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INTRODUZIONE
Il presente lavoro ha mirato a valutare l’opinione dei giornalisti
dei tre principali quotidiani italiani, il “Corriere della Sera”, “la
Repubblica” e “La Stampa”, riguardo all’entrata in campo dei vari
candidati democratici e repubblicani aspiranti alla presidenza degli
Stati Uniti d’America durante l’intero anno preelettorale 1991. La
scelta è caduta su questi tre giornali perché ritenuti in grado di fornire
una visione esaustiva di tutti gli avvenimenti di politica estera, di
politica interna e di economia accaduti in America da gennaio a
dicembre del 1991. Data l’importanza ed il numero degli eventi che
hanno caratterizzato il ’91 e che hanno poi rivestito un ruolo cruciale e
centrale sull’esito della successiva elezione presidenziale del 3
novembre 1992, la mole di articoli apparsi sui tre quotidiani è stata
decisamente notevole, in particolare su “la Repubblica” e sul
“Corriere della Sera”. I giornalisti che hanno realizzato tali articoli
sono stati per il “Corriere della Sera” Rodolfo Brancoli, Stefano
Cingolani, Rocco Cotroneo, Massimo Gaggi, Gianni Riotta e Franco
Venturini; per “la Repubblica” Ennio Caretto, Romano Giachetti,
Franco Marcoaldi, Eugenio Occorsio, Roberto Petrini, Alberto
Ronchey, Arturo Zampaglione e Vittorio Zucconi; per “La Stampa”
Furio Colombo, Franco Pantarelli e Paolo Passarini.
Gli autori degli articoli presi in considerazione nella tesi, oltre a
riportare i fatti e gli avvenimenti più importanti per la comprensione
di ciò che accadeva in America nel ’91, si sono avvalsi di interviste
realizzate con autorevoli economisti, politologi e storici americani
quali: il decano degli economisti statunitensi, John Kenneth Galbraith,
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l’allora presidente della Commissione Bilancio della Camera dei
Rappresentanti nonché noto economista, Leon Panetta, il potente
banchiere della Lazard Freres di New York, Felix Rohatyn, l’esperto
di economia e di strategie militari, Edward Luttwak, e il massimo
storico dell’America contemporanea, Arthur Schlesinger Jr. I
giornalisti italiani hanno riportato, inoltre, opinioni, indicazioni e
commenti di personalità politiche democratiche e repubblicane, di
storici, di economisti, di politologi e di gente comune, che hanno
contribuito alla comprensione degli avvenimenti, degli umori e delle
sensazioni prevalenti nell’America del ’91.
Passando ad una sintetica descrizione degli eventi trattati anticipo
il contenuto dei due capitoli in cui è suddivisa la mia tesi e sottolineo
anche che alla fine di essa è stato inserito un conciso epilogo in cui si
dà notizia di coloro che, in previsione dell’elezione presidenziale
americana del 4 novembre 2008, nei primi sei mesi di quest’anno
preelettorale 2007 si sono già candidati per la conquista della
nomination democratica e repubblicana. Nel primo capitolo ho
analizzato i primi tre anni della presidenza del repubblicano George
Bush, la situazione interna all’America alla vigilia dell’anno elettorale
1992 e, infine, ho descritto il funzionamento del sistema elettorale
presidenziale americano inserendo anche alcuni riferimenti storici,
mettendone in evidenza le peculiarità che lo caratterizzano e
sottolineandone i pregi e i difetti. Il primo capitolo è stato scritto sulla
base di testi riguardanti sia colui che sarebbe divenuto nel 1992 il
futuro presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, sia le elezioni
presidenziali del ’92 comprensive degli eventi e delle analisi dell’anno
preelettorale 1991. Gli autori di tali testi includono Horst Dippel,
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Ferdinando Fasce, Mario Francini, Andrea Giardina, Giovanni
Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Paul Krugman, Giuseppe Mammarella,
Massimo Teodori, Bob Woodward, Empedocle Maffìa, Robert E.
Levin, Maria Giovanna Maglie ed Ennio Caretto, che è anche il
giornalista che ha scritto il più copioso numero di articoli per “la
Repubblica”.
Nel secondo capitolo ho attuato un’analisi approfondita dell’anno
preelettorale 1991 attraverso i tre quotidiani italiani sopra citati e ho
riportato quasi 200 articoli, che rappresentano le fonti primarie sulle
quali ho basato la mia ricerca. Ho scritto un’introduzione per ogni
articolo che illustra il pensiero del giornalista. Ho poi inserito i passi
più salienti dell’articolo stesso, ritenendo che potessero essere utili a
chiarire ed a specificare meglio la realtà sociale, politica, economica e
culturale americana del momento.
Nel secondo capitolo, inoltre, ho dato una serie di indicazioni
relative alla figura del governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, che in
quel momento era solo uno dei sei candidati democratici scesi in lizza,
ma che sarebbe poi emerso sul finire del ’91 e successivamente nelle
elezioni primarie divenendo presidente degli Stati Uniti nel 1992. Ho
anche riportato i passi più salienti del suo discorso di candidatura alla
presidenza, pronunciato il 3 ottobre 1991 a Little Rock in compagnia
della moglie Hillary e della figlia Chelsea, in cui esponeva le sue idee,
i suoi propositi, i suoi obiettivi e quindi, in sostanza, il suo programma
elettorale. In tale discorso Clinton parlava anche di un New Covenant,
cioè di un Nuovo Patto di Alleanza che aveva lo scopo di risollevare
la classe media americana, bistrattata e dimenticata da Ronald Reagan
prima e da George Bush poi, e di ridarle speranza. Per quanto riguarda
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la candidatura di Clinton alla Casa Bianca, mi è parso utile
sottolineare il fatto che la decisione di candidarsi era scaturita
principalmente dall’opera di convincimento del suo consigliere più
importante e principale, la moglie Hillary. Donna ambiziosa,
determinata e tetragona nelle proprie idee, la signora Clinton è
attualmente la candidata democratica più forte e più accreditata a
vincere la corsa per la nomination democratica nel 2008 in base a tutti
i sondaggi di opinione statunitensi.
Da quanto scritto nella mia tesi si deduce che la presidenza Bush
nei primi tre anni era stata tanto forte e risoluta in politica estera
quanto debole, distratta, incolore, disinteressata e indecisa in politica
interna tanto da essere soprannominata una “presidenza procedurale”,
cioè incapace di scatti di immaginazione politica in campo economico
e sociale. Per di più nel 1991 la società americana era in preda ad un
malessere assai diffuso le cui cause andavano ricercate principalmente
nelle politiche economiche dei presidenti Reagan prima e Bush poi,
cioè nella Reaganomics e nella Bushnomics, che negli anni ’80
avevano ampliato in modo spaventoso e “selvaggio” la forbice tra
ricchi e poveri. Tali politiche avevano finito per indebolire ed
impoverire una parte della classe media americana, al punto che essa
aveva smesso di credere nel Sogno Americano, ossia di pensare che il
domani potesse essere migliore dell’oggi. Di conseguenza, per la
prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, i figli avrebbero
dovuto prepararsi a stare peggio dei loro genitori.
Dall’analisi del secondo capitolo si evince sia che i tre quotidiani
italiani hanno analizzato il 1991 nella stessa ottica sia che hanno finito
per evidenziare in maniera pressoché identica la realtà americana di
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allora pervenendo alle medesime conclusioni. Tutti e tre i giornali,
infatti, hanno sottolineato chiaramente il crollo di popolarità che aveva
avuto il presidente Bush nel corso del ’91, un crollo che sul finire
dell’anno veniva definito da alcuni giornalisti così inesorabile da non
avere precedenti nella bicentenaria storia presidenziale americana. Ciò
ha portato i tre quotidiani a concludere che esso preludesse ad una
molto probabile, quasi certa, sconfitta elettorale di Bush nel novembre
del ’92.
Secondo i tre quotidiani, l’indice di approvazione della
presidenza Bush, che era al 91% ai primi di marzo del ’91, cioè
appena conclusa la guerra del Golfo, era passato a dicembre per la
prima volta sotto il 50%, assestandosi al 46-47%. Questo calo era
dovuto principalmente alla crisi economica che, iniziata nell’estate del
’90 dopo gli otto anni del più lungo ciclo espansivo della storia
americana, si era aggravata con il passare dei mesi e aveva portato la
disoccupazione intorno al 7%. Nel mese di ottobre i licenziamenti
avevano toccato tutti i settori, dai colletti bianchi ai colletti blu, e tutte
le aree geografiche del Paese, susseguendosi al ritmo di 2600 persone
al giorno. Tra le altre cause del crollo di popolarità di Bush era stato
individuato dai vari giornalisti l’enorme deficit di bilancio, che a
settembre aveva toccato la cifra record di circa 263 miliardi di dollari
e che si prevedeva avrebbe raggiunto i 350 miliardi l’anno successivo.
Inoltre Bush trascurava la politica interna in un momento così
delicato per la società e la politica americana, riponendo quasi tutta la
sua attenzione nella politica estera. Secondo i tre quotidiani, però, già
nel ’91 era chiaro che la campagna elettorale si sarebbe vinta sul
terreno di casa, cioè sui pressanti problemi economici e sociali che
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rappresentavano il tallone di Achille di Bush. I giornalisti, inoltre,
evidenziavano che proprio i successi ottenuti dal presidente in politica
estera avevano tolto a quest’ultimo, soprattutto con il crollo
dell’Unione Sovietica, la sua carta migliore da giocare in campagna
elettorale (cioè il settore in cui era più preparato e verso cui nutriva il
maggior interesse). Gli elettori americani davano ormai per acquisiti i
trionfi internazionali del presidente repubblicano, cosicché la loro
attenzione si era riversata completamente sul campo economico e
sociale. Ennio Caretto, in particolare, sottolineava che fin da settembre
i democratici avevano incominciato a credere nell’“effetto Churchill”,
cioè che a Bush, il vincitore sull’Iraq e sull’Urss, sarebbe potuto
accadere ciò che dopo la Seconda guerra mondiale era successo a
Churchill, il trionfatore sulle Potenze dell’Asse. Lo statista inglese,
infatti, era stato giudicato dai suoi elettori un prode condottiero ma un
mediocre governante, inadatto a risanare la società e l’economia
nazionali, con il risultato che essi avevano votato per lo sconosciuto
Attlee. Ugualmente Bush avrebbe potuto subire la stessa sorte nel ’92,
cioè essere sconfitto da un outsider democratico considerato molto più
preparato di lui in politica interna ed economica.
I tre quotidiani rilevavano che la disaffezione degli americani
verso il loro presidente era stata evidente a novembre del ’91, quando
alle elezioni amministrative tenutesi in 26 Stati (che erano state
definite alla vigilia un “referendum su Bush”) avevano vinto degli
outsider, in stragrande maggioranza democratici, i quali nella loro
campagna elettorale avevano puntato su temi come la sanità pubblica
gratuita (in America 37 milioni di persone erano senza qualsiasi tipo
di assistenza medica), la scuola, i sussidi di disoccupazione e tutto ciò
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che era a favore della classe media. Una settimana dopo da tale tornata
elettorale i sondaggi avevano riportato che se l’elezione presidenziale
si fosse tenuta in quel momento solo il 41% degli americani avrebbe
votato per il presidente americano in carica mentre il 43% per un
candidato democratico qualsiasi.
Di fronte alla caduta in picchiata della popolarità di Bush i tre
quotidiani avevano puntato l’attenzione sull’entrata in campo nelle fila
democratiche di sei completi outsider che avevano deciso di giocare
tutte le loro chance con programmi elettorali incentrati sul campo
economico e sociale e a favore del ceto medio americano, ovvero sulla
fetta di popolazione che avrebbe deciso le elezioni del ’92. I tre
giornali erano arrivati alla conclusione che almeno uno di essi avrebbe
potuto sconfiggere il presidente americano in carica. Sebbene con
varie sfumature, tutti i giornalisti erano concordi nel considerare Bill
Clinton come il più accreditato a svolgere il ruolo di anti Bush. In
effetti, in tutte le consultazioni preelettorali di novembre e di dicembre
Clinton, che era considerato un nuovo Kennedy e che con il suo New
Covenant si riallacciava al New Deal di Roosevelt, si era nettamente
piazzato al primo posto ed era apparso come la stella più splendente
nelle fila democratiche.
Con l’emergere di Clinton i quotidiani avevano riposto sempre
meno attenzione verso il governatore italoamericano di New York,
Mario Cuomo, che fino ad allora era stato considerato come la grande
speranza democratica per il ’92. Ma il 20 dicembre ’91 Mario Cuomo
aveva deciso di non correre per la presidenza, come già era avvenuto
quattro anni prima, con il risultato che, secondo tutti e tre i quotidiani,
Clinton aveva ormai l’investitura democratica in tasca e, dato il crollo
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inesorabile di Bush, molto probabilmente anche la presidenza. Tra
tutti i giornalisti colui che aveva riposto la maggiore attenzione su
Clinton, che lo aveva più in simpatia e che lo riteneva particolarmente
capace di tagliare il traguardo della presidenza era stato Ennio Caretto
che a testimonianza di ciò aveva successivamente scritto anche una
monografia sul governatore dell’Arkansas e sulle elezioni del ’92.
Il motivo per cui ho deciso di prendere in esame il 1991, cioè
l’anno preelettorale, piuttosto che il 1992, cioè l’anno elettorale, sta
nel fatto che mi è sembrato particolarmente interessante analizzare
come i giornalisti italiani dei tre principali quotidiani avessero
descritto e commentato l’emergere dei vari candidati alla presidenza e
soprattutto l’ascesa della stella Clinton. L’analisi del 1991 risulta oggi
attuale, visto che anche il 2007 è un anno preelettorale e stiamo
assistendo all’emergere di candidati che hanno molto in comune con
alcuni di quelli del ’91. Mi sto riferendo in primis alla senatrice di
New York, Hillary Clinton, che nel 1991 era al fianco del marito in
veste di aspirante First Lady d’America e ora mira a diventare la
prima presidente donna degli Stati Uniti; attualmente è in testa a tutti i
sondaggi d’opinione per la conquista della nomination democratica
nel 2008. Tuttavia mentre Clinton era un completo outsider nel ’91,
sua moglie è una donna conosciuta da tutti in America e nel mondo e
quindi ha un notevole vantaggio di immagine rispetto al senatore nero
dell’Illinois, Barack Obama, per ora secondo nella corsa democratica
in base ai sondaggi. La posizione di Obama in un certo senso può
essere accomunata a quella di Clinton del ’91 perché il senatore
afroamericano, oltre ad essere altrettanto giovane nonché un completo
outsider come lo era lui, ha delle potenzialità enormi, è carismatico, è
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un ottimo oratore e sta acquisendo sempre più notorietà e consensi
negli Stati Uniti.
Un altro punto di contatto tra il 1991 e il 2007 è dato dalla
famiglia Bush, cioè da George Bush presidente nel ’91 e dal figlio
George W. Bush, attuale presidente in carica. Quest’ultimo, come era
accaduto a suo padre nel ’91, è attualmente in netto calo di popolarità
a causa della politica estera (in questo caso per la guerra in Iraq),
dell’elevato aumento della disoccupazione, del drastico aggravamento
del deficit pubblico e dell’economia in recessione. Infine, come nel
1991 il più forte candidato nelle fila democratiche per la conquista
della nomination era considerato l’italoamericano governatore di New
York, Mario Cuomo, così attualmente un altro italoamericano, l’ex
sindaco di New York, Rudolph Giuliani, è in testa a tutti i sondaggi
per la conquista della nomination repubblicana nel 2008. Ma se ad
accomunarli ci sono il fattore etnico e la stessa avversione e condanna
di allora e di ora verso la guerra del Golfo e la guerra in Iraq, a
dividerli c’è sia una diversa affiliazione partitica sia un modo diverso
di prendere le decisioni: Cuomo alla fine non si candidò mentre
Giuliani lo ha già fatto e i giornali americani auspicano uno scontro
per la presidenza con la signora Clinton o con Obama. Il prossimo
anno, pertanto, in America molto probabilmente sarà eletto o il primo
presidente donna o il primo presidente nero o il primo presidente
italoamericano.
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CAPITOLO 1
1.1 Una presidenza procedurale
Il 20 gennaio 1989, grazie anche al successo dei suoi incontri con
il leader sovietico Mikhail Gorbaciov e all’avvio di una nuova fase di
distensione con l’URSS, Ronald Reagan aveva potuto concludere il
suo secondo mandato brillantemente, con grande consenso e con una
popolarità, già altissima, pressoché intatta. Il vecchio combattente
della guerra fredda, il fautore del riarmo dell’America era diventato
l’ambasciatore della pace; egli aveva incarnato l’ottimismo e la
solidità americani e aveva coronato la sua politica come presidente
della pace e del disarmo.
1
La disponibilità al negoziato di Gorbaciov, infatti, aveva trovato
un interlocutore interessato proprio in un Reagan, desideroso di
concludere in bellezza la sua esperienza presidenziale e di dimostrare
al mondo che l’ostentazione di forza di cui era stato protagonista
(soprattutto in materia di armamenti) non portava necessariamente allo
scontro, ma al contrario poteva costituire la migliore base per una
nuova trattativa globale con l’URSS. Due successivi incontri tra
Reagan e Gorbaciov, a Ginevra nel novembre del 1985 e a Reykjavik
nell’ottobre del 1986, pur non raggiungendo risultati conclusivi,
avevano così segnato la fine di una lunga stagione di incomunicabilità
e inaugurato un clima più disteso nei rapporti USA-URSS. Un terzo
vertice a Washington nel dicembre del 1987 aveva portato a uno
storico accordo sulla riduzione degli euromissili, cioè degli armamenti
missilistici in Europa: un accordo che, al di là della sua limitata
1
Horst Dippel, Storia degli Stati Uniti, Roma, Carocci Editore, 2002, p. 140.
15
portata pratica, aveva un alto valore simbolico, perché per la prima
volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari. Pochi mesi
dopo, nell’aprile del 1988, l’URSS si era poi impegnata a ritirare le
sue truppe dall’Afghanistan: ritiro ultimato nel gennaio del 1989. Tutti
questi successi di Reagan in politica estera e la conseguente politica di
distensione tra USA e URSS avevano favorito indubbiamente la
vittoria, nelle elezioni presidenziali del 1988, del repubblicano George
Bush, già vicepresidente con Reagan in entrambi i mandati. Politico
più esperto del suo predecessore, anche se non altrettanto dotato di
carisma personale, esponente dell’ala moderata del suo partito, Bush
aveva ripreso nella sostanza l’eredità reaganiana, ma con uno stile più
prudente ed equilibrato, tanto da essere definito da più parti un
“reaganiano anomalo”.
2
Oltre alla popolarità di Reagan e ai suoi successi in politica
estera, anche le persistenti difficoltà dei Democratici, nel clima
dominante di riflusso e conservazione dei tardi anni ’80, avevano
garantito la vittoria a Bush che, nella campagna elettorale del 1988, si
era presentato come un fedele seguace del “grande comunicatore”
affermando: “Non abbiamo bisogno di nuove direzioni […] abbiamo
solo bisogno di ricordare chi siamo”. La campagna si era distinta per
la durezza degli attacchi personali e della pubblicità negativa di Bush
contro il rivale, il timido e grigio difensore della ormai estenuata
cultura dei diritti, Michael Dukakis, governatore del Massachusetts,
che era stato bollato dal futuro presidente come un inetto liberale.
Bush, anche grazie a un discreto margine di voto popolare, il 54%
2
Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, L’età contemporanea, Roma-Bari, Editori
Laterza, 2000, pp. 827-831.
16
contro il 46% di Dukakis, cioè l’80% degli elettori che dichiaravano di
approvare l’operato di Reagan, dava un’impressione di continuità,
rispetto al predecessore, che mancava da tempo e che faceva sperare
in un consolidamento della ripresa della istituzione presidenziale
avviata dall’ex attore. Meno confortanti erano stati, tuttavia, i dati
riguardanti la partecipazione, che per la prima volta dal 1924 era
tornata attorno al 50% (50,1%), e quelli relativi al voto parlamentare,
che aveva riprodotto una situazione di voto e governo assolutamente
divisi, per lo più in una misura sfavorevole al presidente mai vista:
maggioranza democratica di 10 seggi al Senato e di 99 alla Camera.
3
Il neopresidente mancava della forza carismatica di Reagan, e ciò
veniva messo ben in luce, in un articolo del 21 dicembre del 1988, dal
settimanale “Time” che, facendo un pronostico, che si rivelerà esatto,
sulla presidenza di George Herbert Walker Bush, 41° presidente degli
Stati Uniti, aveva scritto: “Il reaganismo senza l’ideologia. Continuità
senza vivacità”. Bush, che dopo una trentennale carriera di “grand
commis” era stato tra le varie cose congressman per due
legislature in rappresentanza del collegio di Houston (Texas),
segretario nazionale del Partito repubblicano, rappresentante
diplomatico del suo paese presso le Nazioni Unite, ambasciatore in
Cina e direttore della CIA e otto anni di vicepresidenza esemplare
per lealtà e discrezione si accingeva ad assumere l’eredità reaganiana,
era per origine, gusti e personalità una figura molto diversa da
Reagan.
4
3
Ferdinando Fasce, Da George Washington a Bill Clinton. Due secoli di presidenti USA, Roma, Carocci
Editore, 2000, p. 151.
4
Giuseppe Mammarella, Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 1993, p. 511.
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Ad esempio, durante la campagna elettorale del 1988, il
democratico Dukakis aveva posto un quesito velenoso che metteva in
risalto la figura opaca che rappresentava Bush rispetto a Reagan: “Va
bene, George Bush ha avuto tanti incarichi. Ma cosa ha fatto?”. In
effetti anche i suoi sostenitori ammettevano che il neopresidente, pur
essendo stato un buon esecutore di direttive e un ottimo organizzatore,
non aveva mai brillato in alcuna delle cariche ricoperte, anche se, di
contro, si potevano vantare del fatto che egli avesse ricoperto tanti
incarichi federali senza mai lasciarsi invischiare in uno scandalo e
nemmeno in una polemica. Autentico wasp (white anglo-saxon
protestant), cioè protestante di origine anglosassone e di razza bianca,
Bush era nato nel 1924 da una delle più influenti famiglie
dell’aristocrazia finanziaria dell’Est, aveva studiato alla Phillips
Academy di Andover, nel Massachusetts, e aveva fatto la guerra come
ufficiale di marina, ottenendo una decorazione. Nel 1945 aveva
sposato Barbara Pierce, la figlia dell’editore delle riviste McCall’s e
Redbook, e nel frattempo si era laureato in economia all’Università di
Yale. Mentre suo padre, che era un banchiere, veniva eletto senatore
repubblicano del Connecticut, egli si era trasferito a Houston, nel
Texas, dove aveva dato vita a una società petrolifera che rapidamente
aveva operato su scala mondiale, la “Bush-Overby Development Co.”,
che gli aveva assicurato l’ingresso nel novero dei milionari. Aveva
cominciato la carriera occupandosi della macchina elettorale del
partito in sede locale e nel 1966 era stato eletto alla Camera dei
rappresentanti, dopo che aveva fallito l’elezione al Senato nel 1964:
22 anni dopo sarebbe divenuto presidente. La sua vera vocazione era
quella del governo e della vita pubblica, in forte sintonia con la
18
tradizione di quella aristocrazia politica che aveva governato
l’America fino alla Seconda guerra mondiale.
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Di Reagan, Bush aveva assunto l’eredità politica senza tuttavia
condividere le espressioni più estreme. Conservatore di vecchia
scuola, non condivideva né gli eccessi né i dottrinarismi della Nuova
Destra, da cui era guardato con sospetto, ma alle cui posizioni durante
la campagna elettorale del 1988 si era mantenuto molto vicino, ben
sapendo che la mobilitazione e il sostegno delle sue organizzazioni e
dei suoi attivisti sarebbero stati elementi essenziali e insostituibili
della propria vittoria. Durante la campagna elettorale Bush aveva
avuto la meglio nelle primarie su candidati di tutto rispetto: Robert
Dole, potente e stimato senatore del Kansas, Jack Kemp, deputato e
principale teorico della Reaganomics, Alexander Haig, ex segretario
di stato e Pat Robertson, reverendo e uno dei profeti della Nuova
Destra. Più accanita era stata, invece, la competizione in campo
democratico. Il front runner Michael Dukakis aveva vinto contro
avversari temibili e accreditati: il deputato Richard Gephardt, il
senatore Albert Gore e soprattutto il reverendo Jesse Jackson. Dukakis
aveva scelto come suo vicepresidente Lloyd Bentsen, un anziano e
stimato senatore del Texas (che nel 1970 aveva sconfitto Bush alle
elezioni al Senato). Meno felice era stata invece la scelta di Bush, che
aveva designato come suo vice il giovane senatore Dan Quayle,
dell’Indiana, esponente dell’estrema destra, ma sconosciuto alla
maggioranza degli americani. Quando i riflettori della televisione si
erano spostati su di lui e i media avevano indagato sul suo passato di
imboscato nella guardia nazionale per evitare il Vietnam, Quayle era
5
Mario Francini, Storia dei presidenti americani, Roma, Newton & Compton Editori, 1996, pp. 91-92.