1
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELL’ISTITUTO
DELL’ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE
1. DAL CODICE CIVILE DEL 1942 ALLA RIFORMA DEL DIRITTO DI
FAMIGLIA
Dalla promulgazione del codice civile nel 1942 ad oggi, il diritto di famiglia
ha subito numerosi ritocchi e riforme causati dall’evoluzione storica e sociale.
Il libro primo “Delle persone e della famiglia”, entrato in vigore nel 1939
separatamente dai restanti libri, ricalca per molti aspetti il codice del 1865, anche se
l’idea di famiglia trasfusa al suo interno è intrisa dei valori fondamentali che si
respiravano in quel momento storico. Concordemente con la visione fascista, viene
data grande importanza all’istituzione famiglia e alla sua gerarchizzazione interna. In
relazione ai rapporti tra coniugi c’è una completa sottomissione della donna al
marito; in particolare l’art. 144 del codice civile disciplinava la potestà maritale,
secondo la quale il marito era il capo della famiglia, la moglie seguiva la condizione
civile di lui, ne assumeva il cognome ed era obbligata a seguirlo ovunque il coniuge
avesse fissato la residenza. La disuguaglianza tra moglie e marito si ha anche in caso
di separazione personale, che era strutturata sul principio della colpa ma che vedeva
atteggiarsi in modo diverso le singole cause a seconda di chi le avesse poste in
essere. Ad esempio non costituiva causa di separazione l’adulterio del marito, se non
nel caso in cui la violazione dell’obbligo di fedeltà avesse costituito ingiuria grave
nei confronti della moglie.
Solo con la Costituzione repubblicana vi è stata “la sostituzione della
concezione gerarchica della famiglia, accentrata nella figura del suo capo, con la
famiglia improntata al governo collegiale”
1
.
1
Gianpaolo Frezza, I luoghi della famiglia, Torino, Giappichelli, 2004, p.72.
2
La Costituzione all’art. 29 statuisce :
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio.
2. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi con i
limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.”
Norma che non comportò la dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norme che prevedevano una disparità di trattamento tra uomo e donna, in quanto
venivano fatti salvi i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Per raggiungere un’uguaglianza tra marito e moglie sancita a livello di
legislazione ordinaria furono necessari trent’anni circa: solo nel 1975 con la c.d.
“Riforma del diritto di famiglia” venne sancito che con il matrimonio i coniugi
acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri e si assisté ad una sorta di
privatizzazione della famiglia, con la tutela dei singoli componenti della comunità
domestica e non solo come nucleo di per sé considerato.
Un cenno di cambiamento e di equiparazione tra moglie e marito si ebbe
anche sotto il profilo della residenza della famiglia
2
, termine che molte volte viene
usato come sinonimo di casa familiare, per la quale non esiste una definizione
legislativa. Essa costituisce un importante punto di riferimento di carattere
psicologico, nonché materiale, per la famiglia, come si evince dalle connotazioni
della locuzione “focolare domestico”, non estranea a tanta letteratura.
Con l’entrata in vigore della legge n. 151/1975 si è modificato profondamente
il diritto di famiglia italiano ancorato ancora ai principi della codificazione
napoleonica. Si è passati, all’indomani dell’entrata in vigore della legge, da un
regime che prevedeva la possibilità di chiedere la separazione personale ancorato al
principio della colpa alla possibilità di separazione subordinata solo al semplice
verificarsi di “fatti tali da rendere intollerabile la convivenza o da recar grave
pregiudizio alla educazione della prole”, come sancito dall’art. 151 del codice civile.
Non secondarie sono le altre modifiche apportata dalla Riforma: l’introduzione della
comunione dei beni come regime legale, la regolamentazione dell’impresa familiare,
2
Gianpaolo Frezza, op. cit., p. 72 ss., il quale nell’opera cerca di definire e distinguere la residenza
della famiglia dalla casa familiare, in quanto i termini indicano due fenomeni giuridici distinti, come
verrà approfondito nel paragrafo relativo alla nozione di casa familiare.
3
l’equiparazione tra la filiazione legittima e naturale e innovazioni in tema di azioni di
stato, come l’azione di disconoscimento della paternità, oppure di dichiarazione
giudiziale di paternità.
Sotto il profilo di nostro interesse, si passa da un obbligo imposto alla moglie
di seguire il marito ovunque egli avesse fissato la residenza, all’accordo congiunto
dei coniugi su questa.
Al pari di altri istituti anche la disciplina relativa all’assegnazione della casa
familiare cambiò fino ad ottenere la fisionomia attuale. Al codice del 1942 era
sconosciuto l’istituto in questione, in quanto sotteso al codice c’era la concezione
della sacralità della proprietà privata
3
. Anche se con l’entrata in vigore del codice
civile del 1942 il baricentro del sistema normativo si era spostato dalla proprietà
privata al contratto e all’impresa, rivestiva ancora notevole importanza la tutela della
proprietà privata. Non era pensabile spogliare il legittimo proprietario a favore di un
altro soggetto che non vantasse nessun diritto sul bene.
L’istituto in esame costituisce una misura di tutela della prole, diretta ad
evitare ai figli l'ulteriore trauma di un allontanamento dall'abituale ambiente di vita e
di aggregazione di sentimenti. Strumento utilizzato per la tutela dei figli fin dalle
prime applicazioni giurisprudenziali, come si evince dalla sentenza della Cassazione
n. 3777 del 1978, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Solo con la riforma del diritto di famiglia fu possibile l’assegnazione della
casa familiare in sede di separazione; infatti, il riformato art. 155 c.c., concernente i
provvedimenti relativi ai figli, statuiva al quarto comma: “L’abitazione nella casa
familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge a cui vengono affidati i
figli”.
Precedentemente alla legge 19 maggio 1975 n. 151 nemmeno la
giurisprudenza maggioritaria ammetteva il diritto del coniuge non proprietario o
titolare del rapporto locatizio di continuare ad occupare l’alloggio
4
, in quanto i
3
Gianpaolo Frezza, op .cit., p.130. in cui a seguito dell’analisi storica effettuata l’A. dimostra che “ il
primo codice dell’Italia unita (datato 1865) – ispirato come è noto, al valore statico della proprietà – e
quello del 1942 – assiologicamnte afferente al valore dell’impresa, o, forse meglio, ad una concezione
dinamica della proprietà – non contenessero alcune disposizione in ordine all’assegnazione della (già)
casa di abitazione, nelle fasi patologiche della vita familiare”.
4
Laura Anna Marchiondelli, L’assegnazione della casa familiare quale strumento di tutela dei figli di
entrambi i coniugi, in Famiglia e diritto, 2008, p.243.
4
giudici seguivano il c.d. criterio della titolarità
5
. Parte della giurisprudenza rendeva
possibile l’assegnazione grazie al presupposto che sussistesse in capo alla famiglia,
nel suo complesso, un diritto sull’immobile oggetto di assegnazione
6
. Anche alcuni
esponenti della dottrina cercavano di individuare un criterio per rendere possibile
l’assegnazione della casa familiare attraverso la lettura coordinata degli artt. 156,
primo comma, 145, 147, legando, quindi, l’istituto al diritto al mantenimento.
Con l’emanazione di una norma ad hoc i problemi relativi all’ammissibilità
dell’assegnazione della casa familiare furono risolti, ma dottrina e giurisprudenza si
trovarono ben presto a doverne affrontare degli altri, come quello relativo ai criteri
per l’assegnazione, che videro contrapporsi i fautori della teoria restrittiva e i
sostenitori della tesi estensiva, che erano favorevoli all’applicazione dell’istituto
anche in assenza di prole
7
.
La disciplina dell’assegnazione della casa familiare era applicabile solo in
caso di separazione.
La giurisprudenza e la dottrina cercarono di dare soluzione al problema che si
era prospettato a seguito della mancanza di disciplina in caso di scioglimento del
matrimonio. Si formarono così due orientamenti contrapposti
8
: un primo
orientamento minoritario, riteneva non applicabile al divorzio l’art. 155 c.c., quarto
comma, in quanto ritenuto norma eccezionale e istituto avente carattere assistenziale,
che si scontrava con lo scioglimento del matrimonio e quindi con l’estinzione dei
diritti e doveri derivanti dal rapporto di coniugio.
Nel caso di divorzio, secondo la disciplina legale, il giudice poteva solamente
determinare un assegno da corrispondere al coniuge avente diritto. Era esclusa la
possibilità dell’assegnazione della casa familiare all’ex coniuge che non fosse titolare
di diritto reale sulla stessa, oppure titolare di un diritto personale di godimento.
L’orientamento giurisprudenziale maggioritario riconosceva l’applicabilità
dell’istituto dell’assegnazione della casa familiare anche in caso di divorzio.
5
Gianpaolo Frezza, op. cit., p.131.
6
Laura Anna Marchiondelli, op. cit., p.243 ss.; Gianpaolo Frezza, op. cit., p.132 nt. 8.
7
Vedi infra cap II.
8
Gabriella Contiero, L’ assegnazione della casa coniugale: separazione, divorzio, convivenza more
uxorio: dalla riforma del diritto di famiglia alla legge sull’affido condiviso, Milano, Giuffrè, 2007,p.
27 ss.
5
Opinione confermata dalla Cassazione nella sentenza n. 578 del 1985
9
, ove si
afferma che l'attribuzione dell'abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario
dei figli trova applicazione anche nell'ipotesi di scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio. I giudici di legittimità evidenziano che la norma relativa
all’assegnazione della casa familiare rientra fra quelle richiamate dall'art. 12 l. 1
dicembre 1970 n. 898; richiamo effettuato con un rinvio di natura non recettizia,
implicante, quindi, l'operatività pure delle posteriori modifiche della disposizione
richiamata. Inoltre, la norma in questione è rivolta a tutelare gli interessi dei figli
minorenni, interessi presenti in egual misura sia in caso di separazione che di
divorzio.
Nello stesso senso sembrava deporre la volontà del legislatore che nel
disciplinare le sorti del contratto di locazione equipara separazione e divorzio. La
legge 27 luglio 1978 n. 392, la c.d. legge sull’equo canone, all’art. 6, secondo
comma, stabilisce la successione nel contratto di locazione del coniuge assegnatario
all’altro coniuge, originario titolare, se così è stabilito dal giudice.
Solo nel 1987, con la legge del 6 marzo 1987 n.74 venne introdotta nel nostro
ordinamento la disciplina relativa all’assegnazione della casa familiare in tema di
scioglimento del matrimonio. In precedenza la Corte di Cassazione aveva espresso il
loro orientamento circa l’applicabilità della disciplina dell’assegnazione, prevista in
materia di separazione personale dei coniugi anche in caso di divorzio
10
.
2. (segue) L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE SUL DIVORZIO
Il vuoto normativo in caso di scioglimento del matrimonio aveva provocato
un grande contrasto giurisprudenziale circa l’applicabilità o meno dell’art. 155 c.c.,
nella parte relativa all’assegnazione della casa familiare, nell’ipotesi di divorzio. I
giudici di legittimità espressero il loro orientamento nella sentenza n. 4089 del 1987
a sezioni unite. Nel caso di specie il Tribunale di primo grado aveva affidato la figlia
nata dal matrimonio alla madre e conseguentemente assegnato l’immobile adibito a
9
Cass. 85/878.
10
Cass., sez. un., 87/4089.
6
casa familiare a quest’ultima, che non vantava nessun diritto reale o personale di
godimento sullo stesso, essendo l’abitazione di proprietà esclusiva del marito. Il
Tribunale di secondo grado, riformando la sentenza, revocava l’assegnazione e
ordinava il rilascio dell’immobile. La ricorrente faceva, quindi, ricorso in
Cassazione.
La Corte analizzando i motivi del ricorso accoglieva le doglianze della
ricorrente e, stabilendo un principio di diritto, cassava la sentenza rinviandola ad
altra sezione della Corte d’Appello di Roma per la nuova decisione.
In particolare la Corte pose l’accento sul carattere non recettizio del rinvio
dell’art. 12, legge 12 dicembre 1970 n. 898 in relazione, nel caso in esame, all’art.
155 c.c. Analizzando le differenze tra rinvio recettizio e non, la Cassazione afferma
che “quando la norma richiamante e quella richiamata appartengono allo stesso
ordinamento, al rinvio deve tendenzialmente attribuirsi carattere formale, in quanto è
ragionevole presumere che le esigenze che hanno determinato la modifica della
disposizione richiamata conservino valore in qualunque sede questa debba trovare
applicazione, dunque anche nell'ambito della disciplina che essa integra attraverso il
rinvio” e in questo contesto venivano richiamati dei gruppi di norme relative alla
separazione personale e alla filiazione per disciplinare situazioni analoghe in caso di
divorzio. Inoltre la Corte, analizzando il fine dell’istituto, posto a tutela della prole
affinché non subisca oltre al trauma della separazione dei genitori anche quello del
distacco dalla casa familiare, afferma che non vi sono ragioni per le quali
l’assegnazione non debba operarsi in caso di scioglimento del matrimonio. Anzi,
sottolinea che queste esigenze, di tutela della prole, “si fanno più pressanti proprio
per la definitiva cessazione della comunione tra i genitori e per la eventualità che
questi diano vita ad altre unioni”. La Corte evidenzia, inoltre, che l’equiparazione tra
separazione e divorzio è stabilita anche in caso di locazione dal legislatore stesso.
In conclusione la Cassazione formula il principio di diritto secondo cui “la
disposizione dell'art. 155, quarto comma, c.c. (nel testo novellato con la legge 19
maggio 1975, n. 151), che attribuisce al giudice della separazione personale il potere
di assegnare l'abitazione della casa familiare al coniuge cui vengono affidati figli
minorenni, che non sia il titolare o l'esclusivo titolare del diritto di godimento (reale
o personale) sull'immobile, è applicabile anche nei casi di scioglimento o di
7
cessazione degli effetti civili del matrimonio, in forza del rinvio non recettizio alla
norma suddetta contenuta nell'art. 12 della legge 12 dicembre 1970, n. 898".
La sentenza testé citata avrebbe indicato l’orientamento seguito dalla
Cassazione relativo alla disciplina da applicare in caso di divorzio, ma solo con
l’entrata in vigore della legge n. 74 del 1987, che modificava la disciplina contenuta
nella legge n. 898 del 1970, ed in particolare, per ciò che interessa la nostra
trattazione, l’art. 6, sesto comma.
La nuova normativa stabiliva la possibilità di assegnazione dell’immobile
adibito a casa familiare anche in caso di scioglimento del matrimonio, e
contrariamente a quanto previsto in caso di separazione, che taceva sul punto,
ampliava il raggio d’azione dell’istituto anche al caso di affidamento di prole
maggiorenne, non autosufficiente.
Furono aggiunti inoltre dei parametri ulteriori rispetto a quello
dell’affidamento dei figli, quali le condizioni economiche dei coniugi e i motivi della
decisione, che alimentarono la querelle che vedeva contrapposti coloro che
ravvisavano nell’istituto il modo per garantire un habitat adeguato ad evitare traumi
ulteriori ai figli e chi riteneva che l’assegnazione avesse preminente finalità
economica. Le varie scuole di pensiero iniziarono a domandarsi, come era avvenuto
precedentemente per la separazione personale dei coniugi, se il giudice potesse
procedere all’assegnazione in caso di assenza di figli e quale dovesse essere il
bilanciamento da farsi in relazione ai vari criteri previsti dalla legge.
Un ulteriore aspetto innovativo, che suscitò non pochi problemi, fu la
possibilità di trascrizione del provvedimento che assegnava la casa familiare ad uno
dei coniugi ex art. 1559 c.c. Non solo all’indomani dell’entrata in vigore della
disciplina, ma anche oggi il problema della trascrizione è molto sentito e sarà oggetto
di trattazione specifica.
A livello storico è importante sottolineare che ci fu un acceso dibattito circa la
possibilità di trascrizione del provvedimento di assegnazione in caso di separazione,
in quanto l’art. 155 c.c. taceva sul punto. Fu necessario l’intervento della Corte
Costituzione per riappianare la disparità di trattamento fra assegnazione nella
separazione e nel divorzio, che con la sentenza n. 454 del 27 luglio 1989 dichiarò
8
illegittimo l’art. 155, quarto comma, c.c. nella parte in cui non prevedeva
l’opponibilità a terzi del provvedimento di assegnazione nell’ipotesi di separazione
11
.
Il panorama giuridico si era trasformato, la totale assenza normativa era stata
colmata, anche se con alcune contraddizioni. Incongruenze che dottrina e
giurisprudenza hanno cercato di spiegare e di interpretare. Alcune problematiche si
sono ripresentate anche all’indomani dell’approvazione della legge che ridisciplina la
materia, concernente l’affido condiviso.
3. LA LEGGE SULL’AFFIDO CONDIVISO
A livello internazionale ed europeo ci furono delle spinte verso la
predisposizione di una nuova disciplina in tema di affidamento dei figli.
L’Italia è firmataria della convenzione di New York sui diritti del fanciullo
del 1989. Uno dei temi affrontati nella discussione circa l’accordo internazionale era
la scelta di molti Paesi di prevedere in caso di separazione l’affido esclusivo della
prole ad un solo genitore, il che comportava dei disagi ai figli, che perdevano così,
nella maggior parte dei casi, il rapporto con il genitore non affidatario (solitamente il
padre)
12
.
Per quanto riguardava la normativa nazionale la legge modificante la
disciplina sul divorzio aveva previsto accanto all’affido esclusivo anche l’affido
congiunto e quello alternato della prole, che in linea teorica garantivano un rapporto
con entrambi i genitori. I presupposti applicativi per aversi l’affidamento congiunto o
alternato e soprattutto le modalità attuative poco attente ai bisogni dei figli ne
paralizzavano l’applicazione e vedevano l’affidamento esclusivo come regola.
L’affidamento congiunto attribuiva la comune e diretta gestione e assistenza dei figli
ad entrambi i genitori, a prescindere dalla convivenza e dal collocamento presso il
11
Vedi infra cap. III.
12
Si vedano gli artt. 9 e 18 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che l'Italia fa
propri con la legge di ratifica n. 176 del 1991, secondo cui “ i genitori hanno una responsabilità
comune per quanto riguarda l’educazione del fanciullo ed il provvedere al suo sviluppo” e “il
fanciullo separato da entrambi i genitori o da una di essi ha il diritto di intrattenere regolarmente
rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario
all'interesse preminente del fanciullo".
9
genitore più adatto. Quando si parla di affidamento congiunto si deve immaginare un
affidamento a mani congiunte. Peccato che questa modalità trovasse solo sporadiche
applicazioni essendo necessari l’armonia, l’accordo e la scarsa conflittualità tra i
genitori; situazione difficile da trovarsi nel momento di crisi della famiglia.
Bastavano dei toni più aspri a far si che il giudice accantonasse l’affidamento
congiunto in favore dell’applicazione di quello esclusivo.
La legge prevedeva, inoltre, l’affidamento turnario, c.d. alternato dei figli. La
prole era collocata per periodi prefissati presso ciascun genitore, con conseguente
alternato esercizio della potestà e un continuo spostamento del minore da un
ambiente all’altro, comportando non pochi disagi al figlio. Modalità esclusa quando
il figlio aveva bisogno di un ambiente stabile in cui vivere e sviluppare la propria
personalità.
Il giudice della separazione dichiarava a quale dei coniugi i figli fossero
affidati, stabiliva la misura e il modo con cui l’altro genitore doveva contribuire al
mantenimento, istruzione ed educazione, nonché le modalità di esercizio dei suoi
diritti nei confronti dei figli.
La Cassazione, seguendo un orientamento consolidato, stabiliva che il giudice
della separazione e del divorzio, nell’emanare i provvedimenti relativi
all’affidamento dei figli doveva “individuare il genitore più idoneo a ridurre i danni
derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il miglior sviluppo
possibile della personalità del minore, nel contesto di vita più adeguato a soddisfare
le sue esigenze materiali, morali e psicologiche; ciò deve fare sulla base di un
giudizio prognostico circa la capacità del padre e della madre di crescere ed educare
il figlio nella nuova situazione di genitore singolo”
13
. I provvedimenti relativi alla
prole non vanno intesi, nell’ottica della Suprema Corte, come un premio o una
punizione per i genitori e vanno adottati, a prescindere dalla responsabilità per la crisi
dell’unione, tenendo conto della maggiore idoneità materiale, psicologica ed affettiva
dell’uno e/o dell’altro ad assicurare la tutela e lo sviluppo fisico, morale e
psicologico dei minori. La giurisprudenza non considera rilevante, ad esempio, il
fatto che un genitore risieda o intenda trasferirsi all’estero, il credo religioso
13
Cass. 99/6312.
10
professato, la sindrome nervosa da cui è affetto, non essendo questi criteri validi per
assumere un provvedimento che deve essere adottato con riferimento all’esclusivo
interesse della prole, pur se può comportare una più attenta e delicata valutazione di
tale interesse
14
.
Il quadro appena accennato, anche se prevedeva che il giudice avesse di mira
il benessere dei figli, vedeva l’applicazione dell’affido monogenitoriale come regola.
Decisione che comportava dei profondi disagi per i figli e per i genitori separati,
alcuni estromessi totalmente dalla vita dei figli; al contrario i genitori affidatari
dovevano sobbarcarsi tutte le responsabilità e i doveri dell’essere genitore. Le varie
“vittime” dell’applicazione dell’affido esclusivo confluirono nell’associazione
Crescere Insieme, che elaborò fin da subito l’idea della necessità di una riforma
normativa, già avvenuta in altri Paesi europei, circa una modalità di affidamento che
garantisse la presenza di entrambi i genitori anche nel momento patologico della vita
familiare.
Dopo numerose discussioni, accantonamenti e successivi ripescaggi, nella 25°
seduta del 24 gennaio del 2006 le commissioni riunite del senato “seconda giustizia ”
e “speciale in materia di infanzia e minori” approvarono in sede di deliberazione il
disegno di legge n. 3537, pubblicato in G.U. n. 50 del 1 marzo 2006.
La nuova legge in materia di affido condiviso si compone di cinque articoli, i
quali vanno a modificare la disciplina fino a quel momento in vigore contenuta nel
codice civile, nel codice di procedura civile e ad estendere il trattamento
sanzionatorio previsto dall’art. 12-sexies della c.d. legge sul divorzio anche alle
ipotesi di separazione personale dei coniugi. In particolare è stato sostituito
completamente l’art. 155 c.c. e introdotti ex novo gli articoli da 155-bis a 155-sexies.
Per quanto riguarda la disciplina processuale è stato introdotto un nuovo terzo
comma all’art. 708 e inserito l’art. 709-ter.
È stata prevista l’applicabilità della nuova disciplina ai giudizi di separazione
e di divorzio, anche già conclusi e contestualmente escluso che dall’applicabilità
della nuova legge possano derivare nuovi oneri per la finanza pubblica, e ai casi di
14
Michele Sesta, Diritto di famiglia, Padova, CEDAM, 2005, p. 374 ss.