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CAPITOLO I:
INTRODUZIONE.
1. PREMESSA.
Il lavoro in esame confronta le discipline antitrust degli Stati Uniti e dell’U.E.
in materia di concentrazioni evidenziando le divergenze ed i punti in comune
tra i due sistemi.
Il capitolo I delinea il quadro storico- sociale in cui si sono affermate le
discipline in oggetto, evidenziando le differenti radici culturali dei due
sistemi. Il testo, poi, analizza gli aspetti giuridico- economici delle operazioni
di concentrazione, descrivendo i concetti di operazione di concentrazione, di
mercato rilevante, di fusione, di acquisto del controllo e di cooperazione tra
imprese. Dall’esame emerge come il risultato della concentrazione sia il
cambiamento strutturale del mercato rilevante in cui operano le imprese
interessate; inoltre vengono esposte le motivazioni principali che portano le
imprese interessate a concentrarsi, esponendo come poi gli effetti
dell’operazione possano tradursi in termini di guadagni di efficienza ma
anche in termini di un pregiudizio per la concorrenza del mercato rilevante.
Nel capitolo II vengono esposte le discipline dei due sistemi. Negli Stati Uniti
il controllo delle concentrazioni ha origine nel 1890 con lo Sherman Act,
relativo al divieto dei monopoli. A ciò fa seguito, nel 1914 il Clayton Act, la
cui section 7 si occupa espressamente di concentrazioni tra imprese, vietando
le operazioni che creino una “substantial lessening of competition”. Tale
sezione è stata integrata, nel 1976, dall’Hart-Scott-Rodino improvment act
che introduce, tra le altre novità, l’obbligo di notifica preventivo alle autorità
antitrust federali delle operazioni di concentrazione. Il paragrafo 1.3 del II
capitolo prende in considerazione anche l’evoluzione delle Merger
Guidelines. Queste sono atti del Department of Justice e della Federal Trade
Commission che contengono i criteri da seguire nella valutazione delle
operazioni di concentrazione. Inoltre le Guidelines affrontano le questioni più
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ricorrenti nell’analisi delle concentrazioni come ad esempio in materia di
efficienze o di failing company defense.
La disciplina dell’U.E., invece, consta di un unico atto normativo: il
Regolamento Ce n. 4064/89. Il capitolo suddetto ne esamina il contenuto e le
modifiche che ha subito negli anni, evidenziando come il controllo sulle
concentrazioni sia di competenza esclusiva della Commissione. Tale organo
svolge il controllo delle operazioni in due fasi: nella prima, dopo aver assolto
le parti l’obbligo di notifica dell’operazione, la Commissione svolge
un’istruttoria in merito alla dimensione comunitaria dell’operazione e alla sua
compatibilità con il test sostanziale ex art 2 Reg. Ce n. 4064/89, la seconda
fase, invece, è eventuale e viene aperta qualora nella prima fase siano sorti dei
dubbi in merito alla compatibilità dell’operazione con il mercato comune. Il
capitolo, inoltre, espone il contenuto dei progetti di riforma del regolamento
in esame avanzati dalla Commissione a seguito del Libro Verde del 2001; tali
atti sono: “La proposta di regolamento della Commissione sul controllo delle
concentrazioni” e le “Draft on notice on the appraisal of horizontal mergers”,
entrambi adottati nel 2002.
Il capitolo III espone propriamente il confronto tra le due discipline in
relazione alle questioni giurisdizionali, sostanziali e procedurali.
Dal primo confronto emerge come il coordinamento tra gli organi antitrust
statali e gli organi antitrust centrali che controllano le concentrazioni sia
differente negli Stati Uniti e nell’U.E. In Europa, infatti, sussiste un rapporto
di sussidiarietà tra le autorità antitrust, mentre negli Stati Uniti la struttura
federale consente una maggiore cooperazione tra le autorità statali e quelle
federali.
Dal confronto sostanziale emerge come le due discipline, sebbene adottino
due criteri di valutazione differenti, tuttavia giungono spesso alle stesse
conclusioni nelle valutazioni delle operazioni. Piuttosto, la vera differenza tra
tali criteri è legata alle diverse “filosofie” antitrust adottate negli Stati Uniti e
nell’U.E. Mentre negli Stati Uniti le autorità federali vietano le operazioni
che consentono all’entità concentrata di mantenere con profitto i prezzi al di
sopra del livello concorrenziale in modo “artificiale” e non “on merits, in
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Europa il criterio consiste nel valutare se la fusione crei o rafforzi una
posizione dominante dannosa per gli altri concorrenti più deboli.
Il confronto procedurale, infine, pone in evidenza come la Commissione
abbia una competenza esclusiva nell’applicare la disciplina sul controllo delle
concentrazioni, mentre un controllo giurisdizionale delle operazioni è solo
eventuale in quanto subordinato all’impugnazione della decisione della
Commissione presso il Tribunale di primo grado o della sentenza di
quest’ultimo presso la Corte di giustizia. Negli USA, invece, perché sia posto
il veto ad una operazione di concentrazione, le autorità federali devono
rimettere la questione alle autorità giurisdizionali competenti. A tal proposito
non sono mancate critiche al sistema comunitario che non garantirebbe
adeguate garanzie al diritto di difesa delle parti coinvolte nell’operazione.
Il capitolo IV, espone il caso General Electric/Honeywell. Tale operazione di
concentrazione conglomerale rileva non solo per la sua dimensione, ma per i
divergenti esiti valutativi a cui sono giunte le autorità antitrust nell’U.E. e
negli Stati Uniti. Infatti mentre la Commissione ha posto il veto
all’operazione, negli Stati Uniti essa è stata approvata. Dalle valutazioni della
Commissione emerge come essa non accolga la teoria statunitense secondo la
quale l’operazione avrebbe prodotto guadagni di efficienza a favore della
società; infatti l’autorità comunitaria, dopo aver giudicato le due società in
posizione dominante, considera la concentrazione coma la causa di un
rafforzamento di tale dominio. Ciò porterebbe nel medio termine, secondo la
Commissione, ad un aumento dei prezzi dei beni offerti e alla esclusione dal
mercato rilevante dei concorrenti finanziariamente più deboli.
Nelle conclusioni, infine, è riportata la natura “filosofica” della divergenza tra
le discipline sul controllo delle concentrazioni europea e statunitense. Mentre
l’U.E. tiene in considerazione la necessità che il mercato unico abbia una
struttura “pluralista” e quanto più omogenea tra gli Stati membri, negli Stati
Uniti l’attenzione è focalizzata sui guadagni di efficienze che nel breve
termine una operazione produrrebbe a favore della collettività,
indipendentemente dall’eventuale concentrazione dei mercati in cui operano
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le imprese interessate in quanto ciò avverrebbe “on merits” e non
artificialmente.
2. L’EVOLUZIONE STORICA.
La prima disciplina antitrust in materia di concentrazioni nasce per far fronte
al sempre più imponente fenomeno delle fusioni tra società che in America,
dopo la guerra di secessione, vede un enorme incremento soprattutto nei
settori di produzione di materie prime.
Con la fine della guerra civile, iniziò negli Stati Uniti un periodo di frenetica
espansione economica; la nascita di ferrovie, la costruzione di nuove industrie
e lo sfruttamento di risorse minerarie fecero in pochi decenni passi da
gigante.
Tutto ciò creò subito la necessità di nuove forme giuridiche nel campo del
diritto societario, delle assicurazioni, dei trasporti, delle garanzie del credito,
delle banche e della borsa.
1
Sin dai primi atti normativi statali e federali e dalle prime decisioni
giurisprudenziali in materia, emerse tale ottica nella filosofia americana della
concorrenza: il progresso e la crescita del benessere dovevano essere garantiti
solo lasciando piena libertà d’agire alle imprese private; gli interventi dello
Stato diretti a proteggere le parti più deboli del processo produttivo
economico erano visti negativamente. Naturalmente tale sistema alla fine del
XIX° secolo e agli inizi del XX° deve far fronte ad esigenze sociali sempre
più impellenti. Non si può più lasciare piena libertà d’azione all’imprenditore
quando ciò comporta oneri troppo gravosi per il singolo cittadino. Nascono
così i primi interventi dello Stato Federale in materia di concorrenza: nel
1890 lo Sherman Act e nel 1914 il Clayton Act
2
. Tali discipline non
pregiudicano l’iniziativa privata nei vari settori d’impresa, ma consentono un
controllo dello Stato Federale per il rispetto delle regole della libera
1
Cfr. Zweigert- Kotz, “Introduzione al diritto comparato”, vol. I; Milano, 1998; pag. 294 ss.
2
Cfr. Sherman Act, 15 U. S. C. § 18, 1890; Clayton Act 15 U. S. C. § 18, 1914.
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concorrenza tra imprese, sanzionando situazioni e comportamenti
incompatibili con il regime di libero mercato.
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La situazione politica ed economica in Europa, in quegli anni, era
sostanzialmente diversa. Il mercato tra i vari Stati, prima della seconda
Guerra Mondiale, era caratterizzato da divisioni e differenze economiche
notevoli. Paesi particolarmente sviluppati, o veri e propri imperi come
l’Inghilterra, confinavano con altri sensibilmente arretrati.
Sebbene la politica economica degli Stati europei occidentali di quegli anni
fosse per lo più saldamente ancorata al principio della libera concorrenza, la
centralità dello Stato e il suo intervento nell’economia nazionale erano
decisivi.
Dopo la seconda Guerra Mondiale, la coscienza di costruire un’Europa unita
non solo politicamente ma anche economicamente cresceva tra i paesi
dell’Europa occidentale. Inoltre, si assisteva ad un chiaro superamento delle
ideologie economico-politiche esistenti prima della seconda Guerra
Mondiale. Il criterio post bellico fa leva sulla nozione della c.d.
“pianificazione privata dell’economia”
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e pone la libera concorrenza quale
strumento di sostegno agli interessi del consumatore e dello sviluppo
tecnologico. A ciò si deve aggiungere una marcata e diretta “infiltrazione”
nell'ambiente europeo dei principi americani in tema di libera concorrenza e
monopoli, favorita anche dai piani d’assistenza economica come il Piano
Marshall.
E’ chiaro, quindi, che nell'analisi comparata dei due sistemi la disciplina
americana presenta un ruolo centrale per il sistema comunitario. La
legislazione antitrust statunitense rappresenta, dunque, il punto di partenza
per lo studio dei problemi giuridici in tema di libera concorrenza.
La legislazione antitrust statunitense costituisce un quadro di riferimento per
l’analisi dei problemi giuridici nascenti in tema di libera concorrenza e
3
Cfr. G. Amato, “Antitrust and the bounds of power”; Oxford,1997, pg. 75.
4
Cfr. G. Bernini, “Un secolo di filosofia antitrust”; Bologna, 1991, pg. 18.
9
monopolio. Naturalmente si dovrà valutare quanto della normativa americana
in materia potrà servire da aiuto e guida in altri Paesi ai fini
dell’interpretazione di leggi già in vigore o dell’eventuale emanazione di
nuove norme.
Un chiarimento circa le nozioni di libera impresa e libera concorrenza
rappresenta un necessario presupposto per la presente analisi: occorre notare
sin d’ora come tale nozione rivesta negli Stati Uniti un significato particolare,
che non corrisponde esattamente all’equivalente che si trova in Europa.
Nella tradizione europea la libertà d’impresa si è manifestata, in prospettiva
storica, come una reazione al sistema di barriere e controlli caratteristici
dell’organizzazione economica medievale. Mentre le barriere interne agli
Stati furono le prime a cadere, quelle internazionali ebbero diversa sorte.
L'apertura degli scambi internazionali rappresentò un obiettivo realizzatosi
più lentamente e con maggiori difficoltà.
In Europa, quindi, la politica diretta a dare impulso alla libera impresa si
tradusse in un rigetto dei controlli sugli affari economici interni: non incluse
però, almeno inizialmente, il rigetto dei controlli monopolistici privati. Ciò
perché gli economisti che rivendicavano i benefici della libera concorrenza di
fronte al sistema dei controlli statali, generalmente basavano le loro tesi sulla
convinzione che in un sistema che ammetteva l’iniziativa privata, la libera
concorrenza doveva necessariamente sopravvivere. Per cui saranno le stesse
forze del mercato ad attivare le forze di auto-correzione contro i fattori
restrittivi o distorsivi del mercato. Siamo, pertanto, ben lontani dalle
problematiche tipiche della legislazione antitrust in un’ottica moderna.
Per contro, negli Stati Uniti d’America, la Free Enterprice Policy acquistò sin
dall’inizio un ben diverso significato. Il potere centrale non aveva né
l’autorità né la forza necessarie per interferire validamente nella politica
economica interna. L’immensità del territorio, inoltre, fornì agli americani la
più sicura garanzia contro ogni forma di politica economica oppressiva da
parte dello Stato.
L’estendersi della civilizzazione in tutto il nuovo continente portò poi alla
creazione ed al rafforzamento dei poteri locali, piuttosto che al prepotere di
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quello centrale; semmai si fece promotore dello sviluppo d’aree arretrate e
cercò in tutti i modi di eliminare quelle barriere che eventualmente fossero
innalzate tra una parte e l’altra della nazione. La politica interna,
contrariamente a quella internazionale che rimaneva fortemente
mercantilistica, si asteneva da un intervento regolatore della attività
economica
5
.
Fu con il sorgere dell’attività economica su larga scala che la Free Enterprise
Policy iniziò a costituire, negli Stati Uniti, un movimento diretto a preservare
la libera concorrenza. La creazione di grandi complessi industriali e
commerciali fu, infatti, riguardata con maggiore apprensione e attenzione.
Inoltre le più grandi imprese erano in quei tempi patrimonio esclusivo delle
città dell’Est, che per prime avevano avuto i benefici dell’industrializzazione.
Ciò appariva quanto mai odioso agli abitanti degli altri Stati in quanto
sembrava celare un pesante controllo esercitato da potenze lontane ed assenti;
controllo, che non solo si rivelava in contrasto con il benessere degli
imprenditori piccoli e medi, ma che addirittura adombrava il prestigio e la
dignità delle autorità locali. La convinzione generalmente dominante negli
Stati Uniti era, infatti, quella che i monopoli delle risorse naturali, delle linee
di trasporti, e delle fonti di credito rappresentassero un ostacolo insuperabile
per l’esplicazione di quell’attività individuale che, soprattutto in un paese
politicamente ed economicamente giovane, avrebbe dovuto prosperare o
fallire solamente a seguito dei meriti o dei demeriti di ciascun cittadino. Detta
convinzione si tradusse in una costante avversione non solo nei riguardi di
grossi raggruppamenti monopolistici di vario genere e dimensione, ma anche
nei riguardi di quelle combinazioni o accordi che mirassero a restrizioni della
concorrenza attuate da imprenditori di piccolo e medio calibro. Inoltre, l’idea
del mantenimento della libera concorrenza quale forza equilibratrice del
mercato, s’instaurava opportunamente in un quadro politico in cui le varie
libertà erano presentate proprio mediante un gioco di controlli ed equilibri tra
i poteri statali e federali.
6
5
Cfr. G. Bernini, in op. cit. in nota 4, pg. 22.
6
Cfr. G. Bernini, in op. cit. in nota 4, pg. 25.
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In Europa il mantenimento della libera concorrenza tradizionalmente si è
posto, in primo luogo, quale alternativa ad un intervento statale
nell'economia; negli Stati Uniti, invece, sono le formazioni monopolistiche
private che rappresentano i nemici dichiarati della libera concorrenza, ed è
contro di queste che si oppongono tutti quelli che si fanno promotori del
principio di “una libera impresa in un libero mercato” (free enterprise in a
free market). In quest’ultima ipotesi, si proporrà il problema di un intervento
dello Stato negli affari economici; non si tratterà, però, di un intervento volto
alla sottrazione di determinati settori dell’industria e del commercio
all’iniziativa privata, ma di un intervento diretto a proteggere, nell'interesse
della comunità, la libertà della concorrenza dall’arbitrio e dagli abusi di
coloro che detengono il potere monopolistico.
7
Le forme d’intervento volto a salvaguardare la libera concorrenza sono varie;
possono concretizzarsi nell'emanazione di leggi che dichiarano illeciti i vari
tipi d’accordi e di pratiche tendenti a limitare la concorrenza stessa facilitando
così la creazione di monopoli; possono dar luogo alla predisposizione di
sistemi di pubblicità per gli accordi e le pratiche di cui sopra, sistemi che
mirano ad instaurare un controllo, da parte del potere pubblico, sulle attività
delle varie formazioni monopolistiche; possono giovarsi dell’opera delle corti
di giustizia o di commissioni di carattere amministrativo, ovvero di entrambi
gli organi con variabili modi.
Negli Stati Uniti d’America: la legge commina una generale sanzione di
illiceità di accordi o pratiche restrittive della concorrenza, ovvero tendenti al
conseguimento di una posizione monopolistica, senza accogliere alcun
criterio di eccezione volto a legittimare l’esistenza di taluni accordi e pratiche
ove ricorrano determinate circostanze. Tuttavia, si adotta in sede di
interpretazione un criterio di “ragionevolezza” sulla base del quale il divieto
legislativo è temperato in vista delle peculiarità del singolo caso. A questo
proposito è interessante notare come nel redigere gli statutes in materia di
antitrust, il Legislatore americano si affida proprio alle tecniche
giurisprudenziali del Common law. L’apparente rigidità normativa dei testi e
7
Cfr. G. Amato, in op cit. in nota 3., pg 53.
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la mancanza di riferimenti, negli stessi, alle varie evoluzioni teoriche che, nel
settore economico in questione, si alternavano rapidamente negli Stati Uniti,
richiamavano il necessario intervento delle Corti che agivano come portavoce
di tali evoluzioni politiche ed economiche. È principalmente attraverso tale
sistema, con l’aggiunta dei seguenti Amendament degli stessi Acts, che il
diritto antitrust nord americano si evolve continuamente
8
. Naturalmente ciò
non ha eliminato i contrasti tra l’organo legislativo e quello giudiziario in
ambito interpretativo; spesso è stato lo stesso legislatore ad evitare
interpretazioni normative troppo azzardate facendosi portavoce con il testo
scritto delle nuove tendenze politiche ed economiche
9
.
Diversa è la situazione nell’ambito delle legislazioni degli Stati membri della
Comunità europea. In tali casi la legge limita la sanzione dell’illiceità al
campo delle intese restrittive della concorrenza, adottando, nei confronti delle
imprese dominanti il mercato, il criterio dell’abuso, e non condannando la
dimensione aziendale e le concentrazioni di potere economico in quanto tali,
bensì l’uso illegale (ovvero l’abuso) dei medesimi. Negli Stati uniti, le
restrizioni della concorrenza e le formazioni monopolistiche non sono
considerate a priori dannose. Pertanto, non si pone alcun ostacolo alla loro
nascita ed esistenza, ma i pubblici poteri possono intervenire ogniqualvolta
esse si rivelino dannose per l’economia nazionale. Si aggiunga, infine, la
presenza di discipline che controllano e vietano, in determinati casi, le fusioni
e le concentrazioni tra imprese; spesso tali discipline sono caratterizzate da
sistemi di pubblicità che fanno perno sull’obbligo di comunicazione
preventiva delle concentrazioni all’organo di sorveglianza. Di questa
variegata tipologia si ritrova un’eco nei principi che caratterizzano la
normativa comunitaria e la legislazione degli Stati membri.
Abbiamo così identificato due criteri, quello dell’illiceità e quello del
controllo, che sicuramente rappresentano il motivo centrale di ogni
emanazione legislativa in tema di antitrust. Proprio questi due criteri ci
8
Tale processo di evoluzione normativa è definito “ongoing body of rules”.
9
Cfr. M. Vito, “La vicenda dell’Antitrust: dallo Sherman Act alla legge italiana n. 287/90”, in Riv. Dir.
Ind., vol. I, 1995; pg 175 ss.