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Introduzione
Il 17 febbraio del 2009, a trent‟anni dalla fine del regime dei khmer rossi in
Cambogia, ha avuto inizio il processo all‟ex leader dei khmer rossi Kaing Guek
Eav, detto “Duch”, direttore del campo di prigionia S21, accusato di crimini
contro l‟umanità.
Contemporaneamente si celebrava il trentesimo anniversario della breve ma
sanguinosa guerra tra la Cina e il Vietnam, che rappresenta l‟epilogo di un
regime considerato tra i più violenti del XX secolo, frutto di una delle
rivoluzioni più radicali che si possano ricordare: quella cambogiana.
Nel 1979, quando il Vietnam rovesciò il regime dei khmer rossi la Cina si sentì
sfidata in casa propria dal partito comunista vietnamita, nato proprio con
l‟aiuto cinese. Così Pechino, ordinò “di dare una lezione ad Hanoi”, e di
mantenere al potere il leader dei khmer rossi: Pol Pot.
La guerra durò meno di un mese ma causò tra i venti e i trentamila morti.
La strage fu la degna conclusione di 4 anni di un regime spietato.
In questo elaborato il mio intento è quello di far luce sulle poco conosciute
vicende che hanno caratterizzato i quattro anni di regime rivoluzionario in
Cambogia - dal 1975 al 1979 -, di analizzare le caratteristiche del fenomeno
rivoluzionario in generale, e di teorizzare i motivi per i quali una rivoluzione di
tale portata abbia trovato terreno fertile per insediarsi in un territorio come
l‟Indocina e la Cambogia in particolare.
In un excursus storico contenuto nel primo capitolo del mio lavoro, tenterò di
spiegare come la Cambogia sia passata dalla società fiorente degli spettacolari
templi di Angkor wat, alla “Kampuchea Democratica” delle opere pubbliche
costruite senza alcun sapere scientifico e teorico, ritenuto borghese e quindi
negativo.
Nel 1953 la Cambogia ottenne l‟indipendenza dopo un lungo periodo di
protettorato francese. Il giovane re Sihanouk guidò il paese verso la
modernizzazione adottando ad ampio raggio il modello culturale occidentale –
nella fattispecie francese – e mortificando così la tradizione cambogiana.
Nonostante le scelte di Sihanouk portassero l‟economia e la cultura
cambogiana verso il declino, opporsi al tentativo di modernizzazione era
difficile, essendo il re, insieme con il suo partito “Sangkun “, l‟unico
legittimato a partecipare alle decisioni politiche.
La sinistra, alla quale era stato vietato di esprimersi, tentò così di conquistare
- seguendo i consigli di Mao Tze tung - prima la popolazione contadina,
alienata e scontenta della condizione economica e politica del proprio paese, e
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poi il potere politico nella sua interezza.
Premessa essenziale per una chiara e corretta analisi è la descrizione dei
provvedimenti intrapresi dal regime dei khmer rossi capeggiati da Saloth Sar,
noto come Pol Pot. Secondo i dati forniti dal politologo Rudolph J. Rummel, il
democidio compiuto durante i 3 anni, gli 8 mesi e i 20 giorni del governo dei comunisti
khmer rossi provocò l‟assassinio di circa 2.400.000 persone. La popolazione
cambogiana arrivava ai 7.000.000 di persone. Chiaro quindi, che questa rivoluzione
venga definita, per proporzionalità, una delle più sanguinose della storia.
Dal 1975, i khmer rossi ottennero il potere e isolarono completamente la
Cambogia dal mondo, chiudendo le ambasciate e sospendendo i collegamenti
aerei. Abolirono la moneta, collettivizzarono l‟economia, desertificarono la
capitale Phnom Penh, e tutte le altre città. Smantellarono religione, sistema
scolastico e abolirono tutte le professioni borghesi. Imposero ai cambogiani
una nuova identità, in nome dell‟uguaglianza esplicitata da una sorta di divisa
imposta a tutti: un “sampot” nero.
I khmer, infatti, intesero la prassi rivoluzionaria come un mezzo per “purificare” la
Cambogia da ogni “contaminazione” occidentale. Per risalire alle ragioni che spinsero i
khmer rossi ad abbracciare il brutale progetto di sterminare tutto quanto fosse legato
alla “demoniaca” presenza occidentale farò riferimento agli studi di Arnold J. Toynbee,
poi ripresi e approfonditi da Luciano Pellicani. La tesi dell‟ “aggressione culturale”
di Toynbee, spiega le reazioni da parte di una società contenutisticamente e
materialmente invasa da una società che gode di maggiore “forza radioattiva”.
La società invasa finisce con il rifiutare ciò che proviene dalla società
“invasora” e tenta così di ritrovare una propria identità.
Come vedremo, la rivoluzione cambogiana, a seguito di tante altre, può
essere considerata una rivoluzione concepita come rigenerazione materiale e
morale dell'uomo tramite la prometeica costruzione di un Regno di Dio senza
Dio. Questa volontà suppone indubbiamente una visione negativa del mondo
così come esso si presenta all‟uomo moderno: il male e la sofferenza, che
sono inscindibilmente legati alla condizione umana, non sono più considerati
tollerabili, e si perviene così alla conclusione che sia necessaria un‟azione di
forza - una rivoluzione - che possa trasformare questo mondo imperfetto in
quel Paradiso che nessuno ha più la pazienza di attendere.
Nel suo libro “ I rivoluzionari di professione”, Luciano Pellicani definisce questa
prassi rivoluzionaria “gnostica” poiché animata da una vera e propria eresia
atea interna alla Weltanschauung giudaico-cristiana. La tesi che Pellicani
espone è che il significato storico-culturale dello gnosticismo rivoluzionario
può essere compreso solo se si tiene in considerazione la crisi provocata dal
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passaggio dalla società tradizionale a quella moderna.
Questa crisi provoca delle conseguenze dure: sradica milioni di contadini e li
proletarizza; disloca larghi strati dell‟intellighenzia e li costringe a vivere in
una condizione anomala; sconvolge il sistema ideologico che assicurava
omogeneità intellettuale; e disincanta gli uomini eliminando la religione e
lasciando incolmato un vuoto metafisico.
La Rivoluzione gnostica diventa, quindi, una risposta alle reazioni emotive
provocate dai suddetti processi di adattamento alla civiltà industriale da parte
di culture extraeuropee. Infatti, è storicamente evidente che, le vittime della
catastrofe culturale generata dall‟avanzata del capitalismo, si sono affidate ad
una guida carismatica – così definita da Weber - per sottrarsi ai tormenti
della grande trasformazione, e per creare una nuova tavola di valori da
associare ad un nuovo ordine sociale.
Verrà approfondito, infatti, il ruolo del “partito” inteso come simbolo di
appartenenza di un intellighenzia radicale alienata, come mezzo per alleviare
il già citato vuoto metafisico. Nello specifico l‟analisi riguarderà il “partito dei
puri”, che prende origine all‟interno di una società che esso giudica corrotta,
impura, e che cerca di ricondurre alla sua purezza perduta.
Inoltre, mi baserò su un‟analisi sociologica che, attraverso la comprensione
della struttura del sistema sociale e di quello politico, ci permetterà di capire
quali siano le variabili indipendenti da prendere in considerazione all‟interno di
una società per spiegare la rottura rivoluzionaria .
Riferimento costante sarà l‟analisi di Pellicani, che, nel suo libro “Dinamica
delle rivoluzioni”, costruisce, sulla scorta dei più avanzati strumenti euristici
della sociologia e della scienza politica, un modello analitico per lo studio dei
conflitti stasiologici, divisi in rivoluzioni, colpi di stato, e jacquerie. Pellicani
avanza anche un'interpretazione del significato storico-politico della crisi di
transizione della società agricola tradizionale alla moderna società industriale,
che costituisce, nell‟analisi tutta, una problematica costante nonché una
premessa indispensabile per comprendere dove e quando sorge una
rivoluzione.
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1. La vie en rouge.
1. 1. La Cambogia sotto i khmer rossi.
La rivoluzione cambogiana (1975 – 1979 ) è considerata la rivoluzione più radicale che
la storia abbia mai conosciuto. I khmer rossi, guidati dal Fratello Numero Uno di nome
Pol Pot, sono stati gli artefici di un vortice funebre, che ha segnato l‟anno zero di una
“nuova” Cambogia, da loro chiamata “Kampuchea democratica”.
Dopo la conquista della capitale Phnom Penh, il 17 aprile 1975, l‟Angkar –
l‟Organizzazione guidata da Pol Pot – fece in modo che la Cambogia venisse
completamente isolata dal mondo. In meno di quattro anni, i Khmer rossi abolirono la
moneta, collettivizzarono integralmente l‟economia e desertificarono le città. Il nuovo
regime annientò qualsiasi forma di opposizione, proibì l‟uso dell‟io ed eliminò i
ringraziamenti (considerati una pratica borghese), smantellò la religione, abolì il
sistema scolastico e procedette alla confisca di tutti i documenti, imponendo ai
cambogiani di acquisire un nuovo nome e una nuova identità. La rivoluzione impose la
chiusura di tutte le ambasciate della capitale e di tutti i collegamenti aerei,
preservando unicamente quelli con la Cina.
1
La nuova Cambogia fu caratterizzata da
enormi e strazianti campi di lavoro. Nel suo articolo Cambogia: l‟utopia omicida,
apparso sulla rivista “Mondoperaio” (3/1983), F. Feher si è soffermato
sull‟annientamento dell‟identità individuale nella Cambogia khmer, dove ogni giorno
bisognava partecipare a riunioni di critica/autocritica, durante le quali l‟individuo,
formulando e accogliendo critiche riguardanti il proprio e l‟altrui comportamento,
veniva ”rieducato” ad assimilare le idee dell‟Angkar e ad allontanarsi da quelle
reazionarie della classe d‟origine.
In realtà, più che sedute di autocritica, si trattava di vere e proprie forme di “lavaggio
del cervello”. Come si legge in un articolo pubblicato sulla rivista storica “Vingtième
Siècle” depositato presso la Columbia University Library “il binomio critica/autocritica si
rivelerà una efficace “procedura d‟inquisizione/umiliazione tesa ad abolire qualsiasi
forma di individualità”.
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O. T. Hoeung, nel suo volume autobiografico Ho creduto nei
Khmer rossi, racconta che anche il semplice poggiare le mani sui fianchi fu proibito,
poiché ricordava il comportamento dei militari del vecchio regime. I dubbi e le
domande erano controrivoluzionari, bisognava accettare qualsiasi decisione dell‟Angkar.
1 O.T.Hoeung, Ho creduto nei khmer rossi, Guerini e Associati, Milano, 2004, p. 34
2 J. L. Margolin, Le Cambodge des khmers rouges: De la logique de guerre totale au génocide, in
“Vingtième Siècle”, 77/2003, p. 3