L
2t
= be
rt
L
2t
/ L
2t
= be
rt
In effetti, questa “legge della crescita bilanciata”, conosciuta anche come “morbo di
Baumol e Bowen”, è formulata in relazione alle arti dello spettacolo dal vivo, quelle che
12
Besana, 1996
inizialmente abbiamo definito attività spettacolistiche (spettacoli teatrali, concerti
musicali); per il consumo di beni culturali così come li abbiamo intesi finora, non
esistendo contestualità tra produzione e consumo, evidentemente la legge assume una
rilevanza minore.
Resta il fatto comunque che il settore è caratterizzato dall’aumento dei costi e da un
sempre crescente fabbisogno finanziario, in particolare con riferimento alle attività di
conservazione del patrimonio, un fabbisogno che è tanto più elevato quanto più si
degrada il patrimonio e ciò avviene tanto più velocemente quanto più quest’ultimo è
visitato.
In Italia la gestione dei beni culturali è prevalentemente pubblica; lo Stato interviene per
correggere il funzionamento del mercato, riconoscendo l’importanza sociale ed
economica dell’arte e della cultura e l’incapacità del mercato di produrla
efficientemente o di utilizzare appieno il patrimonio esistente. Recentemente però la
cultura sta riattivando anche l’interesse dei privati; questo accade sia in ragione del
passaggio di competenze dallo Stato ad altri nella gestione dei patrimoni culturali,
che per la presa di coscienza del fatto che la cultura costituisce una delle possibili
destinazioni del tempo libero dei cittadini e, quindi, una delle possibili destinazioni del
loro denaro.
Per “privati” si intendono le associazioni, le fondazioni, le imprese o i semplici
cittadini, tutte categorie che possono contribuire al settore culturale con vari
apporti. Tra questi, il settore non profit sta vivendo negli ultimi anni una crescita
eccezionale; vedremo in modo più approfondito nei prossimi capitoli le peculiarità di
questo comparto dell’economia e il suo rapporto con il mondo della cultura.