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Introduzione
Formatasi circa dieci anni dopo la nascita del Partito socialista, la
Federazione giovanile, forse a torto considerata una pagina minore del socialismo
italiano, contribuì certamente alla radicalizzazione della politica nel paese, specie
dopo la guerra libica. Purtroppo, non ci sono che pochi studi organici sul
movimento giovanile, come quello di Arfè o quello di Gozzini. Entrambi, poi,
concordi nel dichiarare che appunto il movimento giovanile era una minore
seppur interessante pagina del socialismo. Chi si distacca da questa visione è
Solari, il quale considera la Federazione uno dei nodi importanti della vita politica
italiana di quei tempi. Effettivamente i giovani, seppur con le intemperanze
tipiche dell’età, seppur in modi alcune volte piuttosto rozzi, contribuirono a dare
nuova linfa ad un movimento socialista alquanto stanco e probabilmente
impreparato di fronte al nuovo tipo di politica e di scontro che si stava svolgendo
in Italia nel periodo giolittiano. Non è un caso che proprio da quell’esperienza
uscirono alcuni tra i massimi dirigenti politici della sinistra del primo dopoguerra
e oltre, politici come Gramsci, Togliatti ed altri si erano formati proprio
all’interno della Federazione giovanile.
I giovani furono sempre pronti ad un’attiva propaganda, in particolare a
quella contro il militarismo, sia per un interesse personale (erano proprio loro che
dovevano assolvere al servizio militare) sia all’interno di una precisa ideologia
che vedeva nel militarismo un moloch che tutto risucchiava, energie e soprattutto
risorse del paese che sarebbe stato meglio mettere al servizio dei bisognosi. Per
4
questo le campagne in favore della riduzione della leva, quelle contro le
compagnie di disciplina e quella in favore al soldo al soldato. Nonché tutta una
serie di attività in aiuto ai coscritti fino ad arrivare ad una vera e propria “lega dei
coscritti”, che però non ebbe successo. E per questo anche la dura polemica dei
giovani verso il nazionalismo, a cui per primi avevano guardato con
preoccupazione considerandolo un vero e proprio pericolo per il paese e non solo
una “follia” o “ubriacatura” come tendeva a fare il Partito.
E’ vero che tale patrimonio di antimilitarismo la Federazione l’aveva
mutuato dalla ricchissima tradizione del partito socialista, sia italiano che
internazionale. L’antimilitarismo in seno al socialismo è una tematica
fondamentale, sia a livello internazionale, ricollegandosi all’internazionalismo
pacifista, sia a livello italiano, tanto che è sempre stato ribadito in ogni congresso
del PSI. Attraverso la propaganda si cerca di costituire un sentimento militante
contro le guerre (“guerra al regno della guerra”) e contro gli eserciti di leva visti
come strumento di repressione, in favore della cosiddetta “nazione armata”,
concetto, in verità, piuttosto vago e foriero di varie interpretazioni. Si cerca anche
di scardinare il concetto di Patria per sostituirvi un più indefinito “amor patrio”
che non contrasti però con l’idea di internazionalismo. Tuttavia l’incisività
politica effettiva di tutta questa propaganda è abbastanza scarsa, in quanto i
vertici del partito, soprattutto il gruppo parlamentare, tende a lasciare la tematica
antimilitarista in un ruolo subalterno, salvo poi a ritirarla fuori con toni piuttosto
retorici in occasione, per esempio, delle votazioni per l’aumento delle spese
militari. Ciò non vuol dire che le campagne contro il militarismo non siano state
5
accese nei toni e nei fatti, in special modo da parte dei sindacalisti rivoluzionari o
dalla Federazione Giovanile, ma che la reale portata di queste proteste è stata ben
lontana da un pieno successo. Tutto ciò è ben visibile nel primo quindicennio del
XX° secolo, proprio quando, non solo in Italia, si facevano più forti le pretese
nazionalistiche ed imperialiste. Ne è la dimostrazione l’impreparazione del partito
di fronte all’impresa libica del 1911. La campagna partì in ritardo ed in sordina e
la sua veemenza successiva fu del tutto inutile davanti ad un paese in gran parte
fomentato dalla stampa colonialista e davanti ad un’intera classe dirigente e non
più semplicemente a piccoli gruppi d’interesse.
Un discorso analogo si potrebbe fare in merito alla prima guerra mondiale;
i riformisti erano sempre più in crisi e i toni violenti dei rivoluzionari non
riuscivano più a tenere unito un partito ormai privo di slancio ed impreparato ad
affrontare la nuova situazione politica che si andava delineando nel paese. Molti
uscirono dalle sue fila, a partire da Mussolini perché non riuscivano più a trovare
quello spirito combattivo che aveva caratterizzato il socialismo delle origini. Ben
diverso era, infatti, lo spirito del «né aderire né sabotare» da quello di Costa di
tanti anni prima.
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CAPITOLO I
IL DIBATTITO SULL’ANTIMILITARISMO ALL’ESTERO
L’epoca in cui si sviluppò la II Internazionale è anche quella in cui più
gravi divennero i dissidi tra le varie potenze europee. Proprio per questo, agli inizi
del Novecento, la questione dell’antimilitarismo divenne sempre più pressante e
fu posta all’ordine del giorno in quasi tutti i congressi dell’Internazionale,
soprattutto a partire da quello di Stoccarda del 1907. Non a caso, poi, proprio in
questi anni videro la luce le riflessioni contro il militarismo di influenti leaders
del socialismo internazionale, proprio a voler significare quanto stessero a cuore
le problematiche dell’antimilitarismo, dell’imperialismo, del colonialismo e del
nazionalismo. Per quanto riguarda la questione del colonialismo era stata
abbandonata la vecchia tesi di Turati e Kautsky
1
che questo fosse essenzialmente
espressione di classi retrograde e parassitarie e si cominciò a collegarlo all’idea
d’imperialismo, anche grazie al libro di Hilferding, il Capitale finanziario, del
1910, salutato dallo stesso Kautsky come la “prosecuzione del Capitale di Marx”.
Hilferding, infatti, analizza un nuovo tipo di accumulazione del capitale, non più
da parte dei “soggetti possessori”, ma da parte delle banche e degli istituti
finanziari. Per lui l’imperialismo era la forma con cui non solo si conquistavano
nuovi mercati, ma si alleggeriva la pressione su quelli interni. Ma l’imperialismo
avrebbe prodotto anche la sua stessa crisi in quanto “ se il ritmo di questa
espansione viene rallentato, è inevitabile che aumenti la pressione dei cartelli sul
1
Vedi A. Salsano, La II internazionale, Bari, Laterza, 1981, p. 48
7
mercato interno. E’ infatti, proprio durante i periodi di depressione che si assiste
alla intensificazione del processo di concentrazione. La più lenta espansione del
mercato mondiale inacerbisce i contrasti tra le nazioni capitalistiche per la sua
spartizione, specialmente se grandi mercati , sinora liberi, vengono sottratti alla
concorrenza in seguito al diffondersi del sistema protezionistico. I pericoli di
guerra provocano la corsa agli armamenti e l’aumento della pressione fiscale
spingendo così i ceti medi, sempre più minacciati nel loro tenore di vita, tra le
braccia del proletariato, che può ora approfittare dell’indebolimento del potere
statale provocato dall’urto bellico”
2
.
Altro nodo piuttosto spinoso era la questione della nazionalità. Se, infatti,
per alcuni, ad esempio i socialisti italiani, essa non aveva grande importanza,
3
c’erano però situazioni in Europa che invece richiedevano un approfondimento
serio della questione. E’ il caso dei socialisti austriaci che vedevano nel mosaico
di nazionalità dell’impero asburgico un problema che andava risolto. Per Otto
Bauer includendo le masse nella comunità nazionale, si sarebbe rafforzata la
coscienza nazionale scevra, però, da tutti i vari particolarismi e ideali tradizionali
“mentre la divisione internazionale del lavoro, pienamente realizzabile solo nel
socialismo, avrebbe diminuito gli ostacoli territoriali alla libera articolazione
culturale-nazionale dell’umanità”
4
.
Tale problema era posto anche nell’impero russo, soprattutto tra i socialisti
polacchi. E a questo proposito Rosa Luxemburg attaccò il principio
dell’autodeterminazione in quanto non aveva intenzione di subordinare la lotta del
2
R. Hilferding, Das Finanzkapital, in Salsano, op. cit, pp. 190 e seg.
3
Si guardava piuttosto alla lotta di classe e ci si dichiarava decisamente internazionalisti.
4
Salsano, op.cit. p.161 e seg.
8
proletariato polacco a quella per l’indipendenza. D’altra parte la Luxemburg da
anni conduceva una polemica antipatriottica ponendosi su posizioni di lotta di
classe e d’internazionalismo. Per lei dunque “ la formula sul “diritto delle nazioni
all’autodeterminazione” non costituisce in realtà una indicazione politica e
programmatica relativamente alla questione nazionale, ma un modo di fuggire a
questo problema”
5
.
1.1 Congressi
Il congresso di Stoccarda fu denso di decisioni importanti. Si discussero,
infatti, i problemi della questione femminile, nonché delle relazioni che dovessero
intercorrere tra partiti e sindacati. Ma il primo punto all’ordine del giorno fu
quello riguardante il militarismo e la guerra. Non era la prima volta, in verità, che
si discuteva di tale problema. Già a Bruxelles, al congresso del 1890, si era
deliberato che il 1° maggio dovesse essere, oltre che giornata di astensione dal
lavoro, anche festività dedicata alla pace. Questo obbiettivo fu introdotto dai
socialisti tedeschi che intendevano dare alla festività non solo un carattere
economico, ma anche politico. Questo interessamento dei tedeschi, che
orgogliosamente si erano rifiutati di accettare l’annessione dell’Alsazia-Lorena e
che si erano schierati con gli omologhi francesi, derivava anche dal fatto che i
socialdemocratici non si sentivano pronti a scioperare per la giornata lavorativa di
otto ore, anche per le azioni repressive che ne potevano derivare.
5
R.Luxemburg, Kwestia narodowosquwa i autonimia, in Salsano, op. cit, p.185
9
In seguito, al congresso di Parigi del 1900, la commissione per la guerra
affermava che i conflitti in “regime capitalistico” non nascevano da motivi
nazionali o religiosi, che anzi erano fomentati dai governi, ma da interessi
economici. Perciò se si voleva impedire la guerra era necessario che i lavoratori
s’impadronissero del potere politico, in quanto i governi erano lo strumento della
classe capitalistica.
Successivamente si sarebbero dovuti abolire tutti gli eserciti permanenti,
sostituiti da una milizia civile e nazionale e si sarebbero dovuti creare tribunali
internazionali che risolvessero tramite arbitrato le eventuali controversie fra Stati.
Tale rapporto venne votato all’unanimità. Venne affrontato poi il problema
dell’imperialismo coloniale. La risoluzione, anche questa votata all’unanimità,
impegnava l’Internazionale a combattere in ogni modo l’espansione capitalista
nelle colonie. Per fare ciò ci si proponeva di creare partiti socialisti nei paesi
colonizzati e collaborare con essi.
Secondo Cole
6
è interessante notare che sia delegati inglesi che olandesi e
belgi approvarono tale risoluzione, ma che pochi anni dappresso il colonialismo
avrebbe avuto tra le sue fila anche difensori socialisti. Ma per il momento, le
rivalità imperialistiche tra gli Stati non erano ancora così forti da non far
denunciare sinceramente ed appassionatamente il colonialismo. A Parigi iniziò
anche il grande dibattito sull’antimilitarismo promosso da Rosa Luxemburg. Ella
mise in rilievo che la crisi della società capitalistica sarebbe stata accelerata non
già da un crollo economico, ché anzi il capitalismo era in rapida ascesa, ma dalle
6
G.D.H. Cole, La II Internazionale, parte seconda, Bari, Laterza, 1968, pp. 56-57
10
rivalità delle diverse potenze imperialiste. Se si voleva evitare la guerra, perciò, i
partiti socialisti avrebbero dovuto combattere insieme sia il militarismo che il
colonialismo e per far questo era necessario, in primo luogo, educare la gioventù
alla lotta di classe, in secondo luogo ogni partito socialista avrebbe dovuto votare
contro ogni stanziamento per le forze armate, infine, si sarebbero dovute
organizzare proteste e manifestazioni ogni volta che si profilasse una crisi
internazionale. Anche questa risoluzione fu votata all’unanimità, “giacché la
maggioranza dei socialisti non sospettava davvero quanto presto si sarebbe
trovata di fronte a un violento conflitto tra le esigenze della solidarietà nazionale e
di quella internazionale. I delegati al congresso di Parigi seguitavano a cercare di
esorcizzare con belle frasi un pericolo che ancora non era diventato tanto
imminente da costringerli a precisare a quale bandiera intendevano rimanere
fedeli”
7
. A Parigi si avviò anche il dibattito sullo sciopero generale contro la
guerra. Lo sciopero, per Briand, all’epoca ancora su posizioni di estrema sinistra,
sarebbe stato non solo d’impedimento alla guerra, ma anche l’inizio di un
movimento rivoluzionario che avrebbe portato la classe operaia al potere. Con
Briand si schierarono la sinistra francese, spagnola e italiana, ma la maggioranza
dei delegati, tedeschi in testa, che anzi predicavano un sicuro fallimento di tale
iniziativa, si schierò contro lo sciopero generale, così, seppur con molti malumori,
la questione fu rimandata.
Anche al congresso di Amsterdam del 1904 si parlò di colonialismo.
L’olandese van Kol presentò una risoluzione che impegnava il congresso ad
7
Cole, op. cit. p. 58
11
opporsi a tutte le misure imperialistiche o a tutti gli stanziamenti in loro favore.
Inoltre condannava ogni monopolio commerciale nelle zone coloniali e lo stato
d’oppressione in cui versavano i popoli colonizzati.
Molti avvenimenti scossero l’Europa tra il congresso di Amsterdam e
quello di Stoccarda. Il sistema del “concerto delle potenze” di bismarkiana
memoria cominciava a scricchiolare, sempre più numerosi erano i punti di
frizione delle grandi potenze, senza contare le aspirazioni nazionalistiche delle
piccole, specie nei Balcani. Le vecchie alleanze sembravano diventare più fluide
dando al continente sempre più un aspetto bipolare e la crescente aggressività
nella politica estera determinò una corsa agli armamenti che s’intensificò sempre
più. Ci furono momenti in cui davvero l’Europa sembrò sull’orlo di una guerra:
uno di questi fu la crisi marocchina del 1905 tra Francia e Germania e che si
concluse con la vittoria della prima. Ci fu poi l’enorme impressione causata dalla
prima rivoluzione russa, scoppiata in seguito alla catastrofica guerra dello zar
contro il Giappone. La rivoluzione, tuttavia, si concluse con una sconfitta. I fatti
di Russia si riverberarono sui movimenti socialisti, soprattutto per ciò che
riguardava la funzione dello sciopero generale. Ma anche altri avvenimenti
accaddero all’interno del movimento operaio: in Austria a causa del suffragio
allargato ben ottantasette deputati socialisti entrarono nel Reichsrat, In Inghilterra
si costituì il Labour Party che fu in grado di mandare trenta deputati in
Parlamento. I socialdemocratici tedeschi, invece, subirono una flessione, anche a
causa delle manovre antisocialiste di von Bülow. In queste condizioni, durante il
congresso di Stoccarda, si prestò meno attenzione ai contrasti ideologici e ci si
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preoccupò maggiormente di come il socialismo potesse impedire la guerra e di
come ci si sarebbe dovuti comportare nel caso in cui un conflitto fosse
effettivamente esploso. Non solo, ma i socialisti erano lì anche per chiarire alcuni
punti su cui, forse, non si era mai riflettuto così profondamente in precedenza, per
esempio se un eventuale conflitto sarebbe potuto essere l’inizio di una rivoluzione
proletaria oppure una cessazione della lotta di classe in ogni paese. O ancora, se
l’ostilità professata verso lo Stato dovesse perdurare anche in caso di guerra o se
non fosse più giusto invece difendere i confini nazionali. Come porsi nei
confronti dei partiti pacifisti borghesi e se appoggiare i piani borghesi di arbitrato
internazionale e riduzione degli armamenti. Insomma, le questioni su cui riflettere
erano molte e molto importanti. Il congresso si svolse per la prima volta in
Germania, anche questo segno del cambiamento dei tempi. Fu costituita una
sottocommissione per discutere specificatamente dei problemi sopracitati e furono
presentate quattro risoluzioni: di Bebel, in rappresentanza dei tedeschi, di Vaillant
e Jaurès a nome del Partito Socialista Unificato francese, la terza di Guesde da
parte dell’altra delegazione francese, infine l’ultima da Hervé a nome della
frazione estremista e antipatriottica. Il documento prodotto da Bebel affermava
che le guerre non erano altro che conseguenza delle rivalità sul mercato mondiale
in quanto ogni Stato capitalista cercava sempre nuovi sbocchi economici,
asservendo e conquistando territori di popoli stranieri. Sicché le guerre erano
l’essenza stessa del capitalismo e sarebbero finalmente finite solo nel momento in
cui il capitalismo avrebbe cessato di esistere. Ecco perché la classe operaia era la
nemica naturale della guerra, non solo perché ne era la vittima, ma anche perché