3
Abstract
Nel corso degli ultimi decenni l’esclusione delle donne dalle posizioni di potere è stata a lungo
dibattuta e disincentivata da regolamenti internazionali e politiche interne a favore di una più ampia
rappresentanza di genere. Nonostante questo, un elemento oggettivo delle società contemporanee è
legato all’evidenza che più saliamo nella scala gerarchica istituzionale, nei luoghi di potere e nelle
stanze decisionali, più è raro trovare volti femminili.
Come afferma Mary Beard (2018) i meccanismi profondi che pongono le donne al margine delle
stanze del potere sono il frutto di pratiche lunghe migliaia di anni, quando l’ars oratoria era
considerata un attributo che definiva la virilità di un uomo, mentre una donna che parlava in
pubblico era quasi sempre percepita per principio una non donna: “questa non è l’ideologia di una
cultura ormai lontana. Lontana nel tempo forse. È invece una tradizione del discorso di genere, e
della sua teorizzazione, di cui noi siamo ancora gli eredi, diretti e più spesso indiretti”
1
.
L’Italia del 2020 non fa eccezione e, anche se i dati che verranno esaminati nella presente ricerca
dimostreranno un’ascesa lenta ma costante delle donne in politica, la rappresentanza di genere nelle
stanze del potere si attesta ancora intorno al 35%: un tasso non drastico ma ancora lontano dalla
percentuale del 50% che garantirebbe una rappresentanza democratica paritaria, che oggi risulta
doverosa e non più prorogabile.
Nonostante le pressioni sociali delle donne che “danno voce alla loro voce”, le resistenze culturali
permangono radicate e molto spesso sono velate da disinvolti atteggiamenti mirati a screditare la
credibilità della voce pubblica femminile: la violenza, la volgarità, l’hate speech, il body shaming,
sono solo alcuni degli atteggiamenti riservati in particolar modo alle donne che osano sfidare e
mettere in discussione le strutture istituzionali patriarcali.
1
Ibidem, p. 22.
4
CAPITOLO I. DONNE, POLITICA E PROGRESSO
SOCIALE: QUANDO IL CAMBIAMENTO È DONNA
Le narrazioni del discorso pubblico in Italia hanno a lungo taciuto i contributi delle donne in
politica, riducendo la voce pubblica ad una declinazione tutta al maschile. Di conseguenza, come
avremo modo di affrontare più avanti, l’autoesclusione femminile dalle stanze dei bottoni è una
diretta conseguenza degli stereotipi che hanno pesato, e continuano a pesare, soprattutto tra le donne
e che si riflettono nella sfera politica tutt’oggi a maggioranza maschile.
In realtà, la partecipazione politica femminile in Italia è stata incondizionata ed ammirevole già
molto prima del voto del 1946: le donne italiane avevano infatti partecipato in prima linea nella
Resistenza contro i nazisti e i fascisti, giocando dei ruoli chiave nei processi di liberazione. Tina
Anselmi, la prima donna a ricoprire la carica di Ministra della Repubblica, al dicastero del Lavoro,
aderì alla Resistenza nel 1944 e, da partigiana, scelse come nome di battaglia quello di Gabriella.
Adele Bei una delle Madri costituenti, da sempre impegnata contro il fascismo, fu arrestata e
condannata a diciotto anni di reclusione dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato
2
. Leonilde
(Nilde) Iotti, prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati dal 1979 al
1992, operò dal 1943 come staffetta e successivamente divenne responsabile dei Gruppi di Difesa
della Donna
3
(GDD) nella guerra di Liberazione. Angelina Livia (Lina) Merlin, promotrice della
proposta di legge sulla chiusura delle “case chiuse” del 1958, si rifiutò di prestare il giuramento
fascista e nel 1926 fu condannata dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a cinque anni di
confino in Sardegna.
Le storie di coraggio e impegno politico delle donne italiane sono innumerevoli, ma il giusto
riconoscimento dell’esemplare determinazione della Resistenza femminile, invece, è stato per molto
tempo tralasciato al fine di ridimensionare l’emancipazione delle donne e ricondurle nei moduli di
un dovere esclusivamente domestico. Tuttavia, secondo i dati dell'Associazione Nazionale
Partigiani d'Italia (ANPI), sarebbero state circa 35.000 le partigiane inquadrate nelle formazioni
combattenti, 20.000 le patriote con funzioni di supporto, 70.000 in tutto le donne organizzate nei
2
Istituito con la legge del 25 novembre 1926, n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato) e attuato con Regio
Decreto del 12 dicembre 1926, n. 2062, il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato fu un organo speciale del regime
fascista italiano, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Venne soppresso dal regio
decreto legge 29 luglio 1943, n. 668, adottato in seguito alla prima riunione del governo Badoglio I.
3
I “Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà” (GDD) nascono a Milano e Torino nel
novembre 1943 su iniziativa del Partito Comunista, sulla scorta delle sue "Direttive per il lavoro tra le masse femminili.
I GDD si diffondono presto in tutta l'Italia occupata dai tedeschi e dai fascisti. L'obiettivo iniziale – ripreso nella
denominazione dei Gruppi – è quello di offrire un sostegno agli uomini impegnati nella lotta armata. Il compito
puramente assistenziale, che va a confermare il ruolo ausiliario degli elementi femminili, è tuttavia immediatamente
contraddetto, e materialmente contestato, dall'impegno attivo di molte delle donne coinvolte, un impegno consistente
nell'attività di informazione, contropropaganda, collegamento, trasporto di ordini, stampa clandestina, armi e munizioni,
sabotaggio e partecipazione diretta alla lotta armata (G. Bonansea, Donne nella Resistenza, in Dizionario della
Resistenza, a cura di E. Collotti - R. Sandri - F. Sessi, Torino, Einaudi, 2000, v. 2, p. 272). Dal sito web
https://www.anpi.it/storia/198/gruppi-di-difesa-della-donna-gdd (consultato il 12/10/2020).
5
GDD, 512 le commissarie di guerra, 683 le donne fucilate o cadute in combattimento, 1.750 le
donne ferite, 4.633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1.890 le deportate
in Germania
4
. Solo a partire dagli anni Novanta le donne, uniche “volontarie a pieno titolo nella
Resistenza” (A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne, 1940-1945, Roma,
Bari, Laterza, 1995, p. 189), hanno fatto sfumare l’immagine dell’uomo come solo e unico
combattente per la Liberazione, cominciando a parlare pubblicamente della loro esperienza
rischiosa nella lotta partigiana, che ha significato la conquista della cittadinanza politica femminile,
e introducendo un universo simbolico di riferimento del tutto nuovo per le donne italiane.
Non stupisce, dunque, la decisione di estendere il diritto di voto alle donne all’indomani della
guerra. Una volta costituito il Governo di Liberazione Nazionale, le donne si attivano per entrare a
far parte del corpo elettorale e avanzano la prima richiesta nell'ottobre 1944 attraverso la
Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (UDI). Ma il riconoscimento dei
diritti politici, a quel punto, è soprattutto un gesto doveroso e non più prorogabile, quasi un obbligo
morale alla luce dell’impegno dimostrato dalle italiane durante gli anni più bui del nostro paese. Il
decreto legislativo luogotenenziale numero 23 del 1 febbraio 1945
5
, firmato dal Presidente del
Consiglio Ivanoe Bonomi, ispirato politicamente dal comunista Palmiro Togliatti, Vicepresidente
del Consiglio, e dal democristiano Alcide De Gasperi, Ministro per gli Affari Esteri, riconobbe i
diritti politici alle donne, ad esclusione delle prostitute «vaganti»: “segno di una mentalità giuridica
contrassegnata ancora da pregiudizi”
6
(Fondazione Nilde Iotti Le leggi delle donne che hanno
cambiato l’Italia, Roma, Ediesse, 2019, p. 24). Eppure, il riconoscimento della cittadinanza
femminile emerse già da subito con un’incrinatura imponente: il D.L.Lt., infatti, faceva esclusivo
riferimento al diritto di voto attivo, senza ulteriori accenni all’eleggibilità. Insomma, le donne
potevano votare ed esprimere una preferenza per i loro rappresentanti, ma non potevano essere
votate e accedere alle cariche politiche in rappresentanza del popolo italiano. Tuttavia, ogni elettore
è eleggibile e solo la legge può stabilire i casi di ineleggibilità: come spiega Giuditta Brunelli (G.
Brunelli, Donne e politica, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 29), di fatto, già nel 1906 la Corte di
4
Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, Donne e Uomini della Resistenza, dal sito web https://www.anpi.it/donne-
e-uomini/ (consultato il 12/10/2020).
5
D.L.Lt n. 23, 1 febbraio 1945: “[…] Sulla proposta del presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro
Segretario di Stato di Ministro per l'interno, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia; abbiamo sanzionato e
prolunghiamo quanto segue: art. 1. Il diritto di voto esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli
articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con Regio Decreto 2 settembre 1919, n. 1495”.
Dal sito web https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1945/02/20/045U0023/sg (consultato il 12/10/2020).
6
Athenet online, Una donna, un voto. Diritti, utopie, opacità, numero 17, settembre 2006. Non fu riconosciuto il diritto
di voto alle prostitute «vaganti», cioè quelle che esercitavano in modo visibile e non già nelle famigerate “case chiuse”
(le cui residenti furono invece incluse). Ben presto, nel 1947, cadde anche quest’ultima esclusione, rivelatrice
comunque di un clima culturale profondamente intriso di antichi perbenismi, facili ipocrisie, timori ed incertezze. Dal
sito web https://www.unipi.it/athenet/17/art1.htm (consultato il 13/10/2020).
6
Cassazione si pronunciò sull’interpretazione dell’articolo 24
7
dello Statuto albertino in materia di
ammissibilità del voto delle donne, precisando che questo avrebbe necessariamente comportato
anche il riconoscimento dell’elettorato passivo femminile, giacché l’articolo 40
8
dello stesso Statuto
richiedeva per l’eleggibilità alla Camera dei deputati unicamente la titolarità dei diritti civili e
politici, senza alcun esplicito riferimento al sesso.
Bisognerà attendere la pubblicazione delle norme generali per l’elezione dei deputati e delle
deputate all’Assemblea Costituente, il decreto numero 74 del 10 marzo 1946
9
, per vedere sancito il
diritto per le donne ad essere elette. Per molti sarà considerata di una conquista, per alcuni di una
concessione, di certo si tratta di un avvenimento storico di rilevanza sostanziale, che getterà le basi
sia per definire una democrazia inclusiva e di qualità, in cui sarebbe stato impensabile non rendere
partecipe la metà della popolazione italiana, sia per cambiare l’approccio della sfera del potere, da
sempre declinata al maschile, e dare inizio a una nuova cultura politica in cui le donne potessero
finalmente dare voce alla loro voce.
Da questo momento in poi l’immagine della donna sarà destinata a cambiare e ad emanciparsi
sempre di più. Nella sfera pubblica, come vedremo, l’iniziativa femminile nell’elaborazione e
nell’approvazione delle norme giuridiche derivanti dai principi costituzionali si tradurrà in
un’interpretazione sociale, culturale, economica e politica del tutto innovativa. Saranno proprio le
donne a battersi per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri e per la tutela della
maternità, per l’abolizione dello sfruttamento della prostituzione e la chiusura dei bordelli, per
l’ammissione della donna ai pubblici uffici, per la riforma sanitaria e la riforma del diritto di
famiglia, per le disposizioni in materia di pari opportunità, di politica estera e di difesa, ma anche
per la tutela dei minori, dei disabili, degli stranieri, per la tutela e la valorizzazione della
biodiversità di interesse agricolo e alimentare, per la disciplina sulla cooperazione allo sviluppo,
fino alla più recente regolamentazione delle unioni civili, alle disposizioni sulla medicina di genere
e alle disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici.
7
Statuto Albertino, art. 24.: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti
godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni
determinate dalle Leggi”. Dal sito web https://www.quirinale.it/allegati_statici/costituzione/Statutoalbertino.pdf
(consultato il 12/10/2020).
8
Ibidem, art. 40: “Nessun Deputato può essere ammesso alla Camera, se non è suddito del Re, non ha compiuta l’età di
trent’anni, non gode i diritti civili e politici, e non riunisce in sé gli altri requisiti voluti dalla legge”. Dal sito web
https://www.quirinale.it/allegati_statici/costituzione/Statutoalbertino.pdf (consultato il 12/10/2020).
9
D.L.Lt. n. 74, 10 marzo 1946: “[…] CAPO II - Eleggibilità. art. 7. Sono eleggibili all'Assemblea Costituente i cittadini
e cittadine italiani che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno di età, eccettuati i casi previsti dagli artt.
5, 6, 8, 9, 10, 11 del presente decreto. Dal sito web
http://dellarepubblica.it.s3.amazonaws.com/Protagonismo%20donne/voto%20alle%20donne/Decreto_legislativo_luogo
tenenziale_n._74_del_10_marzo_1946.pdf (consultato il 12/10/2020).
7
1.1 La promozione della cittadinanza femminile, dal
dopoguerra alla Costituzione italiana del 1948
Con l’acquisizione della cittadinanza da parte delle donne, prima dell’esercizio di voto, non
tardarono ad arrivare critiche e timori da parte della società civile, degli intellettuali e dei politici
dell’epoca. In molti temevano il voto delle donne poiché non ritenute sufficientemente emancipate e
mature per partecipare alle votazioni politiche del Paese; altri trovavano il suffragio femminile
quasi superfluo, dando per scontato che le donne fossero indifferenti verso la vita politica e che
avrebbero votato alla stregua dei mariti e della volontà delle famiglie. C’era chi temeva che le
donne fossero conservatrici o addirittura astensioniste. I comunisti si preoccupavano dell’influenza
dei parroci sulle parrocchiane nell’indirizzarne il voto a favore della Democrazia Cristiana; la destra
non riusciva a placare lo sdegno e la preoccupazione di fronte ad un nuovo ruolo della donna nella
sfera pubblica, che avrebbe certamente messo in crisi i ruoli tradizionali femminili nella sfera
familiare e privata.
Ad ogni modo, le donne esercitarono per la prima volta il voto in occasione delle elezioni
amministrative tra marzo e aprile del 1946 e del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 con cui
gli italiani e le italiane furono chiamate a scegliere tra la Monarchia e la Repubblica e ad eleggere
l’Assemblea Costituente. A dispetto di tutti i pregiudizi, le donne si mostrarono pienamente
coscienti dell’azione che stavano per compiere, presentandosi alle urne numerosissime: 12.998.131
su 14.610.084. Come spiegano Assunta Sarlo e Francesca Zajczyk (2012, p. 39), le donne “non
soltanto vanno a votare, ma vanno a votare in massa e nella stessa percentuale degli elettori
maschi”, pari all’89%.
Nelle votazioni per il referendum istituzionale prevalse la Repubblica: i risultati furono proclamati
il 10 giugno 1946 dalla Corte di Cassazione, riunita in seduta solenne presso la Sala della Lupa in
Palazzo Montecitorio, e subito dopo il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi assunse le
funzioni di Capo provvisorio dello Stato. I voti a favore della Repubblica, confermati ufficialmente
dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946, furono 12.718.641, pari al 54,3% dei voti validi; a
favore della Monarchia si erano invece espressi 10.718.502 elettori, pari al 45,7%. Per quanto
concerne l’elezione dell’Assemblea Costituente, la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza
relativa dei voti (35,2%), seguita dal Partito Socialista Italiano (20,7%) e dal Partito Comunista
Italiano (19%); degli altri partiti, nessuno superò il 10%
10
. L'Assemblea Costituente lavorò dal 25
giugno 1946 fino al 31 gennaio 1948, ed elesse come Presidente Giuseppe Saragat, mentre Enrico
De Nicola fu eletto Capo provvisorio dello Stato.
10
Istituto Centrale di Statistica e Ministero dell'Interno, Elezioni per l'Assemblea Costituente e Referendum
istituzionale: 2 giugno 1946, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1948.