6
in Italia intorno agli anni ‘80 si sono sperimentati spazi di espressione creativa e arte
terapia che favorissero la riabilitazione psicologica e sociale dei detenuti (in Gran
Bretagna come vedremo abbiamo esempi di tali attività già a partire dai primi anni
’70). In carcere l’arteterapeuta ha l’importante compito di stimolare la creatività e la
fantasia di persone che, nonostante vivano una condizione di reclusione totale,
mantengono la libertà a livello mentale; questa preziosa risorsa consente al detenuto
di esprimersi, comunicare e di imparare a farlo in modo libero ma anche funzionale
ad una sua crescita e ad un cambiamento terapeutico.
A fronte di tali premesse, questa tesi ha lo scopo di indagare l’efficacia e la possibile
validità terapeutica e risocializzante individuabile negli interventi di arte terapia,
evadendo dunque il campo delle pratiche psicoterapeutiche verbali più tradizionali
per indagarne di nuovi.
Come diceva Winnicott
2
“la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due
aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che
fare con due persone che giocano insieme”. L’autore sosteneva che giocare
stimolasse la creatività e la crescita personale e che ciò fosse sinonimo di benessere e
di sanità; di conseguenza la psicoterapia veniva definita come “forma altamente
specializzata di gioco al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri”.
Questo storico e famoso contributo dello psicoanalista inglese ci permette allora di
comprendere come la pratica psicoterapeutica non debba limitarsi alla conoscenza e
all’interpretazione dello psichismo del paziente da parte del terapeuta, bensì debba
consistere nella “creazione di uno spazio transizionale”, spazio di espressione, di
ascolto, di creatività e condivisione di sé con l’altro.
La creazione di tale spazio è premessa indispensabile per il realizzarsi di una seduta
di arte terapia, durante la quale il ruolo attivo del soggetto-paziente non è solo
verificabile sul piano teorico e verbale, ma anche e soprattutto sul piano pratico e
creativo non verbale. Gli aspetti dinamici, fantasiosi e coinvolgenti che
caratterizzano l’arte terapia, allora, ben si conciliano con la definizione di
2
Winnicott Donald (Plymouth, Devon, 1896 – Londra 1971), psicoanalista inglese, la sua attività di
ricercatore e di analista si è concentrata sulla psicologia dell’età evolutiva e sulla psicoterapia
infantile; di grande rilievo nella psicoanalisi postfreudiana sono stati i suoi contributi allo studio dei
rapporti oggettuali primari, e in particolare del rapporto madre-bambino.
7
psicoterapia proposta da Winnicott (“Gioco e realtà”, 1971): il rapporto terapeutico
tra terapeuta e paziente deve essere inteso come spazio-tempo di gioco e di creatività.
La prima parte di questo lavoro dunque è dedicata all’analisi delle indispensabili aree
di approfondimento che costituiscono il panorama di comprensione al tema dell’arte
terapia in carcere.
Il primo capitolo tratta della terapia in contesti non convenzionali e contiene
riflessioni circa la possibilità di concepire e progettare interventi psicoterapeutici in
contesti non solo clinici tradizionali, ma anche innovativi e sperimentali non
tradizionali; uno di questi contesti è proprio quello penitenziario dove,
successivamente alla Riforma Penitenziaria del 1975, l’ingresso in carcere degli
“esperti” psicologi ha permesso di strutturare spazi di ascolto, sostegno e aiuto –tra i
quali anche l’arte terapia- per i detenuti ivi reclusi.
Il secondo capitolo, relativo al contesto carcerario, offre spunti di riflessione
sull’evoluzione del concetto di pena, che da puramente punitiva e restrittiva è
divenuta emendativa nel senso che è sempre più concepita come occasione di
rieducazione e maturazione del soggetto reo; inoltre viene affrontato l’importante
tema dei bisogni dei detenuti che, a fronte di un contesto sì chiuso e totalizzante,
assumono necessariamente la connotazione di diritti umani da difendere al fine di
ottenere una pena che si possa definire umana.
Il terzo capitolo poi è dedicato alla sofferenza mentale in carcere; attraverso il
contributo di diversi autori che hanno affrontato tale argomento, viene offerto un
quadro della situazione in riferimento alle principali patologie carcerarie, ai presidi
psicologici previsti dalla circolare Amato del 1987 (n. 3233/5689 “Tutela della vita e
dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati. Istituzione e
organizzazione del Servizio Nuovi Giunti”) e agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari
presenti sul territorio italiano.
Il quarto capitolo invece contiene un approfondimento circa l’arte terapia, i principali
orientamenti e modelli teorici, le sue funzioni terapeutiche, la specificità
dell’arteterapeuta e le valenze terapeutiche e risocializzanti che possono
caratterizzare un intervento psicoterapeutico basato su un codice di comunicazione
non verbale.
8
La seconda parte del lavoro entra nello specifico di quelle che sono le esperienze di
arte terapia avvenute o tutt’ora presenti nelle carceri. Dapprima viene raccontato il
caso di una comunità terapeutica sperimentata nella prigione scozzese di Barlinnie a
Glasgow (1973), dove l’arte terapia ha rappresentato l’attività centrale del
trattamento proposto ai detenuti ivi reclusi; seguono poi i racconti di altre quattro
esperienze avvenute in Italia negli ultimi anni e del caso studio di due laboratori di
arte terapia avviati tra il 2003 e il 2004 nella Casa Circondariale di San Vittore a
Milano.
La tesi si conclude con una riflessione generale che, riprendendo le premesse iniziali,
conduce ad una valutazione conclusiva del lavoro svolto e dell’intervento
psicoterapeutico oggetto di studio.
9
PARTE PRIMA
Quadro di riferimento
Capitolo 1: TERAPIA IN CONTESTI NON CONVENZIONALI
1.1 E’ POSSIBILE UNA PSICOTERAPIA IN UN CONTESTO NON
TERAPEUTICO?
Nonostante la storia della psicologia si sia notevolmente evoluta nel tempo, le radici
legate alla tradizione psicoanalitica freudiana permangono ed influenzano ancora
oggi la pratica psicoterapeutica più moderna, sintetizzandosi in una serie di
procedure tecniche e di luoghi comuni ben radicati e difficili da modificare.
Montinari
3
(2001), a questo proposito, ricorda per esempio che secondo la pratica
psicoanalitica è necessario che il paziente, durante il processo terapeutico, giunga
alla presa di coscienza intellettuale dei propri conflitti inconsci e dei traumi infantili
che ha vissuto e che sono la causa del proprio stato patologico attuale; il paziente
dunque deve essere un adulto dotato di elevata capacità intellettiva, che sia in grado,
in maniera volontaristica, inizialmente di provocare in sé una regressione terapeutica,
“regressione al servizio dell’Io” (Kris
4
, 1953), che gli permetta di rivivere i suoi
vissuti infantili e successivamente di distaccarsi dallo stato regressivo per giungere
ad una consapevole “guarigione”. Da parte sua il terapeuta ha il compito di
progettare e mettere in atto un intervento quantitativamente sufficiente (numero di
sedute realizzate ed entità di cose dette e interpretate) a garantire l’analisi e la
comprensione dei contenuti inconsci del paziente, il quale successivamente assisterà
alla scomparsa dei sintomi patologici che lo hanno fino a quel momento sopraffatto.
Questa presentazione semplificata e accennata del metodo psicoanalitico serve solo a
riassumere brevemente i punti sui quali Montinari si sofferma approfonditamente in
Psicoterapia al limite (Montinari G., 2001) per introdurre il suo pensiero. Egli
sostiene che la tradizione freudiana abbia pian piano dato vita ad una psicoterapia
dalla metodologia eziologica fin troppo lineare e soprattutto disponibile ed efficace
3
Montinari Giandomenico, psichiatra e psicoterapeuta, si occupa di conduzione e formazione di
gruppi istituzionali fin dai primi anni ’70.
4
Kris Ernst (Vienna 1900 – New York 1957), storico dell’arte e psicoanalista austriaco; collaborò alla
nascita della psicologia dell’Io, condusse ricerche sullo sviluppo infantile e indagò i rapporti tra teoria
psicoanalitica ed esperienza estetica..
10
solo per quei pazienti che, in possesso di un buon livello intellettivo pregresso, siano
in grado di “razionalizzare” la propria sofferenza e in questo modo “guarire”. Egli
inoltre sostiene che il metodo psicoanalitico, che origina con Freud
5
e i suoi famosi
casi di isteria e di nevrosi, non sembra contemplare la possibilità di un trattamento
terapeutico anche per i casi gravi di malattie mentali o per soggetti con insufficienza
mentale, sulle cui abilità intellettive e razionali non si può certo contare.
La sfida dell’autore allora diventa quella di definire una pratica psicoterapeutica che,
senza basarsi su delle capacità fisiche o mentali imprescindibili nel paziente, sia uno
spazio-tempo d’aiuto reale che trascenda il contesto terapeutico tradizionale e
classico e diventi alla portata di tutti.
Anche Cirillo
6
discute di questa tematica proponendo inizialmente una definizione
tradizionale di “contesto psicoterapeutico” per poi riflettere invece sulla possibilità di
progettare e attuare una psicoterapia anche nei contesti non convenzionali.
La definizione che descrive la visione tradizionale di contesto terapeutico lo intende
come “la cornice che si struttura intorno alla relazione terapeuta-paziente, allorché
quest’ultimo formula all’operatore una domanda di aiuto relativa a un proprio
sintomo psichiatrico o comunque a un serio disagio esistenziale, e accetta di
affrontarlo secondo il contratto che il terapeuta gli propone” (Cirillo S., 1990).
Da questo contributo si evince che ciò che tradizionalmente definisce la terapeuticità
di un contesto è la presenza di una precisa richiesta d’aiuto da parte del paziente al
terapeuta che lo prende in carico. Infatti, la maggior parte delle attività di
psicoterapia, individuali o di gruppo, originano dalla richiesta del paziente al
terapeuta di aiutarlo e sostenerlo nella comprensione e nell’eliminazione della
sofferenza psico-fisiologica che lo affligge. Il “primo passo” dunque dovrebbe
sempre essere compiuto dal paziente che chiede di essere aiutato. Cirillo però
dimostra che tante volte le persone, pur necessitandone, difficilmente sono in grado
di esprimere una richiesta d’aiuto in modo esplicito: basti pensare a un adolescente
disadattato o a una famiglia socialmente deviante per immaginare la loro resistenza
5
Freud Sigmund (Freiberg, Moravia, oggi Prìbor nella Repubblica Ceca, 1856 – Londra 1939),
medico austriaco fondatore della psicoanalisi.
6
Cirillo Stefano, psicologo di orientamento sistemico, membro dell’équipe terapeutica del Nuovo
centro per lo studio della famiglia di Milano
11
psicologica ad accettare di chiedere aiuto. E’ importante quindi – dice Cirillo -
sfruttare le potenzialità tipiche dell’intervento psicoterapico adattandone le regole ai
diversi contesti.
Ma quali sono le potenzialità della psicoterapia? Quale la sua essenza? La
psicoterapia consiste essenzialmente nella creazione di un ambito spazio-
temporalmente circoscritto che porti in primo piano l’interiorità delle persone dando
sfogo ai contenuti più profondi che normalmente sono misconosciuti e repressi
(Montinari G., 2001). La richiesta d’aiuto quindi non è condizione necessaria e
sufficiente perché sia avviato un percorso di psicoterapia.
L’intervento psicoterapeutico è d’aiuto per una persona perché permette di
concentrarsi su se stessi, sui propri vissuti emotivi e affettivi, vivendo un’esperienza
molto intima che però non rimane patrimonio personale e privato, come può accadere
nei sogni, ma viene condivisa, compresa e interpretata con il terapeuta. In questo
spazio-tempo di condivisione, il paziente “si narra” attivando meccanismi regressivi
che ricordano tematiche inerenti ad un universo materno-infantile, fatto di affetto,
rassicurazione, protezione e autenticità. Questa atmosfera di confidenza e di trasporto
caratterizza il processo terapeutico ed è indipendente dal contesto in cui la
psicoterapia avviene; è questa l’essenza della terapia, la sua forza, e il motivo per cui
è possibile concepirla anche al di fuori del contesto terapeutico clinico tradizionale.
Montinari procede poi nella sua riflessione sull’essenza della psicoterapia con uno
studio antropologico sulle radici delle manifestazioni culturali e protoculturali
umane; egli ritiene di individuare nel rito (inteso come forma cerimoniale in cui si
sospendono le regole della realtà quotidiana per inventarne di nuove in una sorta di
gioco collettivo) la prima e fondamentale forma di lavoro dell’uomo su se stesso, una
forma di autoterapia, che avrebbe valore e significato come precursore di tutte le
forme di “intervento trasformativo” presenti oggi nei diversi campi della religione,
della medicina, dell’arte o della psicoterapia (Montinari G., L’agnello e la scure,
Milano, 1998).
In quest’ottica allora la psicoterapia può anche essere definita “un’area del gioco o
del sacro” in cui la “logica della realtà” viene messa momentaneamente da parte per
dare spazio a una manifestazione più libera del mondo interiore. Tutto ciò “comporta
una regressione parziale e controllata e la transitoria de-strutturazione degli aspetti
12
superiori e più evoluti della comunicazione e del funzionamento dell’Io, per lasciar
emergere appunto forze recondite, emozioni, vissuti sconosciuti e inespressi”
(Montinari, 2001).
Ri-leggere la psicoterapia in chiave di manifestazione rituale presente nella
tradizione e nella cultura dell’uomo fin dai tempi più antichi può sicuramente aiutare
a capire che le persone, nonostante le resistenze che possono insorgere a seguito di
un forte disagio psichico, in realtà sentono inconsciamente la necessità di esprimersi
e di “raccontarsi”, a parole ma anche a gesti, a qualcun altro che le ascolta; è questo
dunque un istinto naturale e spontaneo che caratterizza l’uomo.
“Ogni persona, di qualunque livello intellettuale e socioculturale, può e deve fare
esperienze di questo tipo, per recuperare qualcosa della sua integrità psicologica…”
(Montinari, 2001).
Il benessere psico-fisico delle persone allora dipenderebbe anche dalla possibilità di
concedersi degli spazi di espressione e di ascolto di sé che permettano a ognuno di
capirsi meglio, di conoscere i propri limiti e le proprie risorse e di imparare a
sfruttare queste ultime per accrescere e migliorare la qualità della propria vita. “La
psicoterapia è una forma di rito moderno, individualizzata, razionalizzata e depurata
di tutti gli aspetti scenografici e cruenti […]. Il denominatore comune (tra rito e
psicoterapia) è appunto la creazione, contingente e circoscritta, di un’area di gioco,
in cui raccontarsi liberamente […]” (Montinari, 2001).
I contributi degli autori succitati, Cirillo S. e Montinari G., sono davvero molto
interessanti e illuminanti per una riflessione sui contesti della psicoterapia, poiché
sono stati in grado di riportare l’intervento psicoterapeutico alla sua vera “essenza”,
definendolo con termini semplici ma allo stesso tempo assolutamente esaustivi.
Questa prospettiva permette di allargare il campo d’azione della psicoterapia
moderna che in questo modo mantiene il suo potere trasformativo-terapeutico pur
aprendosi a nuovi contesti e così a nuovi pazienti-utenti.
Giunti a questo punto, diviene necessario definire con maggiore precisione i concetti
di “contesto terapeutico”, di “contesto convenzionale” e “non convenzionale”, in
modo tale che sia poi possibile usarli nelle riflessioni successive senza rischi di
ambiguità e imprecisione. Chiamiamo “terapeutico” ogni contesto clinico, educativo
o ri-educativo, sociale o sanitario, in cui sia possibile un intervento psicoterapeutico
13
nei termini precedentemente definiti: come spazio-tempo di espressione di sé dunque
e di auto-comprensione, in un’ottica che miri alla “cura” della persona per il suo
benessere e non necessariamente per la sua guarigione. “Convenzionale” è poi il
contesto clinico classico in cui tradizionalmente si propone l’intervento
psicoterapeutico, mentre “non convenzionali” sono tutti quei contesti come la scuola,
i centri di aggregazione giovanile o i contesti consulenziali per esempio, in cui la
psicoterapia non è mai stata prevista, ma in cui invece il suo ingresso sarebbe
davvero utile, efficace e importante.
A fronte di tali premesse, la riflessione che ha guidato questo lavoro di tesi si è
orientata verso il carcere, come esempio di contesto terapeutico non-tradizionale, in
cui progettare e attuare interventi di psicoterapia allo scopo di perseguire sempre più
concretamente l’ideale di ri-educazione e ri-socializzazione della persona rea che
anche l’Ordinamento Penitenziario ormai richiede, ma che fatica molto a realizzarsi.
14
1.2 UN CONTESTO TERAPEUTICO NON CONVENZIONALE: IL CARCERE
A partire dal 1975, data che sancisce la riforma dell’Ordinamento Penitenziario
italiano (L.354/75), la concezione della pena assume ufficialmente i caratteri di un
trattamento ri-educativo e ri-socializzante del soggetto detenuto che sia conforme ai
principi di umanità, rispetto e dignità della persona. In particolare, all’interno
dell’Ordinamento succitato, si trovano una serie di articoli che approfondiscono il
tema del trattamento rieducativo (art. 13, art.15, art. 16, art. 27) e del ruolo
importante che così dovrebbero assumere gli psicologi nella progettazione e nella
realizzazione di tale trattamento (art. 80).
L’articolo 80 ha permesso l’ingresso in carcere di personale “esperto” specializzato
tra cui gli psicologi, ai quali è stato affidato principalmente il compito di svolgere
attività di osservazione e trattamento sui detenuti. “L’osservazione” ha lo scopo di
monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per
poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato; per “trattamento” si
intende invece la progettazione, da parte dello psicologo, di un programma che miri a
potenziare gli aspetti positivi della personalità del soggetto reo e a colmare le lacune
o correggerne gli aspetti devianti in vista di un concreto processo maturativo. Le
indicazioni fornite dall’Ordinamento Penitenziario in riferimento al trattamento sono
che: “…deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun
soggetto…”; deve essere progettato “…in base ai risultati dell’osservazione…”; “il
trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle
specifiche condizioni dei soggetti”. Inoltre si fa riferimento alla possibilità, per
attuare il trattamento previsto, di avvalersi dell’istruzione, del lavoro, della religione
o delle attività culturali, ricreative e sportive presenti nell’istituto di pena.
Nell’Ordinamento Penitenziario dunque non si parla certo di trattamenti
psicoterapeutici, ma si incarica il personale “esperto”, fra cui psicologi, psichiatri e
criminologi, di svolgere attività di osservazione e trattamento: tra le tecniche ri-
educative e ri-socializzanti proposte da uno psicologo però rientra sicuramente anche
la psicoterapia. Anzi, la psicoterapia da anni dimostra di essere un potente e valido
aiuto per accogliere le persone e portarle ad attuare significativi cambiamenti di
personalità in direzione di una crescita e di un miglioramento della qualità della vita.
15
Serra
7
, in Psicologia penitenziaria (2000), evidenzia però due pesanti limiti
all’impiego della psicoterapia in ambito penitenziario. Il primo limite –dice- è dovuto
al fatto che la psicoterapia che si potrebbe attuare in ambito carcerario è assai diversa
da quella che si realizza in contesti clinici tradizionali. Normalmente la psicoterapia
presuppone l’esistenza di un soggetto-paziente con disturbi psichici che si rivolge al
terapeuta per chiedere aiuto, di un terapeuta che ha il compito di risolvere le
problematiche del paziente e di un rapporto di confidenza e un legame emotivo-
affettivo tra paziente e terapeuta che si struttura come una vera e propria condizione
di dipendenza psicologica del primo verso il secondo. In carcere invece –sottolinea
Serra C.- il detenuto che incontra lo psicologo non sempre vive una situazione di
sofferenza psichica grave tale da necessitare un intervento psicoterapeutico, e ancor
meno ne è consapevole né per questo chiede un sostegno psicologico; il terapeuta a
volte è “solo una persona da manovrare e sfruttare, con il proposito di ottenere
benefici attuali e concreti aiuti”, e di conseguenza il legame che si instaura non è di
assoluta fiducia.
Il secondo limite che Serra riconosce nell’applicazione di una psicoterapia in ambito
carcerario è rappresentato “dall’impossibilità di assicurare all’utente la massima
riservatezza nel corso dello svolgimento della terapia”. Effettivamente questo
secondo problema, che sicuramente comporta una certa sfiducia e inibizione nel
paziente, è difficilmente eliminabile in un contesto quale un’istituzione totale in cui
ogni azione è sotto il controllo di mille occhi guardiani.
Per quanto riguarda il primo limite però, è possibile avanzare una critica nei
confronti dell’idea che in carcere non sia frequente la presenza di casi di disagio
psicologico grave, quali personalità nevrotica, depressione, psicosi o altro.
L’alienazione propria della condizione detentiva è tale infatti da provocare effetti
disastrosi sull’uomo, sia a livello fisico sia, soprattutto, a livello psicologico,
facilitando un processo di frantumazione e mortificazione della personalità
7
Serra Carlo, esperto di psicologia e sociologia, si è specializzato in criminologia clinica e psichiatria
forense. Docente di criminologia presso la facoltà di psicologia dell’Università degli Studi “La
Sapienza” di Roma e consulente del Ministero di Grazia e Giustizia e del Tribunale di Roma. Si
occupa di ricerca nel campo della risocializzazione ed è fra gli animatori in Italia della psicologia
giuridica nei settori civile e penale.
16
(Clemmer
8
, 1940). Nel paragrafo relativo alla sofferenza mentale in carcere (trattato
più avanti), vengono riportati una serie di contributi più o meno recenti che
testimoniano l’esistenza di una serie di disturbi psichici tipici della carcerazione,
“sindromi da prisonizzazione”, che insieme alle patologie più comuni, costituiscono
una realtà disarmante con la quale confrontarsi. Il carcere è, tra i contesti meno
convenzionali, uno di quelli in cui c’è più bisogno di terapia e di “presa in cura” del
detenuto-paziente da parte del personale esperto (psicologi, assistenti sociali o anche
volontari). E’ un luogo di sofferenza e di abbandono in cui c’è una grossa necessità
di offrire spazi di espressione, di comprensione e di comunicazione: tutte cose
imprescindibili per un’esistenza che si possa definire umana. Un intervento di
psicoterapia in carcere dunque rappresenta una valida occasione di sperimentare
l’efficacia della terapia in un contesto non convenzionale, nel quale è ben presente un
bisogno e quindi una richiesta d’aiuto.
8
Clemmer Donald, sociologo americano che, insieme ai lavori di Goffman E., ha contribuito alla
nascita e allo sviluppo della sociologia carceraria.
17
1.3 L’ARTE TERAPIA PUO’ RAPPRRESENTARE UN INTERVENTO
PSICOTERAPEUTICO?
L’arte è una modalità espressiva e comunicativa tipica dell’essere umano che, fin dai
tempi più antichi, ha rappresentato attraverso immagini, danze o canzoni, la sua
cultura e la sua storia. A partire da questo presupposto, Dalley T.
9
in Art as therapy
(1984) ha provato a riflettere sulla possibile relazione che si può individuare tra arte
e terapia. Ella sostiene che l’arte sia una caratteristica propria di ogni società e che da
sempre “la pittura abbia simboleggiato sia gli aspetti personali, sia quelli culturali
dello sviluppo (umano). L’arte allo stesso tempo riflette e predice l’andamento della
società, e rappresenta tradizionalmente uno spazio di incontro – a forum – tra
l’espressione personale e la creatività”. L’arte dunque è una modalità espressiva con
la quale l’uomo ha sempre avuto a che fare e che da sempre utilizza per comunicare
qualcosa di sé agli altri.
In questi termini all’arte possono essere riconosciute qualità “terapeutiche”
intrinseche date dal fatto che quando una persona dipinge per esempio, spesso prova
emozioni positive quali rilassatezza, soddisfazione e piacere; l’arte è così “un’attività
solitaria, privata e contemplativa” – dice Dalley – che ha come obiettivo principale
quello di produrre e conseguire a good painting. La valutazione estetica in questo
caso è ciò che interessa.
Quando però viene usata all’interno di un setting terapeutico, l’arte deve essere intesa
in modo diverso nel senso che il valore artistico non sta nel prodotto estetico finale
da ammirare (un quadro, uno spettacolo teatrale o una composizione musicale), ma
in tutto il processo creativo che è avvenuto nel soggetto durante l’attività artistica.
Dar vita ad un processo creativo stimola l’uomo a pensare, a mettersi in gioco, a
ripensare al passato e a proiettarsi nel futuro, a compiere quindi un’attività mentale
che produca dei cambiamenti sulla sua personalità. In questo senso l’arte è terapia
poiché “fornisce al soggetto un medium reale e più concreto rispetto al linguaggio
col quale raggiungere l’espressione sia del conscio che dell’inconscio e che può
essere usato come un valido agente di cambiamento terapeutico”.
Se ritorniamo per un attimo alle affermazioni di Montinari (vedi paragrafo 1.1.1),
ricordiamo che egli diceva che l’essenza della psicoterapia consisteva nella creazione
9
Dalley Tessa, arteterapeuta che lavora in un centro di consulenza e terapia per bambini e adulti a
Londra e tutor al Goldsmiths’ College, Università di Londra.
18
di “un ambito spazio-temporalmente circoscritto che porti in primo piano l’interiorità
delle persone dando sfogo ai contenuti più profondi che normalmente sono
misconosciuti e repressi”. L’arte terapia allora può essere definita come uno spazio di
gioco, spazio potenziale (Winnicott), all’interno del quale dare voce alla creatività
del soggetto e attraverso essa affrontare conflitti o traumi interiori troppo profondi
per essere gestiti solo a parole. Il prodotto finito dunque non viene valutato in senso
estetico, ma serve come tramite immediato e tangibile per l’esplorazione della
personalità umana. Addirittura, a tal proposito, Margaret Naumberg
10
, sosteneva che
“il processo arte-terapeutico fosse basato sulla scoperta che la maggior parte dei
principali sentimenti e pensieri umani, derivanti dall’inconscio, si manifestassero
meglio attraverso le immagini piuttosto che attraverso le parole” (Naumberg, 1958).
Se si condivide il pensiero dell’arteterapeuta americana, è facile allora ritenere che
ogni forma artistica sia a suo modo “salutare”, “benefica” e dunque terapeutica per le
persone, soprattutto per coloro i quali hanno difficoltà di relazione e di
comunicazione: per queste persone l’arte terapia rappresenta un canale comunicativo
efficace in sostituzione del linguaggio.
Per rispondere alla domanda formulata nel titolo di questo paragrafo, si può dire
allora che l’arte terapia, che si basa sull’utilizzo dei canali espressivi non verbali,
possa assolutamente essere considerata una tecnica psicoterapeutica di pari dignità e
valore rispetto agli interventi verbali. Anche nell’intervento di arte terapia infatti
sono presenti il soggetto-paziente psicologicamente sofferente, il terapeuta che
accoglie e accompagna, e lo spazio di comprensione e condivisione rappresentato dal
legame che si instaura tra i due e che favorisce lo svelarsi dei contenuti interiori e
profondi della personalità del soggetto. La comunicazione e l’espressione in questo
caso avviene attraverso codici analogici non verbali.
L’arte terapia, diffusa prima in America e in Gran Brtagna (anni ’40) e
successivamente in tutta Europa e nel resto del mondo, viene soprattutto utilizzata
con bambini e adolescenti con differenti situazioni di disagio che vanno dalla
disabilità motoria, a quella psichica, a disturbi emotivi e comportamentali o
psicopatologie gravi; viene utilizzata inoltre con gli adulti e gli anziani sia in
situazioni di intervento individuale, sia di gruppo e anche all’interno di comunità.
10
Naumberg Margaret, pioniera dell’arte terapia americana a orientamento psicoanalitico.
19
Tra queste esperienze ritroviamo anche alcuni interventi di arte terapia in contesto
carcerario, dove l’arte terapia acquista un’importanza fondamentale nel favorire uno
spazio di comprensione per i detenuti che, attraverso il processo creativo, provano ad
esprimere i loro sentimenti in un clima di accoglienza e di non-giudizio. La creatività
in questo caso viene usata per incanalare la rabbia o le emozioni violente che
possono caratterizzare la personalità di un detenuto in modo costruttivo e dar vita a
esperienze positive e significative. Nonostante il corpo sia forzatamente recluso, la
mente del detenuto rimane assolutamente libera; l’arte terapia allora può lavorare su
questa mente libera, stimolare la sua creatività e in questo modo cercare di favorire
un cambiamento che anziché reprimere gli istinti aggressivi li trasformi in
espressioni positive di sé. Nel secondo capitolo verrà approfondito il tema attraverso
la narrazione e descrizione di un caso particolare di intervento arte terapeutico in un
carcere Scozzese e il racconto di una serie di esperienze avvenute in Italia, tra cui
quella conosciuta personalmente di San Vittore. Vedremo come in questi casi l’arte
terapia sia stata proposta come vera e propria tecnica psicoterapeutica in contesto
non convenzionale, con risultati tali da indurre ad affermare che è possibile un simile
progetto di intervento a scopi terapeutici.