o di riconoscimento ed esecuzione del lodo. L’analisi dei rapporti tra arbitrato e diritto
comunitario che verrà svolta riguarderà tutti questi momenti, che saranno trattati
separatamente per chiarezza espositiva.
Alcuni aspetti relativi alla possibilità per i giudici nazionali di adottare misure che
influiscono sullo svolgimento di un arbitrato o sulla circolazione del lodo sono
disciplinati da alcuni importanti strumenti internazionali relativi all’arbitrato conclusi
all’infuori della Comunità ma che sono stati ratificati da molti Stati membri. Essi
saranno descritti brevemente nella rimanente parte del primo capitolo; in tale occasione
si specificherà anche quali Stati della CE ne sono parte.
Nel secondo capitolo si osserverà come, nonostante l’art. 293 del Trattato di Roma
istitutivo della Comunità Europea menzionasse l’arbitrato, tuttavia tale istituto giuridico
non è stato in seguito oggetto di significativa produzione normativa a livello
comunitario. In particolare si noterà come l’arbitrato sia espressamente escluso dalla
Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali e,
cosa più importante ai fini della presente tesi, dalla Convenzione di Bruxelles del 1968
sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale, in seguito “comunitarizzata” e trasformata nel regolamento 44/2001.
Si dimostrerà che questo non è dovuto ad un atteggiamento ostile nei confronti
dell’arbitrato da parte delle istituzioni comunitarie, le quali anzi favoriscono
esplicitamente anche altri sistemi di soluzione delle controversie alternative alla
giustizia ordinaria. Semplicemente il legislatore comunitario ha ritenuto che fossero
sufficienti a disciplinare l’arbitrato anche all’interno della CE gli altri strumenti
internazionali vigenti e di cui si era parlato nel primo capitolo.
Nel terzo capitolo si valuterà la portata dell’esclusione dell’arbitrato nella detta
Convenzione di Bruxelles e nel regolamento 44/2001, cercando di individuare tra le
misure che possono essere adottate dai giudici degli Stati prima dell’inizio dei
procedimenti arbitrali e durante lo svolgimento dell’arbitrato stesso quelle che
effettivamente rientrano in tale esclusione. A tal fine si farà ricorso a quanto contenuto
nei rapporti ufficiali alla Convenzione di Bruxelles e a due importanti sentenze della
Corte di Giustizia. Si valuteranno sotto tale prospettiva anche le questioni legate alla
litispendenza, alla res judicata e all’istituto giuridico inglese delle antisuit injunctions.
6
Nei capitoli successivi si analizzeranno invece le possibilità di intervento da parte della
giustizia ordinaria, successive alla pronuncia del lodo, al fine di garantire l’applicazione
del diritto comunitario. Ci si soffermerà in particolare sulla facoltà di un giudice di uno
Stato di annullare o di non riconoscere né eseguire un lodo qualora esso violi norme di
ordine pubblico internazionale.
Sarà necessario procedere nel seguente modo. Nel quarto capitolo per prima cosa si
definirà in generale la nozione di ordine pubblico, operando le dovute precisazioni per
non confonderla con quella di norme imperative o di norme di applicazione necessaria.
In seguito si stabilirà quali sono i limiti che il diritto comunitario pone alla nozione di
ordine pubblico degli Stati per poi cercare di capire se esiste anche una nozione europea
di ordine pubblico internazionale, ed eventualmente quale sia il suo contenuto. Nel
capitolo quinto si analizzerà come la mancata applicazione in un arbitrato di norme
comunitarie aventi carattere di ordine pubblico possa influire sul diritto/dovere dei
giudici nazionali competenti di annullare un lodo oppure di negargli riconoscimento ed
esecuzione. In tal sede si distinguerà tra arbitrabilità di una controversia ed esistenza di
norme di ordine pubblico suscettibili di venire in rilievo nel corso di un procedimento
arbitrale e si analizzeranno in generale le cause e le modalità di un’azione di
annullamento di un lodo, nonché del rifiuto a riconoscerlo e a dargli esecuzione.
Nel sesto e nel settimo capitolo si analizzeranno due categorie di norme comunitarie che
sono provviste di carattere di ordine pubblico e la cui violazione da parte degli arbitri
può comportare, come affermato chiaramente dalla Corte di Giustizia, l’annullamento
del lodo. Si tratta, rispettivamente, delle norme relative alla concorrenza e di quelle sulla
protezione di alcuni diritti dei consumatori. Si fornirà una descrizione abbastanza ampia
del contenuto di dette norme, nonché dell’importanza che esse hanno acquisito
nell’ambito dell’ordinamento comunitario: ciò permetterà di spiegare perché ad esse la
Corte di Giustizia ha ritenuto necessario attribuire carattere di ordine pubblico mediante
due importantissime sentenze, le quali saranno analizzate nel dettaglio. Particolare
spazio sarà dedicato alla normativa comunitaria antitrust: verrà descritta la disciplina
vigente prima dell’entrata in vigore del regolamento 1/2003 e poi le importanti
innovazioni introdotte da tale atto. Ci si soffermerà inoltre sul ruolo crescente che le
istituzioni europee, e in particolare la Commissione, attribuiscono all’arbitrato ai fini del
controllo dell’applicazione del diritto comunitario antitrust, soprattutto in sede di
7
controllo del rispetto delle decisioni della Commissione con cui essa autorizza le
concentrazioni tra imprese suscettibili di produrre effetti anticoncorrenziali.
Nel capitolo ottavo si cercherà di capire come si può conciliare l’obbligo per gli arbitri
di rispettare l’ordine pubblico comunitario (e l’obbligo per i giudici di farlo rispettare)
con alcune norme di diritto processuale interno degli Stati e che il diritto comunitario fa
salve. In particolare si vedrà come gli arbitri potranno pronunciarsi su questioni attinenti
l’ordine pubblico comunitario anche in assenza di una richiesta delle parti in tal senso e
senza che ciò comporti una pronuncia ultra petita.
Nel corso del lavoro, e in particolare negli ultimi capitoli, emergerà con particolare
chiarezza che gli arbitri si trovano sempre più spesso nella situazione di dover applicare
il diritto comunitario e che in alcuni casi essi dovrebbero agire addirittura come
“guardiani” della corretta interpretazione del medesimo. Si metteranno in evidenza i
problemi che ciò comporta, soprattutto riguardo al rischio che l’arbitrato perda in parte
la sua natura di strumento di risoluzione delle controversie che si basa sul principio
dell’autonomia delle parti. Inoltre si cercherà di capire quali strumenti sono a
disposizione degli arbitri affinché essi, trovandosi sempre più spesso nella condizione di
dover applicare il diritto comunitario, possano fare ciò correttamente, evitando le gravi
conseguenze che la violazione di una norma comunitaria (soprattutto di ordine
pubblico) può comportare. Sotto quest’ultimo profilo ci si domanderà se per gli arbitri è
previsto, al pari dei giudici nazionali, il diritto/dovere di porre alla Corte di Giustizia
delle questioni pregiudiziali. La risposta a tale quesito occuperà l’intero capitolo nono.
Dopo aver accennato brevemente ai meccanismi con cui la Comunità Europea assicura
la corretta ed uniforme applicazione del diritto comunitario in tutto il suo territorio, e
dopo aver approfondito tra questi meccanismi quello del rinvio pregiudiziale, ci si
domanderà se a quest’ultimo possono ricorrere anche gli arbitri. Si citerà a tal fine la
giurisprudenza della Corte di Giustizia in merito, che è relativamente abbondante e che
ha dato una risposta coerente e completa, la quale non ha subito cambiamenti negli
ultimi quattro decenni. Si analizzeranno infine le critiche di parte della dottrina a tale
giurisprudenza, ma si porranno in evidenza anche i problemi che una diversa soluzione,
se adottata dalla Corte, avrebbe potuto causare.
8
9
CAPITOLO I
AUTONOMIA DELLE PARTI E INTERVENTO DEGLI
STATI NELL’ARBITRATO INTERNAZIONALE
1. Nozione e portata del principio di autonomia delle parti
Analizzare il rapporto tra l’arbitrato internazionale l’ordinamento comunitario significa
essenzialmente cercare di capire come l’applicazione del diritto comunitario possa
influire sullo svolgimento dell’arbitrato. Significa poi analizzare quando e in che misura
i tribunali degli Stati membri della Comunità Europea, agendo conformemente alla
normativa CE, possano intervenire nello svolgimento di un arbitrato e come possa la
loro attività influire sul riconoscimento e sull’esecuzione di un lodo
1
. Questo solleva
questioni di interesse generale più ampie sul rapporto tra arbitrati e giustizia ordinaria e
sulla relazione tra autonomia delle parti e intervento degli Stati nell’arbitrato. La
trattazione di questi argomenti, anche alla luce delle numerose convenzioni
internazionali in materia, deve essere quindi svolta preliminarmente, così da chiarire
molti aspetti che verranno poi affrontati nell’analisi del rapporto tra arbitrato e
ordinamento comunitario.
L’arbitrato commerciale internazionale può essere definito come l’istituto giuridico
utilizzato da soggetti privati, siano essi persone fisiche che giuridiche, nella prassi delle
loro relazioni commerciali internazionali, finalizzato alla soluzione di controversie
relative a contratti internazionali che vengono sottratte alla giurisdizione ordinaria degli
Stati per essere sottoposte al giudizio di soggetti terzi, liberamente scelti dalle parti
contendenti in modo diretto o mediato
2
.
1
M. Frigo, L’arbitrato e il diritto comunitario, in M. Rubino Sammartano (a cura di) Arbitrato, ADR,
Conciliazione, Zanichelli, Bologna 2005, in corso di pubblicazione.
2
Non esiste una definizione uniforme e internazionalmente condivisa di arbitrato internazionale, ad
esempio elaborata dall’UNCITRAL o da qualche altra organizzazione internazionale. In ogni caso
qualsiasi definizione dell’arbitrato deve tenere in conto dei seguenti elementi: la finalità dell’arbitrato, che
è quella di risolvere le controversie, il suo carattere contrattuale, consensuale e privato, l’obbligatorietà
del lodo. Si veda a proposito: M. Eric E. Bergsten, Arbitrage commercial international, in Conference des
nations unies sur le commerce et le développement, règlement des différends, Nations Unies, New York
et Genève, 2005, punto 1,2.
10
Già da questa definizione emerge l’importanza dell’accordo delle parti affinché un
arbitrato possa svolgersi e produrre effetti. Infatti si ricorrerà ad un arbitrato in caso di
controversia soltanto quando le parti manifesteranno una loro volontà in tal senso. Ciò
costituisce una differenza notevole rispetto alla giurisdizione ordinaria, poiché in caso
di ricorso ad essa da parte di una delle parti (l’attore), l’altra parte (il convenuto) è
tenuta a comparire innanzi al giudice di uno Stato, indipendentemente dalla sua volontà.
La scelta di ricorrere all’arbitrato anziché alla giustizia ordinaria può essere espressa
prima del sorgere della controversia, mediante una clausola compromissoria, oppure
dopo che la controversia è sorta, stipulando un compromesso. Tuttavia, una volta che
tale volontà è espressa le parti sono obbligate a partecipare all’arbitrato. In alcuni casi la
parte che teme di risultare soccombente tenta di impedire o ritardare la costituzione del
tribunale arbitrale, ad esempio lamentando l’invalidità della clausola compromissoria
oppure affermando che essa, sebbene valida, non comprenda la materia oggetto di
controversia. E’ poi possibile che essa cerchi di sabotare le procedure arbitrali, oppure
che, alla fine dell’arbitrato, chieda l’annullamento del lodo o si rifiuti di eseguirlo.
Inoltre in molti ordinamenti giuridici, tra cui l’Italia, il tribunale arbitrale, non essendo
un organo dello Stato, non può ordinare misure coercitive nei confronti della parte che,
ad esempio, non partecipa diligentemente all’arbitrato oppure che si rifiuta di
ottemperare alla decisione degli arbitri. La mancanza di tale potere coercitivo
rischierebbe di rendere l’arbitrato una procedura la cui effettività dipende
esclusivamente dalla buona volontà delle parti e dalla disponibilità del soccombente di
adempiere ad una sentenza di condanna pur senza essere costretto a farlo. E’ pertanto
evidente la necessità di rimedi che rendano effettivo l’obbligo di partecipare con la
dovuta diligenza alle procedure arbitrali e di rispettare il lodo arbitrale, una volta che le
parti si sono impegnate a far questo mediante la stipula di una clausola compromissoria
o di un compromesso. Nell’antichità gli arbitrati, così come i commerci e le altre attività
economiche tra privati, erano regolamentati e tutelati dagli Stati in modo limitatissimo.
Di conseguenza la tutela dello svolgimento degli arbitrati, così come il rispetto del lodo,
avvenivano pressoché esclusivamente all’interno delle corporazioni o degli ambienti
economici in cui gli arbitrati stessi si svolgevano e producevano effetti. Ad esempio una
parte che decideva di ricorrere ad un arbitrato e che poi rifiutava di parteciparvi o di
rispettarne il lodo veniva sanzionata non dal pubblico potere, bensì dai comportamenti
11
degli operatori economici con cui essa poteva intrattenere rapporti d’affari: in tal caso le
“sanzioni” potevano consistere in grave perdita di reputazione, in un generale
atteggiamento di ostracismo, nel rifiuto di concludere affari e via dicendo. Tali forme di
possibili sanzioni, che in linea di massima risultavano efficaci e costringevano la parte
soccombente ad adempiere, esistono ancora oggi: infatti ancora ai nostri giorni la parte
che non rispetta la decisione degli arbitri sarà considerata inaffidabile e scorretta dagli
altri operatori economici e di conseguenza quest’ultimi avranno maggiori remore a
stipulare contratti con essa. Tuttavia oggi non solo la comunità degli affari, ma anche i
pubblici poteri dello Stato si preoccupano di assicurare il corretto svolgimento
dell’arbitrato, così come quello di rispettare i lodi validi. Un maggior intervento degli
Stati nelle procedure arbitrali è fatto risalire alla fine del XVIII secolo; in un primo
momento la regolamentazione degli arbitrati era essenzialmente restrittiva, e riduceva la
possibilità di ricorrere a tale strumento di soluzione delle controversie in casi
estremamente limitati. Questo rifletteva la diffidenza degli Stati nei confronti di
procedure giurisdizionali private che sottraevano la controversia al giudizio dei propri
tribunali. In seguito, a partire dalla fine del XIX secolo e ancor più dopo la metà del
‘900 una rinnovata fiducia nei confronti dell’arbitrato (inizialmente soprattutto di quello
internazionale) ha fatto sì che gli Stati, e i loro giudici, vedessero con favore in un
numero crescente di casi il deferimento di una controversia all’arbitrato
3
. Questo però
non comportava un ritorno ad un arbitrato totalmente indipendente dagli Stati, così
come avveniva nell’antichità. Al contrario gli Stati mantenevano nella propria
legislazione numerose norme relative all’arbitrato, sia con il fine di impedire che il
ricorso all’arbitrato potesse comportare l’aggiramento o il mancato rispetto di
importanti norme del proprio ordinamento, sia anche per favorire ed aiutare lo
svolgimento dell’arbitrato. Questa situazione deriva dal fatto che se da un lato gli Stati
sono interessati al buon funzionamento delle procedure arbitrali, all’altro essi sono
portatori di numerosi altri interessi, che il ricorso all’arbitrato ad opera delle parti non
deve comunque pregiudicare.
Per massimizzare l’utilità dell’arbitrato e gli effetti del suo lodo è necessario che i
giudici adottino i seguenti comportamenti. Sotto un primo profilo (profilo delle misure
“negative”) dovrebbero astenersi dall’adottare delle misure il cui risultato sarebbe
3
J. D. M. Lew, Achieving the Dream: Autonomous Arbitration, in Arbitration International, 2006, pagg.
182 ss..
12
quello di impedire lo svolgimento dell’arbitrato o gli effetti del suo lodo. Ciò significa
ad esempio che è necessario che un giudice non giudichi una controversia qualora essa
rientri nell’abito di applicazione di una clausola compromissoria, oppure non intervenga
non richiesto nello svolgimento dell’arbitrato, oppure non annulli un lodo o non si rifiuti
di riconoscerlo o di eseguirlo, all’infuori di limitate circostanze eccezionali.
4
Sotto un
secondo profilo invece (profilo delle misure “positive”), gli organi dello Stato
dovrebbero adottare i provvedimenti necessari per far si che il procedimento arbitrale
inizi o non si blocchi, ad esempio a causa di manovre dilatorie o tentativi di sabotaggio
del procedimento da parte del convenuto o di chi in generale teme di risultare
soccombente. Infatti, sebbene si riconosca ampia libertà alle parti e agli arbitri affinché
essi prendano le misure necessarie per garantire il buon svolgimento dei procedimenti
5
,
tuttavia in alcuni casi essi non sono nelle condizioni di poterlo fare. Questo può
avvenire quando sono necessari dei provvedimenti per la costituzione del tribunale
arbitrale, il quale, non essendo ancora costituito, non può per l’appunto emetterli da se.
Può inoltre avvenire quando è necessario costringere le parti ad assumere certi
comportamenti: un tribunale arbitrale non è un organo dello Stato e molti ordinamenti,
come quello italiano o francese, non gli riconoscono in ogni caso potere coercitivo: deve
quindi rivolgersi alla pubblica autorità ogniqualvolta abbia urgentemente bisogno di far
adottare misure direttamente esecutive.
6
Può essere infine necessario che il giudice si
attivi per dare riconoscimento ed esecuzione ad un lodo, in caso di non adempimento
spontaneo della parte soccombente.
Per cercare di chiarire il rapporto l’arbitrato e l’attività dei giudici di uno Stato è
possibile rifarsi a diverse teorie sulla natura stessa dell’arbitrato.
Una di esse pone l’accento sulla volontà delle parti e sulla natura contrattuale
dell’arbitrato. Di fatto l’arbitrato si svolge perché le parti hanno espresso la loro volontà
in tal senso mediante la stipula di un contratto o di una clausola di un contratto (la
clausola compromissoria). E’ innegabile che tale scelta può avere efficacia e può
4
P. Nygh, Choice of forum and laws in international commercial arbitration, in Forum Internationale,
1997, pagg. 1-32; A. Redfern, M. Hunter, N. Blackaby, C. Partasides Law and practice of international
commercial arbitration, cit., pagg. 328 ss..
5
L. Fumagalli, La legge applicabile al merito della controversia nell’arbitrato commerciale
internazionale, in Rivista di Diritto privato internazionale processuale, 1985 pagg. 465 ss.; L. Fumagalli,
La legge applicabile al merito della controversia secondo il regolamento ICC del 1998 in Diritto del
Commercio Internazionale, 2001, pagg. 539 ss..
6
P. Bernardini, L'arbitrato commerciale internazionale, cit., pagg. 141 ss.; A. Redfern, M. Hunter, N.
Blackaby, C. Partasides Law and practice of international commercial arbitration, cit., pagg. 331 ss..
13
produrre effetti solo se gli Stati ammettono preliminarmente la possibilità per le parti,
se lo vorranno, di ricorrere all’arbitrato anziché alla giustizia ordinaria.
Tuttavia il principio di autonomia delle parti non consiste nel fatto che esse assumono,
regolano o estinguono obbligazioni giuridiche al di fuori delle leggi degli Stati, bensì
proprio nel fatto che gli ordinamenti degli Stati prevedono per le parti un’ampia libertà
in tal senso.
Come è stato messo in risalto dalla dottrina, il principio di autonomia si esplicherebbe
con particolare forza proprio nell’arbitrato, e in particolar modo nell’arbitrato
internazionale. In esso, infatti, le parti possono scegliere le sede dell’arbitrato che può
essere fissata addirittura in un Paese che non presenta nessun legame con la controversia
e che viene scelto proprio per la sua neutralità (ad esempio per non essere quello di
nessuna delle parti) o perché presenta una legislazione particolarmente favorevole e
liberale nei confronti dell’arbitrato. In alcuni casi, ad esempio nell’ordinamento Italiano,
è possibile stabilire la sede in un Paese ma poi, di fatto, tenere le udienze e far svolgere
tutte le altre procedure in luoghi diversi.
7
Per quanto riguarda la legge applicabile o, meglio, le norme applicabili, anche qui
sussiste un margine di autonomia molto ampio, così da permettere agli operatori
economici di elaborare soluzioni “personalizzate” che si adattino nel modo più
conveniente alle particolarità di ogni affare. In linea teorica le parti possono infatti
sottoporre il contratto che contiene la clausola compromissoria a una legge e sottoporre
poi la clausola compromissoria a una legge diversa; possono inoltre stabilire che gli
arbitri applicheranno il diritto materiale di un Paese ma il diritto procedurale di un altro
Paese, e quest’ultimo potrebbe anche non essere il diritto del giudice della sede
dell’arbitrato. Una simile complicazione potrebbe portare ad alcuni problemi pratici;
senza addentrarsi in tali questioni è sufficiente riconoscere che tutto ciò comporta una
grande libertà per le parti. Esse possono anche chiedere che non si applichi il diritto di
un determinato Paese, ma che si giudichi secondo i principi della lex mercatoria o
secondo equità.
8
Sembra poi possibile designare come diritto applicabile direttamente
7
art. 816 del codice di procedura civile.
8
A. Redfern, M. Hunter, N. Blackaby, C. Partasides Law and practice of international commercial
arbitration, 4. ed. - London : Sweet & Maxwell, 2004 pagg. 77-129; P. Nygh, Choice of forum and laws
in international commercial arbitration, in Forum Internationale, 1997, pagg. 1-32; L. Fumagalli, La
legge applicabile al merito della controversia nell’arbitrato commerciale internazionale, in Rivista di
Diritto privato internazionale processuale, 1985 pag 465 ss.; L. Fumagalli, La legge applicabile al merito
14
dei trattati internazionali o delle direttive europee al posto delle leggi nazionali di
ratifica o di recepimento. Ciò è ad esempio avvenuto, in relazione al diritto europeo, per
il contratto di agenzia. Nella sentenza arbitrale 9032/98 della ICC l’arbitro aveva
riconosciuto la validità della clausola compromissoria con cui le parti avevano indicato
come diritto applicabile la direttiva 86/653 sul contratto di agenzia. Nella sentenza ICC
8817/97 un arbitro, che doveva decidere quale fosse la legge applicabile in mancanza di
scelta delle parti aveva scelto di applicare direttamente la direttiva, senza passare per le
norme di conflitto di leggi, affermando che si trattava di norme in vigore in entrambi i
Paesi delle parti contraenti. Le soluzioni adottate nei due lodi sopraccitati, che secondo
la dottrina si presterebbero a qualche critica sotto il profilo formale, tuttavia permettono
di applicare a un rapporto giuridico direttamente le norme di una direttiva, che sono
uguali per tutte le parti, indipendentemente dal loro Stato di appartenenza. Al contrario,
se si applicassero le norme nazionali con cui si ratifica un trattato o si recepisce una
direttiva si applicherebbero norme che possono differire (e non sempre in modo
minimo) tra uno Stato e l’altro
9
. Meno critiche solleverebbe invece in un contratto di
compravendita la designazione come legge applicabile della Convenzione di Vienna del
1980 sulla compravendita dei beni mobili, la quale contiene norme di diritto materiale
direttamente applicabili. La ratio che sottende tali scelte è in ogni caso la percezione che
il diritto interno di uno Stato è nato per disciplinare rapporti giuridici interni e che
quindi potrebbe risultare non adatto in caso di contratti che presentano elementi di
estraneità.
10
Altri strumenti internazionali a carattere non vincolante possono essere
designati dalle parti non come diritto applicabile, ma come regole di procedura (da non
confondersi con le norme di procedura o diritto procedurale): il caso tipico è quello del
regolamento UNCITRAL, utilizzabile in arbitrati amministrati e ad hoc, ma si possono
anche menzionare i regolamenti delle varie camere arbitrali presenti nel mondo.
11
della controversia secondo il regolamento ICC del 1998 in Diritto del Commercio Internazionale, 2001,
pagg. 539 ss.; L. G. Radicati di Brozolo, Arbitrage commercial international et lois de police, in Recueil
de Cours, , L’Aja, 2005, pagg. 282 ss..
9
A. Giardina, Le convenzioni internazionali di diritto internazionale privato e di diritto uniforme nella
pratica dell’arbitrato commerciale internazionale, in Rivista dell’Arbitrato, 1998, pagg. 191 ss F.
Bortolotti, Manuale di diritto commerciale internazionale, cit. pagg. 220 ss..
10
R. Goode, The Role of the Lex Loci Arbitri in International Commercial Arbitration cit., pagg. 21; A.
Giardina, Le convenzioni internazionali di diritto internazionale privato e di diritto uniforme nella
pratica dell’arbitrato commerciale internazionale, cit., pagg. 191 ss..
11
P. Bernardini, L'arbitrato commerciale internazionale, cit. pagg. 32 e ss.; R. Goode, The Role of the Lex
Loci Arbitri in International Commercial Arbitration in Arbitration International 2001, pagg. 21 ss..
15
Una teoria che enfatizza la natura contrattuale e privatistica dell’arbitrato tenderebbe
quindi a sostenere un’autonomia molto ampia per le parti e, al contempo un ruolo molto
ridotto per i giudici degli Stati che dovrebbero in linea di massima astenersi
dall’intervenire per non inficiare la libertà delle parti e l’efficacia dell’arbitrato. Un
approccio che porti alle estreme conseguenze il principio dell’autonomia delle parti può
condurre a una concezione di arbitrato a-nazionale, o stateless sostenuta da parte della
dottrina francese. Essa si basa sull’idea di un arbitrato che si sviluppa in modo
completamente detaché da qualsiasi ordinamento giuridico, in un contesto di totale
transnazionalità, e a cui si applicherebbe anche un diritto transnazionale, diverso e
autonomo dal diritto di ogni altro Stato. Siffatto diritto transnazionale presenterebbe
secondo parte della dottrina evidenti collegamenti con la lex mercatoria, dalla quale
deriverebbe. Secondo alcuni autori come Emmanuel Gaillard questo sarebbe tanto più
plausibile nella misura in cui si considerasse siffatto diritto transnazionale non come un
rigido elenco di disposizioni, il quale in tal caso non sarebbe esente da lacune e da
scarsa prevedibilità. Al contrario la lex mercatoria dovrebbe essere considerata
soprattutto come un insieme di principi e di criteri utili per risolvere in modo flessibile
ed efficace le controversie; in altre parole essa andrebbe vista come un metodo mediante
il quale è possibile ricavare delle norme universalmente valide nei rapporti commerciali
internazionali tra soggetti economici privati. Sempre secondo Gaillard, se si intende la
lex mercatoria in quest’ultimo modo, essa sarebbe provvista dei requisiti di
completezza, organicità, prevedibilità e capacità di evolversi in modo coerente ai suoi
principi e alla sua struttura così da far fronte ai cambiamenti della realtà che è tenuta a
disciplinare. In altre parole, essa sarebbe dotata di tutte le caratteristiche che si ritiene
che il diritto debba avere per essere tale.
12
In ogni caso, anche qualora si decidesse di applicare il diritto di uno Stato, si potrebbe
decidere di applicarlo solo in parte, e lasciare che altri aspetti della questione siano
sottoposti a leggi di altri Stati o alla citata lex mercatoria. Inoltre, in mancanza di scelta
delle parti gli arbitri potrebbero designare essi stessi il diritto applicabile all’arbitrato e
nell’arbitrato, senza passare attraverso le norme di conflitto di leggi applicabili ma
individuando direttamente il diritto che presenta caratteri di maggiore funzionalità ed
12
E.Gaillard, Transnational Law: A Legal System or a Method of Decision Making? In Arbitration
International 2001, pagg. 59 ss. A. Redfern, M. Hunter, N. Blackaby, C. Partasides Law and practice of
international commercial arbitration, cit., pagg. 93 ss., pagg. 328 ss..
16
utilità nel giudicare la controversia. Questo costituisce un’ulteriore, importante
differenza rispetto alla giustizia ordinaria: infatti, in presenza di elementi di
transnazionalità il giudice di uno Stato deve interrogare il proprio diritto internazionale
privato le cui disposizioni gli indicheranno quale legge sarà applicabile alla controversia
portatagli innanzi. Al contrario l’arbitro designerà direttamente il diritto materiale e
processuale che più si adatta ad essere applicato alla controversia, eventualmente
cercando di interpretare la volontà delle parti espressa nella clausola compromissoria:
l’arbitro quindi non sarà vincolato dalle norme di conflitto di leggi vigenti nello Stato in
cui il tribunale arbitrale ha sede. Tale orientamento, è stato peraltro condiviso dalla
Camera di Commercio Internazionale di Parigi nel suo recente regolamento del 1998 ed
è un ulteriore passo avanti nella direzione di un arbitrato sempre più autonomo, in cui le
“regole del gioco” sono decise in misura crescente dalle parti e, in subordine (e in
mancanza di indicazioni delle parti) dagli arbitri. Questi ultimi possono fare ciò per due
motivi essenziali: in primo luogo godono della fiducia delle parti perché sono da esse
designati, in secondo luogo sono esperti del diritto dell’arbitrato ed di quello che deve
essere applicato nella controversia in esame, motivo per cui avrebbero tutti gli strumenti
per prendere le decisioni corrette nell’interesse delle parti.
13
2. La necessità di conciliare l’autonomia delle parti con gli
interessi degli Stati
Alle teorie citate nel paragrafo precedente, che enfatizzano l’autonomia dell’arbitrato, si
contrappongono quelle che dell’arbitrato sottolineano invece la natura giurisdizionale.
Esse si rifanno al principio per cui, se è vero che senza volontà delle parti non può
esserci arbitrato, dall’altra tale volontà non può di per se produrre effetti se lo Stato non
decide di riconoscerla e di tutelarla
14
. Tale teoria si basa sul fatto che gli arbitri non
sono mandatari delle parti, sebbene siano nominati da esse e siano persone di loro
fiducia. Infatti, una volta che gli arbitri sono investiti della missione di giudicare una
controversia essi si trasformano, almeno in parte, in giudici, pur non diventando
13
L. Fumagalli, La legge applicabile al merito della controversia nell’arbitrato commerciale
internazionale, in Rivista di Diritto privato internazionale processuale, 1985 pagg. 484 ss.; L. Fumagalli,
La legge applicabile al merito della controversia secondo il regolamento ICC del 1998 in Diritto del
Commercio Internazionale, 2001, pagg. 539 ss.; E.Gaillard, Transnational Law: A Legal System or a
Method of Decision Making?, cit., pagg. 60 ss..
14
J. D. M. Lew, Achieving the Dream: Autonomous Arbitration, cit., pagg. 186 ss..
17
pubblici poteri di uno Stato. Tale rilievo appare esatto dato che, a differenza che in altri
sistemi di soluzione di controversie come la mediazione o la conciliazione, gli arbitri
non si limitano ad aiutare le parti a trovare una soluzione alla loro controversia, bensì
pronunciano una sentenza obbligatoria. In tal caso gli arbitri, svolgendo una funzione
prossima a quella dei giudici e pronunciando decisioni la cui natura non è molto
dissimile da quella delle sentenze rese dalla giustizia ordinaria, dovrebbero per forza
coordinarsi con i giudici di uno Stato, i quali potrebbero e dovrebbero estendere il loro
controllo prima, durante e dopo lo svolgimento dell’arbitrato.
Molti autori hanno cercato di conciliare tutte queste teorie, affermando che l’arbitrato ha
effettivamente una duplice natura: contrattuale e giurisdizionale. Altri hanno
evidenziato che le peculiarità dell’arbitrato non sono tanto la sua natura contrattuale e/o
giurisdizionale, quanto il ruolo che in esso svolge l’arbitro, a cui si riconosce un ampio
potere di disciplinare tutti quegli aspetti che non sono stati fissati precedentemente dalle
parti nella clausola arbitrale o nel compromesso. Quest’ultima teoria enfatizzerebbe più
che il principio di autonomia delle parti, il principio per cui all’arbitro andrebbe
riconosciuto un ampio margine di manovra, al fine di prendere le migliori decisioni per
il buon svolgimento dell’arbitrato
15
. Tale ampio margine di manovra sarebbe possibile
solo in caso di limitato intervento da parte della giustizia dello Stato.
Per chiarire ulteriormente la relazione tra tribunali arbitrali e tribunali dello Stato, si può
fare ricorso anche alla dicotomia autonomy / territoriality. Essa si basa sul fatto che vi
sono due interessi configgenti che devono essere conciliati: da un lato si sottolinea come
eccessivi controlli ed eccessive restrizioni possano compromettere il principio di
autonomia e di conseguenza inficiare l’utilità stessa dell’arbitrato, dall’altro si ricorda
che il fatto che un lodo venga pronunciato e/o eseguito nel territorio di uno o più Stati
(producendovi degli effetti) fa sì che gli Stati abbiano interesse a che tale lodo non urti
certi principi e valori vigenti.
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. Territoriality e autonomy non sono due alternative da
intendersi rigidamente, ma sono gli estremi di un continuum, e tra tali estremi è
necessario trovare un equilibrio dinamico che permetta tanto la tutela degli interessi
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J. D. M. Lew, Achieving the Dream: Autonomous Arbitration, cit., pagg. 186 ss; L. Fumagalli, La legge
applicabile al merito della controversia nell’arbitrato commerciale internazionale, cit.,. 465 ss.; L.
Fumagalli, La legge applicabile al merito della controversia secondo il regolamento ICC del 1998, cit.,
pagg. 539 ss..
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Questo si ricollega anche al rapporto tra arbitrato e rispetto delle norme di applicazione necessaria e di
ordine pubblico tale argomento sarà oggetto di trattazione approfondita nei capitoli IV e ss..
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