5
2. La frontiera ovvero il luogo immaginario
Qualunque definizione si dia di confine e/o di frontiera, sia che se ne parli in
termini di barriera, di protezione o di ostacolo, sia che se ne sottolinei l’aspetto
di passaggio, di soglia o di margine, l’animale-uomo sembra non poter vivere
quanto meno culturalmente, senza porre e porsi dei limiti, ovvero senza de-
limitare, tratteggiare, contornare, de-finire lo spazio, uno spazio che, proprio in
virtù della presenza e dell’azione dell’uomo, non è mai puramente fisico,
strutturato com’è da rappresentazioni, simboli, segni, riti, miti o quant’altro. Ne
consegue allora che le frontiere e i confini sono luoghi immaginari, o meglio
luoghi dell’immaginario.
Sia che si parli del confine come luogo in cui si afferma una differenza (tra
noi e gli altri), sia che se ne parli nei termini ancor più rigidi di barriera, di
difesa, di baluardo da una qualunque minaccia di contaminazione (simbolica o
reale che sia, e comunque sempre simbolica), da un disordine che avanza e che
minaccia le nostre più elementari certezze, da una devianza che è malattia della
socialità, della politica, della sacralità, sia all’inverso che lo si definisca in
termini di comunicazione – di interfaccia, oggi diremmo – o di luogo di
passaggio, qualunque sia, dunque, la topografia che è possibile di-segnare dei
territori di confine, qualunque sia la tassonomia che possiamo dedurre degli
abitanti-personaggi della frontiera, rimane il fatto – la costante – che è nella
natura dell’uomo (di questo «animale che sogna ad occhi aperti», come ci
ricorda Lévi-Strauss) vivere la frontiera come condizione esistenziale. In altre
parole, per affermare la propria identità (sociale e individuale), per costituirla,
l’uomo sembra non poter fare a meno di tracciare bordi, linee, orizzonti, spazi
riconosciuti e riconoscibili.
E allora che dire dei popoli nomadi, in apparenza negazione di ogni confine
o spazio delimitato? O meglio come definire il nomadismo rispetto ai concetti
di spazio e luogo dei popoli sedentari? Questi popoli creano anch’essi dei
luoghi all’interno dello spazio che perennemente percorrono? Ma se così è (e
crediamo lo sia) che tipo di luoghi e di spazi essi creano? Sono della medesima
natura di quelli creati dai popoli sedentari? E come definire quel luogo
particolare attorno cui si organizzano, quel “centro” che caratterizza queste
società, queste culture, un centro che perennemente si sposta con esse? Un
6
centro che, per quanto non fissato in un luogo specifico, comunque esiste e
fornisce identità? È possibile allora parlare anche di frontiera, di confini, di
orizzonti per i popoli nomadi, linee al di là delle quali finisce il mondo o quanto
meno il loro mondo? E, ancora, che tipo di identità caratterizza questi popoli?
Per non andare oltre e chiederci: un’identità è davvero necessaria?
Ecco allora sorgere dentro di noi la sensazione che il nomadismo in quanto
creazione continua di luoghi, definizione di confini in termini di orizzonte (o
forse negazione dei confini in termini di orizzonte), oltrepassamento costante di
frontiere (soprattutto quelle altrui) sia anche la condizione di una libertà che ai
popoli sedentari, o soprattutto ai singoli individui che ne fanno parte, risulta
essere incomprensibile.
A questo proposito potremmo anche chiederci cosa differenzia l’horror
vacui che angoscia i “sedentari” dall’horror domesticus che fonda l’insaziabile
mobilità dei “nomadi”. Che si tratti di una diversa concezione dello spazio? Di
un diverso tipo di organizzazione sociale e politica? Di un diverso modo di
rappresentarsi il mondo?
Perché non ricordare per esempio le vie dei canti degli aborigeni australiani,
spazi di frontiera, non fisicamente tracciati, immaginari, simbolici, mitici,
sentieri e non strade, luoghi inafferrabili per lo straniero, perché invisibili al suo
sguardo culturale, eppure esistenti, in qualche modo reali, concreti, fondanti
quella cultura che li percorre?
Ma torniamo ai popoli sedentari e all’idea di frontiera e di confine che li
caratterizza.
Sia che la frontiera sia lo spazio della separazione e della diversità (dal latino
divĕrtere ‘volgere – vĕrtere – in opposta direzione’) sia che sia lo spazio
dell’unione, della comunicazione, della differenza (da latino diffĕrre ‘portare –
fĕrre – da una parte all’altra’), in ogni caso essa pone dei limiti all’uomo, al suo
sviluppo, alla sua libertà, soprattutto in quanto singolo, in quanto individuo; ma,
al tempo stesso, rende possibili altri sviluppi, forse anche altre libertà.
Nel credere che la libertà stia nella comunicazione, nel passaggio,
nell’essere-della-soglia, si dimentica che questa comunicazione, questi
passaggi, fanno parte di un sistema culturale, simbolico e sociale organizzato
intorno ad un potere politico (al potere della polis) che vuole conservarsi e che
7
perciò deve in qualche modo illudere, giocando con i desideri e le paure dei
singoli.
Allora, che la piena libertà non possa esistere se non nello spazio illimitato,
incontaminato, in cui perdersi, passo dopo passo, giorno dopo giorno? E di che
libertà si tratterebbe?
La questione non sta nel trovare risposte a questi interrogativi, ma piuttosto
nell’interrogarsi sulla loro ragion d’essere e nell’interrogarli (gli interrogativi),
nel rispondere alla domanda con un’altra domanda, nel tentativo di localizzare
le ragioni, le cause, i contesti da cui le domande sorgono. Forse questo
dovrebbe essere il punto di partenza di ogni antropologia: non il cercare risposte
(o non limitarsi a questo) ma arricchire di nuove domande il mondo, aprirsi
all’altro interrogandosi e interrogandolo, tentare di interpretare le sue
interpretazioni.
Da sempre i viaggiatori, i nomadi, i pellegrini, tutti coloro che varcano i
confini – non solo spaziali –, tutti i soggetti liminari sono visti dalle società
sedentarie, dai loro “centri”, come potenziali sovversivi, agenti contaminanti,
portatori di disordine. Ma quali sono oggi, in quest’era dell’omologazione e
della globalizzazione, i personaggi, le figure, i luoghi della frontiera?
Nuove sfide vengono lanciate nei luoghi estremi della terra, laddove il
singolo si confronta perennemente con i propri limiti, per superarli, limiti non
solo fisici e biologici, ma anche culturali, psicologici, sociali: conquistare le
montagne più imprendibili – «La scalata è un’avventura dello spirito» (Manolo)
–, affrontare da soli i mari del mondo, vagare nel deserto in cerca di un nuovo
sguardo, di un nuovo modo di guardare (Werner Herzog)… Sono, questi,
moderni Ulisse in rotta verso Itaca o piuttosto novelli epigoni del Kurtz
conradiano (e, perché no, anche di quello coppoliano) che sfidando la terra
desolata e selvaggia, giungono nel cuore delle tenebre della boscaglia e
dell’animo umano e lì si perdono?
Vi è forse una tensione continua tra l’aspirazione del singolo ad andare oltre
(oltre le chiusure, le barriere, i limiti) e la tendenza del gruppo, della comunità,
della società a delimitare, contenere, rinchiudere? Ma, prima ancora di questo,
forse dovremmo chiederci se la frontiera è uno spazio, un luogo o piuttosto una
linea, e indagarne la struttura. Si tratta di una terra di mezzo, di una terra di
nessuno o di un bordo che si affaccia su un vuoto incolmabile? In ogni caso,
8
come ogni creazione dell’uomo, anche la frontiera è, prima di tutto, il prodotto
di quello specifico sistema culturale e simbolico su cui si fonda ogni società
umana.
Oltrepassare la frontiera, attraversare i confini – magari percorrerli –, vivere
“tra”, significa, prima di tutto, porsi in uno spazio “altro”, uno spazio che
appartiene al sovrumano o al subumano, e quasi mai all’umano. Ma può pure
significare avventurarsi in uno spazio in cui perdersi è ritrovarsi. Allora varcare
la linea significa abbandonarsi ad uno spazio illimitato, sconfinato e, in quanto
tale, di frontiera. La frontiera allora non è più una semplice linea, ma un intero
spazio, non uno spazio tra spazi, ma tutto l’immenso spazio che si estende al di
là del nostro spazio domestico. La terra selvaggia si oppone al territorio
addomesticato, delimitato, dominato, al luogo del politico.
Contro la separazione tra luogo e corpo, le personalità di frontiera,
perennemente border line, vivono in una perenne ricerca di unità e
riunificazione, si aprono la strada verso quell’ecologia della mente di cui parla
Bateson, per il quale non solo la nostra mente è immanente nel nostro corpo ma
lo è pure rispetto ad un sistema della Mente esterno a noi e che fonda
quell’ambiente complessivo di cui fanno parte anche altre unità sociali, altre
razze, così come gli animali e le piante.
2
Così se l’attraversare i confini, il
muoversi liberamente nello spazio, il vivere nomade costituisce una
trasgressione dell’ordine, una sorta di atto sovversivo, contro il potere del
“centro”, di un qualche centro, al tempo stesso esso è anche momento creativo
ed evolutivo, occasione culturale dalle imprevedibili possibilità.
Diverse sono le modalità del passaggio, a seconda delle caratteristiche dei
suoi protagonisti. Dai pellegrini agli emigranti, dai viaggiatori-esploratori ai
nomadi via via fino ai ribelli e agli esuli, agli stregoni, ai maghi e agli sciamani,
ai profeti e ai santi, agli eroi mitici e agli dei bricconi, ai devianti e ai border
line, ognuno, a modo suo, trasgredisce (da trāns- ‘al di là’ e grădi ‘passare’)
così come ognuno è oggetto di particolari riti di passaggio e/o di esclusione.
2
Cfr. Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente [1972], tr. it. Adelphi, Milano 1976, pp.
479-480. Quanto sostenuto dall’autore dilata la mente verso l’esterno, riduce l’ambito dell’io
conscio per cui «Si rivela opportuna una certa dose di umiltà, temperata dalla dignità o dalla
gioia di far parte di qualcosa di assai più grande».
9
Paura e desiderio, ma anche curiosità e stupore, sono all’origine di questi
passaggi, soprattutto nelle epoche passate. Oggi, infatti, assistiamo a
quell’appiattimento dell’emozione che, per esempio, a proposito dello stupore,
ci porta a dire, quando arriviamo in un luogo mai visitato prima: “È come lo
immaginavo!” La nuova ideologia dominante è quella del tutto all’insegna
dell’armonia e della partecipazione (vedi i contemporanei rapporti tra capitale e
lavoro). In questo senso la cancellazione virtuale dei confini (e con esso dello
spazio ignoto, “altro”, dell’ignoto), attuata attraverso il mito del “villaggio
globale”, è il segno di un potere che vuole eliminare l’attraversamento e con
esso le occasioni di sovversione.
L’attraversamento, il passaggio di confine, produce pericoli: di contagio, di
invasione, di ribellione, di sovversione. Per questo i personaggi di confine,
coloro che li abitano, li vivono, li attraversano come consuetudine vengono visti
con preoccupazione ed è per questo che sono necessari processi di
simbolizzazione, ritualizzazione, mitizzazione, per normalizzare, neutralizzare,
esorcizzare questi atti e questi personaggi. Il pellegrinaggio viene così
istituzionalizzato, il viaggio trasformato in consumo turistico, le migrazioni
controllate in campi profughi, e ogni forma di nomadismo condannata e
combattuta talvolta nelle modalità più scellerate.
3. Paura e desiderio, ovvero l’ambigua natura del confine
Il confine divide, separa, protegge da ciò che fa paura: il caos, il disordine, il
pericolo, la contaminazione, il nulla. Al tempo stesso blocca, impedisce
all’individuo di sfuggire al controllo del potere, di trovare se stesso altrove,
nell’altrove, di ricongiungersi allo spazio illimitato, assoluto (ăb sŏlutus?) e in
tal modo alimenta ulteriormente il desiderio di un altrove, di uno spazio
potenziale, di un altrimenti possibile (pensiamo al virtuale oggi: cos’è se non
l’illusoria possibilità di vivere oltre i confini, in un mondo senza confini?).
Paura e desiderio esprimono questa tensione dell’uomo verso i confini, una
tensione che è anche e soprattutto tensione verso coloro che tali confini vivono
e incarnano: stranieri, stregoni, maghi, santi, profeti, pellegrini, viaggiatori,
esuli, ribelli…
10
Ma la tensione paura/desiderio è anche la condizione di coloro che vivono
una situazione liminare, di passaggio da uno stato ad un altro, e il rito, i riti di
passaggio non sono altro che sostegni collettivi di questo passaggio.
Ecco nuovamente emergere le figure della frontiera: l’anarca, il border line,
il ribelle, il nomade, il cavaliere errante; figure singolari, eroi dai mille volti, o
mille volti della medesima figura di eroe, che accetta la sfida del limite, del
porsi in un al di là, in uno spazio altro, di cui non è dato conoscere nulla, dove
l’esperienza non ha il conforto della memoria.
Se l’atto dell’oltrepassare costituisce una minaccia (per sé, per il proprio
gruppo o per il gruppo altro), esso è anche fonte di novità, di trasformazione, di
evoluzione, proprio perché nulla può durare rimanendo immobile. Contro un
potere che domina e controlla la normalità (che la istituisce), che rinchiude e
reclude la devianza, ma che anche la espelle, il desiderio spinge a sfidare i limiti
imposti. Ma non sempre chi oltrepassa questi limiti, chi varca la soglia desidera
farlo: ecco allora la crisi dei profughi e degli emigranti… liminari o, come
suggerisce Victor Turner, “liminoidi”.
Il “centro”, la società, ci modella e ci costruisce nel senso di una
appartenenza che non vede altro spazio che quello domestico e ciò ci mette in
crisi quando scopriamo esistere uno spazio “altro”, più conforme alla nostra
natura, o, all’inverso, quando in questo spazio veniamo proiettati nostro
malgrado. Ne derivano allora almeno due tipologie di figure della soglia: coloro
che desiderano varcarla (si pensi all’alternativa nomade proposta da Chatwin,
nella convinzione che l’aggressività umana possa in qualche modo essere
causata dall’essere confinati in un luogo) e coloro che devono varcarla… ancora
paura e desiderio.
Paura e desiderio è la condizione di chi sta sulla soglia. Questa è la tensione
della condizione liminale, dell’essere tra uno spazio e l’altro, una condizione e
l’altra, uno stato e l’altro, uno status e l’altro. La paura ci vorrebbe trattenere
dove siamo. Il desiderio ci spinge invece oltre. Da una parte temiamo la natura
caotica, selvaggia e priva di certezze dello spazio “altro”, dall’altra desideriamo
perderci in quello spazio in quanto terra vergine, luogo edenico, sovrumano e
assoluto. La natura ambigua della soglia sta in questa sua condizione “terza”, in
questo suo non essere né sacra né profana, né umana né sovrumana, né interna
11
né esterna, o, che è poi lo stesso, nell’essere entrambe le cose. Il terzo che può
andare e venire
3
.
Comprendere, o meglio interpretare, il punto di vista di chi oltrepassa o è
costretto ad oltrepassare la soglia, significa anche comprendere o, meglio,
interpretare, la sua paura e il suo desiderio, anche in rapporto alla cultura di
appartenenza. Ecco allora lo sforzo dell’etnopsichiatria, disciplina di frontiera
tra la psichiatria e l’antropologia, di interpretare le psicopatologie in rapporto ai
modelli culturali di origine.
Passare il confine e collocarsi nello spazio “altro” significa sperimentare lo
spaesamento, la perdita di quella identità culturale e simbolica che ci unisce e ci
fa appartenere ad un luogo, ad un paesaggio, ad una località. Ma, come ci
ricorda La Cecla, questo perdersi può essere anche un modo per abitare lo
spazio, entrare in risonanza con esso, alla maniera delle civiltà preindustriali
4
.
In ogni caso, ancora una volta, paura (di perdersi) e desiderio (di perdersi).
3
Cfr. Luigi Alfieri, Il terzo che deve morire, in Giulio M. Chiodi (a cura di), Simbolica politica
del terzo, Giappichelli, Torino 1996, pp. 25-56.
4
Cfr. Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Bari 1988.
12
Lo spazio è già un luogo?
Alle origini di un discorso sulla frontiera
1.
Parlare di spazio in antropologia significa parlare, come ci ricorda Fabietti
1
, di
due spazi in particolare: di uno spazio inteso come oggetto di studio al pari di
altri – come la parentela, i miti e così via – e di uno spazio come categoria
epistemologica attorno alla quale l’antropologia ha costruito le proprie
rappresentazioni dell’alterità.
Dunque l’antropologia si è occupata dello spazio innanzitutto perché il modo
in cui le culture percepiscono e organizzano lo spazio è estremamente vario,
inoltre perché lo spazio, in quanto categoria, ha avuto un ruolo decisivo
nell’orientare la riflessione antropologica e, soprattutto, nel plasmare il concetto
stesso di cultura.
Per quanto riguarda il primo modo di intendere lo spazio, furono gli studi di
Durkheim, agli inizi del Novecento, ad inaugurare l’antropologia dello spazio
intesa come «specializzazione attenta al modo in cui gli esseri umani assegnano
allo spazio circostante valenze simboliche e significati determinati i quali hanno
a che vedere con la loro percezione morale, religiosa o estetica del mondo»
2
. In
tal modo lo spazio astratto, uniforme e omogeneo della geometria scompare per
lasciare il posto allo spazio significante di una determinata cultura, spazio che,
in virtù dei codici particolari che lo strutturano, acquista una concretezza del
tutto simile allo spazio sensibile
3
.
Ma lo spazio ha anche svolto un ruolo decisivo nel processo di costruzione
degli oggetti su cui l’antropologia ha esercitato la propria riflessione. Dalla fine
1
Ugo Fabietti, Spazio e spazi nella teoria antropologica, inedito. Si tratta del testo
dell’intervento fatto alla conferenza organizzata a Milano dall’Associazione Carlo Erba, nel
marzo 1999 sul tema dello spazio. Cfr. anche Ugo Fabietti, Antropologia culturale.
L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Bari 1999.
2
Ugo Fabietti, Spazio e spazi nella teoria antropologica, op. cit.
3
Avremo modo di parlare di questa “concretezza” dello spazio culturale e simbolico quando
affronteremo, in questo stesso capitolo, il problema dello spazio mitico in Cassirer.
13
del Settecento, ad esempio, la distanza spaziale diventa metafora della distanza
temporale tra popoli diversi, metafora che sarà alla base del progetto
comparativo sviluppato dall’evoluzionismo antropologico del XIX secolo. Fu da
quel momento che l’antropologia cominciò a prendere in considerazione la
realtà delle culture distribuite nello spazio.
Nella pratica etnografica, la localizzazione e la delimitazione del campo in
quanto spazio geografico definito sono state da allora momenti centrali. Le
ricerche sul campo hanno comportato quasi sempre lo spostamento del
ricercatore da uno “spazio proprio” verso un “luogo altro”, quello della
popolazione studiata
4
. Ciò, da un punto di vista teorico, ha prodotto una
concezione delle culture e delle società come entità discrete e separate le une
dalle altre. Così «la tendenza a praticare un certo tipo di etnografia spazialmente
localizzata, e la tendenza a concepire gli oggetti dell’antropologia come
circoscritti spazialmente, si sono sostenute a vicenda per dar luogo a quelle che
sono state chiamate ‘strategie di localizzazione’»
5
. Tali strategie
consisterebbero in quelle procedure descrittive utilizzate dall’antropologo «per
rappresentare il proprio oggetto di ricerca come spazialmente situabile e
riconoscibile, e quindi appartenente a un’area determinata»
6
.
Oggi però l’idea di un mondo in movimento ha sostituito quella per cui le
“culture”, le “società”, le “etnie” potevano essere localizzate nello spazio. Da
qui è nata la necessità di una etnografia in grado di cogliere la natura dei
fenomeni vissuti localmente in un mondo globalizzato e deterritorializzato. Le
culture cioè non sono più associabili a regioni, spazi, territori strettamente
4
A tal punto che potremmo anche parlare di un’antropologia dello spazio dell’antropologia, o,
meglio, dell’antropologo, per intendere il modo in cui i diversi antropologi, e le diverse scuole
antropologiche, percepiscono e organizzano lo “spazio altro” che intendono studiare. In altre
parole, si intende sottolineare il fatto che l’antropologo, in quanto uomo, ha anch’egli una
propria particolare percezione dello spazio che gli deriva dalla sua cultura di appartenenza e,
soprattutto, dalla sua specializzazione accademica. A questo proposito Fabietti (Cfr. Ugo
Fabietti, Antropologia culturale, op. cit., p. 74), citando il testo a cura di Richard Fardon,
Localizing strategies. Regional Traditions of Ethnographic Writing (Smithsonian Institution
Press, Washington 1990) parla di “precomprensione”, nel senso di un’influenza esercitata
sull’etnografo dal lavoro e dalla mappatura del campo effettuata da altri prima di lui. Il lavoro
dell’antropologo, nei termini della spazializzazione e della localizzazione delle culture da
studiare, diverrebbe così, a nostro avviso, esso stesso, oggetto di analisi dell’antropologia. Ma
ciò, crediamo, ci porta troppo lontano dalle intenzione del presente studio.
5
Ugo Fabietti, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, op. cit., pp. 73-74.
6
Ivi, p.74.
14
definiti. Le migrazioni, gli esodi, le diaspore sono divenuti fenomeni rilevanti
del mondo contemporaneo non nel senso che essi determinano l’estinzione delle
culture, ma piuttosto che ne determinano la rapida modificazione,
l’adattamento, l’intreccio in una rete di interazioni sempre più globale
7
.
Lo studio delle culture in tale contesto non dovrebbe allora più limitarsi alla
definizione di realtà chiuse, localizzate – invero mai realmente tali, oggi come
ieri. Il suo compito è piuttosto quello di cogliere l’uomo nel suo ambiente,
ambiente che non ha più quegli aspetti localizzati e localizzabili che poteva
presentare un tempo, per quanto egli continui ad elaborare un «immaginario
potente di ritorno ad un luogo, ad un territorio originario la cui rappresentazione
costituisce un elemento virtuale di forte aggregazione»
8
.
Ora, detto questo e facendo sempre riferimento allo stimolante intervento di
Fabietti, è possibile ritornare allo spazio inteso come oggetto, ovvero come
costruzione sociale e, più genericamente, simbolica, per domandarci se «quello
spazio che nell’antropologia ha svolto una funzione epistemologica così
rilevante e via via sempre diversa, non potrebbe essere il frutto dei diversi modi
in cui una cultura particolare, attraverso un particolare tipo di sguardo –
l’antropologia – ha cercato di attribuire un senso allo spazio»
9
.
2.
Al fine di proseguire nell’analisi dello spazio quale oggetto di studio
dell’antropologia, prendiamo ora in esame la distinzione che, nella lingua
italiana, oppone il termine “spazio” a quello di “luogo”. Se il primo è un «luogo
infinito e illimitato»
10
, il secondo invece è una «porzione, più o meno ampia, di
un territorio o di una regione»
11
. In altre definizioni, più o meno derivate da
7
Cfr. Ugo Fabietti, Spazio e spazi nella teoria antropologica, op. cit.
8
Cfr. Ibid. Ciò ci riporta ad un aspetto essenziale della percezione dello spazio, in quanto
sempre immaginato, sempre costruito, e dunque sempre culturale.
9
Cfr. Ibid. È ciò che abbiamo definito come possibile oggetto di un’antropologia dello spazio
dell’antropologia. Cfr. supra, nota n. 4.
10
Cfr. Salvatore Battaglia (a cura di) Grande dizionario della lingua italiana, vol. XIX, Unione
Tipografico Editore Torinese, Torino 1998. «Luogo infinito e illimitato di cui le cose materiali
occupano una parte con la loro dimensione definita e in cui avviene il moto quale appare
dall’esperienza umana…».
11
Cfr. Ivi, vol. IX, Unione Tipografico Editore Torinese, Torino 1975. «Porzione, più o meno
ampia, di un territorio o di una regione, osservata, per lo più, nella configurazione orizzontale e
15
queste, lo “spazio” si configura non solo come un’entità illimitata ma anche
indefinita
12
, conferendo al termine un ché di approssimativo e indeterminato
che richiede il ricorso alla categoria di “luogo”, sopra definita, per riportare la
questione spaziale su un piano più decisamente concreto.
Invero, come sottolinea Franco Crevatin, in molte lingue la categoria
“spazio” etimologicamente implica «una specificità che solo secondariamente è
stata estesa fino a comprendere la generalità»
13
e ciò fondamentalmente
significa che lo “spazio” è quasi sempre uno spazio concluso e delimitato. È,
comunque, altrettanto vero che la distinzione tra spazio e luogo, per quanto
diffusa, non può essere considerata in alcun modo universale.
Si pensi
solamente alla lingua Burundi, dove la parola “aha-ntu” viene usata sia per
indicare lo spazio, sia per indicare un luogo.
In verità il riferimento fatto alla lingua italiana e alla sostanziale differenza
semantica dei due termini di cui abbiamo detto non implica affatto un discorso
generalizzante – e d’altronde poco produttivo – né una volontà linguistico-
comparativa – molto lontana dagli scopi del presente studio – ma piuttosto
un’intenzione euristica o, per meglio dire, la volontà di definire un’ipotesi di
lavoro allo scopo di introdurre il problema della delimitazione dello spazio e del
suo rapporto con la cultura o, meglio ancora, con le culture.
In questo senso allora il “luogo” – così come l’abbiamo definito – si pone
come momento cruciale e concreto di una cultura ovvero come uno dei suoi
aspetti fondanti. Ciò ci permette di affermare che lo “spazio”, da un punto di
vista culturale, e diciamo pure, più in generale, umano, non esiste, e non può
esistere, proprio perché dotato di una caratteristica inquietante, minacciosa e
considerata in relazione con le cose che vi trovano posto o con le persone che vi risiedono;
località, sito, zona, territorio».
12
Cfr. la definizione di spazio proposta in Miro Dogliotti e Luigi Rosiello (a cura di), Lo
Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1995. «Nel linguaggio
scientifico e filosofico, entità illimitata e indefinita, dotata oppure no di determinate proprietà
geometriche, nella quale sono situati i corpi».
13
Franco Crevatin, “Campo” e “percorso”: note sulla categorizzazione spaziale, in «La
Ricerca Folklorica», numero 4, ottobre 1981, pp. 15-23.
16
drammaticamente pericolosa, una caratteristica, in ogni caso, inafferrabile dai
sensi così come dalla mente umana, se non per via di metafora. Si tratta
dell’illimitatezza.
L’uomo, in quanto animale culturale, deve de-finire, de-lineare, de-limitare,
deve cioè produrre luoghi – ripetiamo, culturali e dunque simbolici, anche
quando sono puramente materiali – affinché egli possa vivere, affinché egli
possa sfuggire al disordine e al caos. Lo spazio, in questo senso, non esiste
culturalmente, ovvero esiste proprio perché negato, posto altrove. Laddove
l’uomo posa lo sguardo, lì sorgono luoghi, territori, paesaggi culturali, ambiti in
ogni caso definiti e definibili. Se così non fosse egli cadrebbe nell’abisso, nel
caos, nel vuoto, nell’infinitamente illimitato. In un certo senso lo spazio è
sempre altro, è quell’immensità incalcolabile e indicibile che si estende oltre i
limiti conosciuti, oltre le colonne d’Ercole.
La distinzione spazio/luogo che abbiamo voluto usare è allora un po’ come
la distinzione esterno/interno, disordine/ordine. Non è che l’esterno, il
disordine, non esistano – i confini sono lì a ricordarcene l’esistenza – ma
preferiamo non occuparcene, tenerli lontani, relegandoli alla sfera del non
umano. Lo spazio, in un certo senso, è il “luogo” per eccellenza dell’alterità.
Come ci ricordano Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, «la cultura non
rappresenta mai un insieme universale, ma un sottosistema con una determinata
organizzazione»
14
. Ne deriva allora che la cultura è sempre una “porzione”,
«un’area chiusa sullo sfondo della non cultura». In questo senso la “cultura”
così definita – e dunque de-limitata – è assimilabile a ciò che abbiamo definito
come “luogo”, mentre la “non cultura” cui si oppone è un qualche cosa di molto
affine a ciò che si è detto “spazio”. Al tempo stesso, proseguono gli autori, non
bisogna dimenticare che la cultura, per esistere, ha bisogno di una
contrapposizione, per cui «la non cultura può apparire come estraneità a una
14
Cfr. Jurij M. Lotman - Boris A. Uspenskij, Sul meccanismo semiotico della cultura [1971] in
Jurij M. Lotman – Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura [1973], tr. it. Bompiani, Milano
1995, p. 40
17
determinata religione, a un determinato sapere, a un determinato tipo di vita e di
comportamento.»
15
Dunque parlare di spazio – e necessariamente di luoghi –
significa parlare di cultura, e di conseguenza significa chiedersi dove inizia e
dove finisce una cultura, porre cioè la questione dei limiti, dei confini, delle
frontiere di una cultura. «Sullo sfondo della non cultura, la cultura interviene
come un sistema di segni»
16
, come un sistema simbolico che imprime il suo
marchio nello spazio, delimitandolo e strutturandolo.
3.
Lo spazio è sempre spazio umanizzato, in quanto percepito, pensato, vissuto,
dall’uomo
17
. E, in quanto umanizzato, esso è in qualche modo sempre luogo,
sempre localizzato. D’altronde, come afferma Cassirer, «la percezione non
conosce il concetto di infinito, ma è legata fin da principio a determinati limiti
della facoltà percettiva e quindi a un ben delimitato campo dello spazio»
18
.
Se l’uomo è un essere ben delimitato, i cui limiti sono dati dal suo stesso
corpo, allora lo spazio in cui egli vive non può che essere “luogo”, ovvero una
porzione di spazio in cui siano collocabili i corpi, in cui tali corpi possano
orientarsi, trovare punti di riferimento e sfuggire in tal modo alla demartiniana
«angoscia territoriale»
19
.
Caratteristica di questo spazio percettivo è l’assenza di uniformità dei luoghi
e delle direzioni, nel senso che ogni luogo, ogni direzione ha una sua natura e
un suo valore
20
. In altre parole, ogni elemento dello spazio sensibile si
differenzia in virtù di una particolare qualità che deriva da «una qualche
15
Ibid.
16
Ibid.
17
Anche lo spazio altro, sia esso lo spazio selvaggio, lo spazio del disordine e del caos, lo
spazio del sovrumano o del subumano, in ogni caso del non-umano, è sempre spazio
umanizzato in quanto non esisterebbe senza l’uomo che lo definisce tale.
18
Cfr. Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche[1923], tr. it. La Nuova Italia, Firenze
1994
3
, vol. II, Il pensiero mitico.
19
Cfr. Ernesto de Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle
origini, in «Studi e Materiali di storia delle religioni», vol. XXIII, 1951-52, poi in appendice a Il
mondo magico, Bollati Boringhieri, Torino 1973.
20
Cfr. Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., p. 122.
18
primaria attività significatrice»
21
della coscienza. Ciò che ci appare costituire il
“dato” della realtà, non è un qualcosa di oggettivo, semplice, immediato, ma
qualcosa che, nel momento stesso in cui è percepito, è già condizionato e
determinato da una forma simbolica.
«Nello spazio sensibile come nello spazio mitico, ogni “qui” e “là” non è un
semplice qui e là, non è un semplice termine di una relazione generale che si
ripeta in modo uniforme nei contenuti più diversi; ma ogni punto, ogni
elemento possiede qui, per così dire, un proprio “accento”. Lo spazio sensibile
presenta un particolare carattere distintivo che non può essere più descritto in
modo generale e concettuale, ma che come tale viene direttamente vissuto.»
22
È dunque già nel momento della percezione che lo spazio viene ritagliato,
delimitato, definito e differenziato in luoghi – o, come propone Crevatin, in
campi
23
– e percorsi.
Introduciamo qui l’idea di “percorso” come diversa modalità di approccio
allo spazio. Se la costituzione di uno spazio stabile e delimitato, di un luogo, è
caratteristica delle società sedentarie, è, d’altro canto, vero che per le società
nomadi la «preoccupazione fondamentale è quella di rendere significante il
territorio con percorsi, riferimenti, emergenze mitiche»
24
. Ciò che accomuna i
due diversi approcci è la necessità – o forse l’inevitabilità – di rendere
significante lo spazio, di strutturarlo attraverso rappresentazioni, simboli, riti e
miti, ovvero di farne una realtà culturale.
21
Ibid.
22
Ivi, p. 123.
23
Franco Crevatin, “Campo” e “percorso”. Note sulla categorizzazione spaziale, op. cit.
«Siffatta area limitata ha due caratteristiche fondamentali: innanzi tutto è spazio ordinato,
strutturato; inoltre essa non sembra essere una realtà di per sé, bensì è correlata ad un quid,
inanimato o animato, al suo interno. […] tale spazio non può esistere di per sé, ma solo
relativamente a qualche cos’altro: questo rapporto di relazioni o di funzioni è quello che io
definisco campo.»
24
Ibid.