5
Infine si cercherà di comprendere (cap.6) a quale punto si sia attualmente
giunti nel processo, protrattosi ormai per troppi anni, che dovrebbe portare
all’istituzione del Parco del Carso. Si analizzeranno così le diverse proposte
avanzate e i diversi scenari che si potranno prospettare in un futuro
sperabilmente non troppo lontano e che vedono come situazione ideale
l’istituzione di un Parco Internazionale transfrontaliero o comunque una
gestione delle aree protette in stretta collaborazione con la Repubblica di
Slovenia, in cui oggi si trova la parte maggioritaria del Carso.
6
1
SVILUPPO SOSTENIBILE E PARCHI
1.1 Introduzione
Potrebbe essere molto interessante cercare di capire quale rapporto sia
oggi instaurabile tra il concetto di sviluppo sostenibile e quegli strumenti
istituzionali che rientrano nelle definizioni di “parco” e “riserva naturale”.
Il primo aspetto che va sottolineato è che si tratta di argomenti per i quali
le considerazioni da svolgere e le definizioni da dare mutano
continuamente nel tempo. Pochi grandi temi, infatti, come quello del
rapporto dell’uomo con l’ambiente, si arricchiscono ogni giorno di nuove
problematiche e di nuove soluzioni
1
.
In realtà, parlando di sviluppo sostenibile, benché il riferimento
all’ambiente sembri quello più scontato e immediato, va sicuramente colta
una visione di più ampio respiro. Lo si può intuire già dalla definizione
“ufficiale”, che appare nel famoso “Rapporto Brundtland”, redatto nel 1987
da un’apposita commissione delle Nazione Unite. Lo sviluppo sostenibile è
definito come “…lo sviluppo capace di soddisfare i bisogni del presente
senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i
propri”. Ma lo si nota meglio dalle definizioni più recenti, che parlano di
uno “sviluppo capace di garantire nel tempo il soddisfacimento dei bisogni
dell’intera società umana, compatibilmente con le capacità di carico del
sistema ambientale” (Ecoistituto, 1998, p.16). Da questa visione traspare
come non ci si possa limitare ad una sola dimensione, quella strettamente
ambientale, ma si debba fare riferimento ad uno sviluppo che sia
sostenibile anche dal punto di vista economico e sociale
2
.
1
Il rapporto uomo-ambiente è stato lungamente e variamente studiato dalla geografia, così come
da altre discipline. Per eventuali approfondimenti si veda, p.es., Tinacci Mossello (1990).
2
Si definiscono così i concetti di “equità inter-generazionale” (pari opportunità per le generazioni
oggi viventi e per quelle future) e di “equità infra-generazionale” (pari accesso alle risorse per tutti
i gruppi umani oggi viventi, senza distinzione rispetto al Paese o alla regione in cui vivono).
7
Questo semplicemente perché ciascuna di queste tre dimensioni è
essenziale, se si vuole immaginare un concetto di sviluppo olistico e non
più dicotomico. In passato era infatti prevalente una visione che
contrapponeva in maniera netta lo sviluppo economico e l’ambiente e li
considerava come due realtà inconciliabili. La novità sta proprio nel vedere
il rispetto dell’ambiente come uno dei presupposti fondamentali dello
sviluppo, e quindi il ruolo della questione ambientale diviene, da esogeno,
endogeno.
Si può ben comprendere che, tuttavia, avere assunto questi importanti
paradigmi servirebbe a ben poco se ai concetti non seguissero i fatti. Un
capitolo fondamentale in questo senso è stato scritto nel 1992 a Rio de
Janeiro, alla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo
(UNCED). Qui più di cento capi di stato e di governo hanno potuto
discutere, per la prima volta in modo globale e sistematico, dei rapporti tra
lo sviluppo socio – economico e l’ambiente. Uno dei risultati più importanti
e noti del “Summit di Rio” è stata l’adozione formale dell’Agenda 21, un
massiccio piano d’azione rivolto a tutta la comunità internazionale, che
offre raccomandazioni e suggerimenti di carattere operativo al fine di
favorire in maniera concreta il perseguimento dello sviluppo sostenibile.
Benché appartenga alla sfera della “soft law”, cioè non preveda nessun
obbligo giuridicamente vincolante, è l’espressione di impegno politico sulla
cooperazione internazionale in tema di ambiente al più alto livello che sia
mai stato raggiunto, e per questo di importanza storica mondiale
(Ecoistituto, 1998).
Secondo il primo concetto, produzione e consumi non sostenibili oggi possono degradare le basi
ecologiche, sociali ed economiche per lo sviluppo di domani. Per il secondo, uno sviluppo non
sostenibile di una o più comunità umane può compromettere le possibilità di sviluppo delle altre.
8
1.2 L’Agenda 21 locale
Dal capitolo ventottesimo dei 40 capitoli specifici in cui l’Agenda 21 è
strutturata, scaturisce l’appello rivolto a tutte le autorità locali affinché
definiscano delle politiche di sviluppo sostenibile, avviando azioni precise,
mediante l’adozione di una propria “Agenda 21 locale”. La parola chiave
degli obiettivi di queste azioni locali è sicuramente “partecipazione”: viene
posta enfasi sulla creazione di un consenso generale attorno a una
specifica “Agenda 21 Locale”, mediante processi di consultazione con i
principali attori sociali ed economici attivi sul territorio: i cittadini, i
rappresentanti dei vari gruppi di interesse, le associazioni di categoria, in
rappresentanza dei settori socio-economici più importanti a livello locale.
Questo ruolo cardine rivestito dalla partecipazione emerge anche da quelle
che costituiscono le altre fonti, oltre al citato capitolo 28, del processo di
costruzione dell’Agenda 21 locale: le numerose indicazioni provenienti da
convegni, studi, conferenze di livello internazionale o regionale. Prima fra
tutte, su un piano regionale, la cosiddetta “Carta di Aalborg”, cioè la “Carta
delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile”, firmata nel
1994 da partecipanti provenienti da oltre 30 Paesi europei, la quale pone
l’accento sul ruolo specifico delle città nel perseguire la sostenibilità.
La misura in cui le logiche di Rio e dei successivi accordi sono state
accolte, nella forma di concrete costruzioni di Agende 21 locali, è, in
ambito europeo, qualcosa di estremamente variabile: si va da Paesi come
Svezia e Norvegia, in cui praticamente tutte le amministrazioni locali hanno
avviato i processi in questione, al caso dell’Italia, dove sono ancora molto
poche le realtà che hanno colto l’importanza di uno sviluppo così inteso ed
è ancora prevalente il considerare questo evento più che altro come un
fastidio procedurale.
Vi è da dire inoltre che, soprattutto in Italia, le esperienze di Agende 21
locali hanno coinvolto in misura nettamente maggiore le città, e quindi i
singoli Comuni. Il che è comprensibile, dato che le diverse interazioni e gli
interessi contrapposti che agiscono in ambiti più estesi, come ad esempio
le provincie, rendono le stesse delle realtà molto più complesse.
9
Sembra comunque fondamentale, per una diffusione concreta della
consapevolezza dei benefici reali che le Agende 21 locali possono favorire,
la circolazione e l’interscambio dei cosiddetti esempi di “buone pratiche”.
Per buona pratica si intende “…quell’azione, o progetto promossi da una
città, o da una comunità verso la sostenibilità a livello locale” (Ecoistituto,
1998, p.231). Le buone pratiche dovrebbero possedere un carattere
innovativo e dimostrativo ed essere trasferibili in altre localizzazioni, anche
in presenza di condizioni diverse.
Si può ben capire quindi come il sentiero delineato per affrontare il
problema ambientale segua il cosiddetto approccio “bottom-up”, che parte
cioè dal basso e dal locale. Questo dovrebbe portare a dei vantaggi sia in
termini di equità, sia di efficienza, sia di efficacia; ed appare il più
adeguato anche ragionando in termini negativi, se si considera cioè il
sostanziale fallimento dell’approccio di tipo “command and control”, cioè
quello autoritativo, dall’alto verso il basso (noto anche con l’espressione
“top-down”). Quest’ultimo fallisce proprio perché fa mancare il
collegamento tra chi elabora le politiche ambientali e tutti quei soggetti,
pubblici e privati, che sono chiamati a metterle in pratica
3
.
3
L’efficacia dell’approccio di tipo bottom-up risiede nel fatto che, prevedendo la partecipazione di
tutti i portatori di interesse, che vengono corresponsabilizzati passo dopo passo, è difficile che il
processo decisionale fallisca a causa di opposizioni e ostruzionismi. Appare tuttavia logico ritenere
che, nei casi in cui, per quanto si tenti di elaborare una visione globale condivisa, gli interessi
delle varie parti appaiono difficilmente conciliabili, vi è il rischio di non riuscire a giungere a
decisioni definitive e a dare avvio ad azioni concrete. In queste circostanze si prospetta dunque un
trade-off tra la strategia partecipata e una decisione di tipo centralizzato. Quest’ultima, pur con le
sue carenze in termini di equità ed efficienza, può costituire l’unico mezzo per sbloccare la
situazione.
10
1.3 Rapporto tra aree protette e sviluppo
Che ruolo possono avere le aree protette all’interno di queste ottiche di
sostenibilità? Si può forse rispondere paragonando le teorizzazioni sullo
sviluppo sostenibile e l’evoluzione delle concezioni riguardanti le aree
protette a due corsi d’acqua che, pur partendo, nei tempi e nelle logiche,
da punti fra loro lontani, finiscono man mano per confluire in un corso
unico.
Va infatti detto che gli obiettivi per i quali i parchi e le riserve naturali sono
nati e si sono inizialmente diffusi c’entrano ben poco con discorsi legati
allo sviluppo socio-economico.
Nella seconda metà dell’800, quando nacquero i primi Parchi
4
, le
motivazioni prevalenti erano estetiche: si volevano tutelare i valori
panoramici e scenici del paesaggio, e veniva privilegiato uno sfruttamento
turistico di luoghi spettacolari: “for the benefit and enjoyment of the people”
5
-
recita la celebre epigrafe del parco di Yellowstone. Solo più tardi, grazie
anche allo sviluppo delle scienze che studiano la natura, come l’ecologia,
l’idrobiologia, ecc., si sviluppò la consapevolezza dell’importanza delle aree
protette come luoghi di conservazione e di tutela degli ecosistemi
6
e della
4
Il primo parco nazionale in assoluto fu quello di Yellowstone, istituito nel 1872.
5
Tr.:“Per il beneficio e il godimento del popolo”.
6
Il termine “ecosistema”, utilizzato per la prima volta da Tansley, nel 1935, è stato definito in vari
modi. Odum (1971) afferma: “Living organisms and their nonliving (abiotic) environment are
inseparably interrelated and interact upon each other. Any unit that includes all of the organisms…
in a given area interacting with the physical environment so that a flow of energy leads to clearly
defined trophic structure, biotic diversity and material cycles (i.e., exchange of materials between
living and nonliving parts) within the system is an ecological system or ecosystem.” (Nostra
traduz.: “Gli organismi viventi e il loro ambiente non vivente (abiotico) sono inseparabilmente
correlati e interagiscono tra di loro. Ogni unità che comprenda tutti gli organismi…in una data area
che interagiscono con l’ambiente fisico in modo tale che un flusso di energia conduca ad una
struttura trofica, a una diversità biotica e a cicli di materia (cioè scambi di materia tra parti viventi
e non viventi) entro il sistema chiaramente definiti, è un sistema ecologico, o ecosistema”). Fonte:
http://www.wsu.edu:8001/vcwsu/commons/topics/top_ecosystem/documents/page1.html.
11
biodiversità
7
, da perseguire con metodi scientifici. A dire il vero, in Europa
una valenza scientifica più che fruitiva fu quella prevalente fin dai primi
tempi, ma anche qui l’accento era posto sulla sottrazione dalle azioni
umane delle “bellezze naturali”, in cui dunque era ancora il valore estetico
quello più tenuto in considerazione (Barbero, Furno, 1988).
Lo spirito che prevalse successivamente, per lungo tempo, fu quello di una
conservazione piuttosto rigida, in cui si cercava, nell’area protetta, di
minimizzare l’accesso, la fruizione e la trasformazione da parte dell’uomo.
Certamente permanevano (e tuttora permangono) delle notevoli differenze
nella concezione di parco tra tutte quelle realtà, caratteristiche soprattutto
del continente americano, in cui le aree protette sono costituite da ampi
territori in cui la presenza umana è minima, e quelle realtà, tipiche di molte
regioni europee, caratterizzate da spazi esigui fortemente antropizzati, in
cui, quindi, è massimo lo sfruttamento di tipo privatistico, secondo le
regole del mercato. In queste ultime il modello di tipo americano è sempre
stato difficilmente impostabile.
La filosofia di una conservazione rigida e perseguita con metodi
necessariamente autoritativi trova la sua origine nella già richiamata
bipolarizzazione uomo – ambiente, natura – cultura. Questa dicotomia,
ritenuta fino ad anni recenti ineluttabile, deriva a sua volta, come si può
facilmente intuire, dai crescenti processi di urbanizzazione, di
industrializzazione e di sfruttamento e modificazione tecnologica
dell’ambiente caratteristici dell’epoca industriale.
Appare chiaro, da tutti i ragionamenti finora portati avanti, che il
superamento di questa visione dicotomica ha tratto impulso da quegli
stessi profondi cambiamenti socioculturali che hanno permesso di
lanciare, a livello internazionale, il concetto di sviluppo sostenibile. Questi
cambiamenti sono stati capaci di influire sugli atteggiamenti e i
7
Una definizione di “diversità biologica”, o “biodiversità”, è stata data nel 1991 dall’IUCN (cfr.
nota 8), dall’United Nations Environment Programme (UNEP – Programma delle Nazioni Unite
per l’Ambiente) e dal WWF. La biodiversità è definita come “the variety of life in all its forms,
levels and combinations. It includes ecosystem diversity, species diversity and genetic diversity
(tr. “la varietà della vita in tutte le sue forme, livelli e combinazioni. Comprende la diversità degli
ecosistemi, delle specie e la diversità genetica”).
12
comportamenti personali e collettivi, influenzando alla fine anche le
decisioni politiche in tema di protezione ambientale.
Essi si possono sintetizzare nella graduale affermazione, nella coscienza
collettiva, dei “diritti dell’ambiente”; nella rifioritura dei valori etno-
linguistici e dei localismi, come parte del patrimonio territoriale e quindi
ambientale della collettività; nel nuovo atteggiamento verso la natura,
sempre meno ispirato ad una sopraffazione antropocentrica (Gambino,
1996). E’ poi probabile che le dichiarazioni internazionali, le politiche
pubbliche e soprattutto le campagne informative abbiano un effetto
positivo di feedback nell’accrescere a loro volta tali atteggiamenti nella
coscienza sociale.
In questa nuova ottica, in cui, all’interno dei parchi, viene definitivamente
superata l’antinomia conservazione – sviluppo, le aree protette non
possono che inquadrarsi come degli strumenti privilegiati di perseguimento
dello sviluppo sostenibile. Anzi, le interferenze antropiche non vanno più
considerate necessariamente – e questo discorso vale in misura
nettamente maggiore in Europa – in termini di “alterazioni” negative agli
ecosistemi, ma possono assumere l’aspetto positivo di modellazioni del
paesaggio, di notevole valore culturale e storico, o addirittura di azioni
capaci di ricostruire dei valori naturalistici. Viene subito in mente l’esempio
dell’Olanda, dove storicamente le azioni umane sul paesaggio sono state di
straordinaria importanza. E si vedrà in seguito che lo stesso ragionamento
è valso, anche se con proporzioni, modi e tempi totalmente diversi, anche
per lo stesso territorio del Carso.
A questo punto può sorgere un’obiezione, basata sul fatto che, almeno allo
stato attuale delle cose, parchi e riserve costituiscono comunque delle
porzioni di territorio tra di loro non collegate, ovvero delle “isole” protette
in un mare non protetto, mentre la stessa nozione di sostenibilità
presuppone, per sua stessa natura, una forma di sviluppo compatibile che
non può procedere, geograficamente, “a salti”. Una possibile risposta si
può dare ricordando una dichiarazione fatta nel 1990 dalla Commissione
13
dei parchi nazionali e delle aree protette dell’IUCN
8
, che afferma come sia
indispensabile “…integrare i parchi in un più vasto sistema di
pianificazione regionale”. Questo concetto viene poi ribadito anche dalla
Dichiarazione di Caracas
9
, nel 1992.
L’esperienza ha permesso di constatare come sia opportuno prevedere
innanzitutto delle zone di tutela attorno al parco che facciano da cuscinetto
tra l’area protetta e l’esterno: le cosiddette “buffer zones”, o “aree
contigue”, o “pre-parchi”, o “zones périphériques”. Tuttavia si è visto che
queste misure possono risultare insufficienti nel contrastare l’azione degli
edge-effects, che sono appunto gli effetti negativi che le pressioni esterne
alle aree protette generano, manifestandosi ai loro margini o ai loro bordi e
rivelandosi spesso disastrosi sugli ecosistemi delle stesse. Ciò ha portato,
nei primi anni Novanta, alla proposta di una Rete ecologica europea
secondo il programma “Natura 2000”, definito dalla direttiva CEE 92/43
del 1992
10
. Il progetto prevede appunto una rete internazionale di habitat
naturali protetti, collegati tra di loro da “corridoi di connessione ecologica”.
Presupposto del successo dell’iniziativa è che ogni stato formi proprie reti
ecologiche regionali e nazionali come parte della rete europea (Gambino,
1994).
A questa risposta, di carattere operativo, al problema dell’isolamento
reciproco delle aree protette nel perseguimento di uno sviluppo sostenibile,
se ne può aggiungere un’altra, che risiede, se vogliamo, su un piano più
“filosofico”, ma è utilissima per inquadrare i parchi in una logica coerente
di protezione. Si tratta di riconoscere alle aree protette un valore
8
“International Union for Conservation of Nature and Natural Resources”, (“Unione
internazionale per la conservazione della natura e delle risorse naturali”) – fondata nel 1948,
riunisce 78 stati, 112 agenzie governative, 735 organizzazioni non governative e circa 10 mila tra
scienziati ed esperti da 181 paesi. Il suo scopo è quello di influenzare, incoraggiare ed assistere le
comunità di tutto il mondo a conservare l’integrità e la diversità della natura ed assicurare che gli
usi delle risorse naturali siano equi ed ecologicamente sostenibili. Ha la sede principale a Gland,
Svizzera (www.iucn.org).
9
IUCN, Caracas Declaration, IVth World Congress on National Parks and Protected Areas,
Caracas 1992.
10
Cfr. cap.2
14
rappresentativo e simbolico, “…una funzione ‘retorica’ di rappresentazione
e comunicazione socioculturale.” I modelli di sviluppo attuati all’interno dei
parchi possono esplorare e anticipare soluzioni allargabili poi anche
all’esterno, facendo divenire i parchi una sorta di “punti di eccellenza”
(Gambino, 1994 e 1996). Ed è soprattutto in questo senso che andrebbe
intesa l’espressione chiave usata in precedenza, quella che vede parchi e
riserve naturali come strumenti privilegiati di perseguimento della
sostenibilità; cioè nella loro veste di esempio e di guida, sia in un ambito
operativo che in quello mirante ad un aumento della consapevolezza, nella
coscienza sociale, delle tematiche legate al nuovo rapporto che deve essere
instaurato tra uomo e ambiente.
15
1.4 Il ruolo della pianificazione
All’interno di questo modo di concepire il rapporto tra aree protette e
perseguimento della sostenibilità si inserisce un argomento di importanza
cruciale che investe gli aspetti più pratici del problema: la questione della
pianificazione. Va subito detto che uno dei fulcri dell’intera problematica è
il rapporto che il Piano del parco naturale deve avere con gli strumenti di
pianificazione territoriale ordinaria, nel territorio compreso entro i suoi
confini. Premesso che anche in questo ambito si riscontra, tra i diversi
Paesi europei, una diversificazione molto marcata, si possono riconoscere
al Piano del parco tre funzioni distinte, e precisamente quelle di (Gambino,
1994):
1. Strumento di gestione del parco: il Piano considera le attività di
fruizione e soprattutto le attività economiche che interferiscono con il
parco e che non possono essere confinate nel suo perimetro.
2. Strumento di controllo degli usi del suolo: si concretizza nella forma
della “zonizzazione”, cioè la diversificazione della disciplina nelle
diverse parti dell’area.
3. Strumento di giustificazione delle scelte di conservazione e di
trasformazione: nel senso che il Piano costituisce la struttura logica e
programmatica che giustifica le misure adottate e tenta di rendere
partecipi i soggetti che di tali misure sono i destinatari, delle
motivazioni dell’adozione delle misure stesse
E’ ormai chiaro che quanto più l’area protetta si inserisce in un territorio
antropizzato e urbanizzato – e questo, si è visto, è il caso di gran parte
dell’Europa – tanto più dovrebbe esistere una interazione tra il Piano del
parco e la pianificazione del contesto territoriale in cui la zona protetta è
inserita (Piani territoriali, urbanistici, paesistici).
In Italia la “legge quadro sulle aree protette”, (L. 6/12/1991 n.394) ha il
merito di aver riconosciuto l’importanza della pianificazione come
fondamento della difesa dell’ambiente, riflettendo un orientamento di
livello internazionale e in netto contrasto con la crisi e la sfiducia verso la
pianificazione stessa che aveva caratterizzato soprattutto gli anni Settanta
16
e Ottanta. Tuttavia non viene prevista dalla legge nessuna interazione con
la pianificazione territoriale del contesto: il Piano del parco “…sostituisce a
ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali o urbanistici e ogni altro
strumento di pianificazione” – recita la norma (art.12, c.7). Si può capire
come questo porti ad una concezione rigida delle aree protette, viste come
entità a sé stanti e isolate dal loro contesto territoriale.
Inoltre, è stato osservato, gli strumenti di pianificazione della 394/91
appaiono poco adatti alla complessità della gestione di un’area protetta,
dato che nella loro struttura di fondo sono di derivazione sostanzialmente
urbanistico-territoriale, nel senso che la disciplina delle destinazioni di uso
del suolo si fonda essenzialmente su una logica del “consentito–vietato”.
Sarebbe invece opportuno indicare come vanno svolte le attività
compatibili, invece che stabilire semplicemente cosa e dove si può o non si
può fare (Masini, 1997).
In altre parole occorrerebbe, in armonia con le tre funzioni del piano sopra
ricordate, una programmazione “attiva”, con partecipazione e adesione di
tutti gli attori economici e sociali coinvolti, e non un mero insieme di
limitazioni e divieti. Sostituire quindi alla parola d’ordine “controllo”, la
parola “sviluppo partecipato”. Uno dei punti chiave nella pianificazione dei
parchi, e nella stessa concezione che si è affermata oggi di area protetta,
viene dunque a coincidere con il principio fondamentale che come si è visto
deve caratterizzare la costruzione delle Agende 21 locali, e cioè
l’importanza della partecipazione e del coinvolgimento più ampio possibile
della popolazione locale.
Le comunità locali hanno sempre delle attese di sviluppo: se ciò che emerge
dall’istituzione o dalla gestione dell’area protetta – come anche dalle
misure ambientali adottate nell’ambito delle Agende 21 – viene percepito
dalla comunità locale come qualcosa di imposto e di limitante, è molto
probabile che essa si opporrà con forza e non collaborerà mai alle azioni di
tutela.
Uno degli scopi primari nella programmazione dovrebbe così essere quello,
innanzitutto, di riequilibrare i costi e i benefici tra gli insiders e gli
outsiders: i primi si identificano con le comunità locali, mentre i secondi con
comunità molto più vaste, come possono essere quella regionale o quella
17
nazionale. I parchi vengono infatti istituiti anche “nell’interesse” di queste
ultime, mentre il prezzo viene pagato di solito solo dai primi. Questo
problema è stato ampiamente affrontato, con il supporto di numerose
indagini, dalla scienza economica, ed è stato rilevato che, per quanto
concerne l’uso e la frequentazione dei parchi naturali, vi è una marcata
prevalenza relativa dei ceti medio-alti, mentre le penalizzazioni gravano
soprattutto sulle comunità rurali locali (Gambino, 1994). Si potrà
constatare in seguito come questo rischio appaia particolarmente presente,
per la peculiare situazione geografica e socio-politica, anche nell’area del
Carso triestino ed isontino candidata ad essere ricompresa in un parco.