5CAPITOLO I
1.1 I primi anni
Mario Bava nasce a Sanremo il 31 luglio 1914. Fin dalla nascita la sua
vita è segnata dal cinema. Il padre Eugenio (scultore e fotografo) dal
1906 lavora con la casa di produzione francese Pathé in qualità di
scenografo. Nel 1930 entra a far parte dell’Istituto Luce come
direttore del reparto trucchi cinematografici. Il piccolo Mario ha così
da sempre la possibilità di stare a contatto col cinema, con gli effetti
speciali, ma prima di tutto con l’arte, come ha ricordato egli stesso:
Sono cresciuto perciò avviluppato nella pellicola. A tre anni giocavo con pezzi
di cianuro di potassio, che mi piaceva tanto per il suo rosso rubino e lo
alternavo in lunghe file con i grani bianchi dell’iposolfito. A mio padre non
passò mai per la testa che io potessi avvelenarmi: sapevo che era veleno e non
dovevo quindi leccarmi le dita quando lo manipolavo.
1
Sull’amore per gli effetti speciali, nato in tenera età, Bava si esprime
così:
A questa infanzia passata nella Bottega di mio padre, nel senso di Bottega dei
pittori del Rinascimento, sono dovute le mie origini artigianali. Facevamo di
tutto, si risolveva con pochi mezzi, con l’ingegnaccio, e con un grande
entusiasmo che si appagava dei risultati ottenuti e non dei soldi che si
sarebbero potuti ottenere. Le radici del mio amore-odio per i trucchi risalgono
a quei tempi e a quelle esperienze.
2
Fino ai vent’anni, il regista aiuta suo padre e impara i “trucchi del
mestiere”. A vent’anni si sposa e inizia a lavorare occupandosi dei
titoli di testa delle versioni italiane di film americani. Quest’impiego
non paga abbastanza, così Bava inizia a fare l’operatore. Dal 1939 in
poi collabora con grandi nomi dell’epoca quali Roberto Rossellini
1
G. LIPPI – L. CODELLI, Fant’Italia. Emergenza, Apoteosi e riflusso del fantastico nel cinema
italiano, Ed. Festival internazionale del film di fantascienza, Trieste, 1976
2
G. LIPPI – L. CODELLI, Op. Cit., 1976
6(come direttore della fotografia di due corti), Marcel L’Herbier e
Francesco de Robertis (come operatore). Nel 1943 esordisce come
direttore della fotografia per un lungometraggio di Luigi Menardi,
L’Avventura di Annabella.
Il 1946 è l’anno della prima svolta: Bava inizia la sua avventura
da regista di cortometraggi con L’Orecchio, cui segue Anfiteatro
Flavio l’anno successivo. Entrambi si basano su uno stile
prevalentemente documentaristico, in linea con i cinegiornali
dell’epoca. È chiaro che a soli trentadue anni Bava non possiede
ancora la spiccata personalità che caratterizzerà tutta la sua
filmografia. Nei dieci anni successivi, il regista affina la propria
tecnica come direttore della fotografia; lavora per la Lux di Carlo
Ponti con personaggi già affermati come Steno (Vita da Cani, 1950),
Mario Monicelli (Guardie e Ladri, 1951), Aldo Fabrizi e Mario
Soldati (Quel Bandito sono Io, 1949).
Diventai anch’io operatore, e feci una cinquantina di film, lavorando con molti
registi: da Francesco de Robertis, un vero genio, il vero inventore del
neorealismo a Mario Soldati, altro genio, forse troppo colto per fare il cinema.
3
Il 1956 segna una seconda e importantissima tappa per la formazione
di Bava, il quale lavora come direttore della fotografia ne I Vampiri di
Riccardo Freda, sorta di primo horror nostrano misto ad uno stile da
feuilleton
4
, classico di Freda. In realtà Bava porta anche a termine le
riprese del film, anche se la co-regia non gli viene pienamente
accreditata. La collaborazione con Freda va avanti per i suoi due film
successivi, Agi Murad, il Diavolo Bianco (1958) e Caltiki, il Mostro
Immortale (1959). Bava prende decisamente a cuore quest’ultimo,
portando a termine la regia di un Freda pressoché inesistente sul set.
Anche in questo caso, come per I Vampiri, il regista si mette in luce
per degli effetti speciali totalmente artigianali, menzionati da lui stesso
durante un’intervista:
3
G. LIPPI – L. CODELLI, Op. Cit., 1976
4
Per feuilleton o romanzo d’appendice si intende un genere letterario in voga tra ottocento e
novecento, spesso scritto da donne per un pubblico prevalentemente femminile. Il feuilleton si
incentra su trame intricate e amorose e viene scritto il più delle volte a scopo puramente
commerciale. Sono in molti a considerarlo un sottogenere -più che un genere- a causa del suo
scarso valore artistico e del suo essere commerciale e popolare.
7Venivo da una scuola di gente -De Robertis, Steno, Soldati- che usava il
cervello per cavarsela. Che inventava il cinema su niente. Esempio tipico fu
Caltiki, il Mostro Immortale di Riccardo Freda. Era un mostro fantascientifico
che io feci di trippa. Di trippa per i gatti. Anzi, siccome il tecnico che tutti i
giorni doveva comprare un quintale di trippa s’era messo in testa di
risparmiare, usava sempre la solita. Dopo tre giorni quella trippa uccideva con
il suo puzzo. […] In Tunisia la trippa di Caltiki quando esplode fece un tale
effetto che gli spettatori impauriti scapparono dal cinema. Ed era banalissima
trippa.
5
Nel 1958 in Italia nasce un nuovo genere cinematografico ad opera
della Galatea di Lionello Santi: il peplum
6
. Bava inaugura il filone
come direttore della fotografia ne Le Fatiche d’Ercole di Piero
Francisci (già autore anche del film storico La Regina di Saba, 1952)
e nel suo sequel Ercole e la Regina di Lidia, dello stesso anno.
L’apporto dato da Bava ai due film di Francisci è notevole. L’utilizzo
del colore, vivo ed acceso, e la creazione di mostri mitologici tramite
semplici modellini e trucchi artigianali dimostrano già le grandi
capacità tecniche ed effettistiche di Bava, messe in atto qualche anno
più tardi nei suoi lungometraggi da regista.
5
F. FALDINI e G. FOFI, Intervista a Mario Bava tratta da L’avventurosa storia del cinema
italiano, Milano, Feltrinelli, 1979
6
Il peplum è un tradizionale film d’avventura con elementi fantastici e favolistici, ambientato in
epoca classica. È destinato ad un pubblico popolare e presenta quale elemento principale la
presenza di un eroe forzuto. Per questo motivo, spesso nei peplum recitano come protagonisti
attori stranieri culturisti. Il peplum ottiene gran successo nella prima metà dei sessanta e si
differenzia dal filone storico-biblico proprio per la presenza dell’eroe e per lo stile fantastico.
81.2 1960-1964: Dall’horror gotico al thriller all’italiana
Nel 1959 Bava, ancora direttore della fotografia, salva ancora un altro
film, un peplum di produzione Galatea. Si tratta de La Battaglia di
Maratona di Jacques Tourneur. Tocca ancora una volta al giovane
cineasta sanremese portare a termine le riprese. La Galatea,
pienamente riconoscente, decide di affidargli la sua prima regia
ufficiale di un lungometraggio. È il 1960 e Bava, sulla scia dei
vampiri freudiani e fisheriani, con La Maschera del Demonio porta sul
grande schermo il suo vampiro, personificato nella tenebrosa Barbara
Steele. Nel primo film del regista, capolavoro indiscusso della sua
filmografia, vi è già una buona parte degli elementi tecnici e
innovativi da lui usati. In primo luogo, l’uso (e abuso) insistito del
piano sequenza e dello zoom. Proprio quest’ultimo diventerà una vera
ossessione per Bava e sarà parte integrante di diverse sue pellicole. Il
piano sequenza viene utilizzato da Bava in modo poetico e onirico.
Accentua il lirismo, il fantastico e il decadente soprattutto nei primi
film gotici del regista (La Maschera del Demonio, La Frusta e il
Corpo, I Tre Volti della Paura). Lo zoom, invece, ha funzione
drammatica e incisiva, è addirittura determinante per la buona riuscita
delle scene di tensione. Più tardi Bava lo utilizza ancora sia in maniera
drammatica, sia pure ludica (soprattutto come sorta di “riempimento
visivo” laddove dispone di pochi mezzi e di budget piuttosto ridotti).
La Maschera del Demonio è il manifesto dell’horror gotico italiano,
genere che purtroppo rimane di nicchia a causa di un pubblico ancora
impreparato ed esterofilo, che preferisce i film dell’orrore americani a
quelli del proprio Paese. Bisogna peraltro ricordare che gli scarsi
mezzi e le pessime condizioni in cui i registi dell’epoca sono costretti
a girare non favoriscono la diffusione del genere gotico, il quale
rimane appannaggio di pochi registi eletti (Antonio Margheriti aka
Anthony M. Dawson, il già citato Riccardo Freda, Camillo
Mastrocinque, Massimo Pupillo e lo stesso Mario Bava).
L’opera prima di Bava registra in patria incassi mediocri (ca.
139 milioni). È per questo, probabilmente, che il regista
successivamente si dedica al peplum con Ercole al centro della Terra
(1961). L’esperienza dei due film francisciani permette a Bava di
districarsi con facilità nel genere anche dietro la macchina da presa.
Come da manuale, sono presenti effetti speciali del tutto artigianali e
luci stranianti blu, rosse e viola ad accentuare la dimensione fantastica
del film. Il regista crea giochi di luce tutti suoi, surreali e pittoreschi e
9non manca di contaminare la vicenda con elementi horror tratti
dall’iconografia dei vampiri e degli zombie.
E all’iconografia di Dracula rimandano esplicitamente l’immagine di Lico che
tiene tra le braccia Deianira svenuta, o la funzione protettiva attribuita alla
pietra viva, Ersatz
7
pagano di aglio e crocifissi. […] L’ultima parte del film,
con la lotta di Ercole con gli zombi, è in ogni caso qualcosa di innovativo non
solo nell’ambito del peplum, ma del cinema fantastico tout-court. Zombi così
combattivi e vivaci non rientravano certo nelle convenzioni iconografiche
dell’epoca[…]
8
Il film ottiene un buon successo di pubblico, sia in Italia che nel
mondo.
Bava torna con la Galatea (sempre nel 1961) per girare Gli
Invasori, film d’avventura sui vichinghi commissionato sulla scia dei
due fratelli maggiori The Vikings (1958) di Richard Fleisher e il
nostrano L’ultimo dei Vichinghi (1960) di Giacomo Gentilomo. Pur
rispettando i canoni del genere d’avventura, Bava ancora una volta
compone scenari suggestivi in cui il blu e il rosso sono colori
dominanti. Il gusto per il macabro e il sadico emergono comunque
anche in questa pellicola (cadaveri mostrati, massacri, il suicidio sul
rogo della protagonista), prova che l’horror è uno dei generi più cari
al regista (insieme al thriller).
Dopo la breve parentesi con il dimenticabile Le Meraviglie di
Aladino, sempre del 1961, Bava abbandona i film d’avventura. Il
quarto film di Bava, commissionato dalla Lux sull’esempio de Il
Ladro di Bagdad (film esotico diretto da Bruno Vailati ed Arthur
Lubin l’anno precedente), non ottiene successo e resta un documento
amorfo all’interno della sua filmografia.
Nel 1962 Bava si libera da generi che non gli si addicono
completamente e torna alla Galatea, firmando l’ottimo La Ragazza che
Sapeva Troppo. Il film è pervaso da una sottile ironia a partire dal
titolo, chiaro rimando scherzoso a L’Uomo che Sapeva Troppo di
Hitchcock. Nasce il thriller all’italiana, genere in seguito prediletto da
Dario Argento, che farà tra l’altro la sua fortuna su scala commerciale.
A onor del vero L’Uccello dalle Piume di Cristallo (1970), opera
prima di Argento, senza dubbio deve molto al thriller di Bava, così
7
Dal tedesco “surrogato, sostituto, rimpiazzo”.
8
A. PEZZOTTA, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995
10
come alcune sequenze di Suspiria (memorabile quella del pipistrello)
devono molto a La Maschera del Demonio. Lamberto Bava, figlio di
Mario, ricorda:
C’è una cosa che non sa nessuno: la sceneggiatura, o il trattamento, di La
Ragazza che Sapeva Troppo erano di Sergio Corbucci e quando uscì
L’Uccello dalle Piume di Cristallo Sergio telefonò a mio padre dicendogli:
“Che dobbiamo fare? Gli dobbiamo fare causa? Perché è lo stesso film!”.
Mio padre gli rispose: “Mah, non mi sembra che sia lo stesso film… E poi
lui l’ha fatto meglio…”.
9
Ad ogni modo, è Bava ad esportare il genere thriller in Italia; tuttavia,
rispetto ai film hitchcockiani, quelli del cineasta sanremese sono
costruiti su una sottile presa in giro dei personaggi, in particolare di
quelli femminili. Punti cardine del thriller di Bava -e in generale del
thriller all’italiana- sono l’atmosfera minacciosa di semplici
situazioni quotidiane, l’inverosimiglianza di determinati eventi, le
scenografie colte in modo inquietante e l’enfasi sui rumori, che vanno
a sostituire la colonna sonora. Tali punti vengono elaborati e
perfezionati dallo stesso Bava in Sei Donne per l’Assassino e da
Argento soprattutto nei suoi primi film.
Il 1963 è un anno d’oro per Mario Bava: vedono la luce due dei
suoi film migliori, La Frusta e il Corpo e I Tre Volti della Paura. Pur
non potendo appoggiarsi ad una trama pienamente efficace La Frusta
e il Corpo è un film-simbolo. Bava qui dimostra tutta la sua arte
pittorica con giochi cromatici che sfiorano il sublime e cospargono la
pellicola di un’aura sognante e orrorifica al tempo stesso.
Infatti La Frusta e il Corpo, con quei corpi affilati, da Morgue metafisica,
con i suoi “caligarismi” cromatici, e il continuo sibilare del vento e dello
scudiscio, non è altro che l’omaggio di Bava al “gotico astratto” del grande
Alberto Martini, il pittore italiano più inquieto (ed inquietante) del 20°
secolo
10
9
Testimonianza da un’intervista a Lamberto Bava tratta da M. GOMARASCA, D. PULICI (a cura
di), Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario e Lamberto Bava, in Dossier Nocturno n.24,
2004
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Recensione di Andrea Bruni de La Frusta e il Corpo tratta da M. GOMARASCA, D. PULICI (a
cura di), Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario e Lamberto Bava, in Dossier Nocturno
n.24, 2004