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che la consideravano una malattia, un peccato, fino alle attuali impostazioni teoriche
che, riconoscendo la pura legittimità e la assoluta naturalità della stessa, cosi come di
ogni orientamento sessuale, hanno posto le basi per identificarne le origini in condizioni
biologiche, piuttosto che nel contesto socioculturale di riferimento.
Analizzando la realtà attuale delle persone omosessuali è stato descritto il processo di
acquisizione e presa di coscienza del proprio orientamento sessuale, il coming out.
Nello specifico, riguardo alle coppie gay e lesbiche, l’analisi è stata rivolta alla ricerca
delle particolarità e dei modi di essere oggi coppia omosessuale nel nostro paese: alle
difficoltà e ai compiti specifici che queste persone si trovano a dover affrontare di fronte
ad un panorama che cambia, ma che non è ancora pronto ad accogliere del tutto le
nuove forme familiari, a causa delle tendenze pregiudizievoli che, abbiamo visto,
gravitano attorno al “diverso” e quindi all’omosessualità.
Dalla realtà quotidiana ci siamo poi spostati a quella mediatica e cinematografica.
Dopo una disanima storica delle rappresentazioni delle persone omosessuali e, laddove
possibile, delle relazioni omosessuali,che si sono via via susseguite sul grande schermo,
abbiamo affrontato queste tematiche in una ricerca esplorativa per verificare come il
cinema, al pari degli altri mezzi di socializzazione, interpreti queste realtà, veicoli
messaggi, fornisca nuove informazioni, riproducendo degli schemi, dei concetti, già
presenti nel contesto culturale di riferimento, andando quindi ad accentuare immagini
stereotipate o pregiudizievoli dell’omosessualità e influenzando gli stessi atteggiamenti
esistenti nei confronti dell’oggetto rappresentato.
In questo senso esso si configura come uno dei più importanti mezzi sui quali viaggiano
le rappresentazioni sociali del mondo costruite e ricostruite dalle persone nel corso delle
interazioni sociali (Moscovici, 1989).
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Capitolo Primo
L’omosessualità nella storia
1.1 Le civiltà Mesopotamiche
La nostra ricerca di testimonianze storiche sull’omosessualità può iniziare partendo
dalla regione in cui storicamente la cultura europea ha collocato gli inizi della civiltà: la
Mesopotamia.
Pare, infatti, che presso i Persiani fossero diffuse pratiche omosessuali, anche se non
accettate dalla loro religione, lo Zoroastrismo, o Mazdeismo, che le condannava
formalmente.
Il Mazdeismo, considerato il primo vero monoteismo nella storia delle religioni, è
basato sul raggiungimento del Bene supremo, che si concretizza nella fedeltà alla
purezza dell’ordine naturale delle cose, contrapposto al Male, legato al concetto di
contaminazione ed impurità.(Padovano, 2002)
Il Libro Sacro dello Zoroastrismo, l’Avesta, non contiene riferimenti all’omosessualità,
ma il Vendidàd, il libro delle leggi, scritto, più o meno nel 650 d.C., la condanna
nettamente, come si evince da quanto riportato in questo passo:
“L’uomo che giace con un altro uomo nel modo con cui un uomo giace con un'altra
donna o nel modo in cui una donna giace con un uomo, è un Demone” (Avesta,
Vendidad 8- 32).
Ancora, in un antico commentario sul Vendidàd si dice:
“Quattro sono gli uomini che possono essere messi a morte da chiunque: il bruciatore di
cadaveri, il predone, il sodomita e il criminale colto sul fatto” (Padovano, 2002).
Da qui le riflessioni che si potrebbero fare sono essenzialmente due. In primo luogo,
considerato il dualismo della concezione mazdeista della natura e l’importanza conferita
al concetto di “puro”, che era proprio solo del soggetto la cui essenza non era mescolata
a nessun altro elemento, verrebbe spontaneo domandarsi se la condanna sia da riferirsi
al rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso o piuttosto all’infrazione del
comportamento di genere. Cioè, se nel rapporto sessuale tra due uomini, entrambi si
fossero comportati “da uomini” la loro relazione sarebbe stata tollerata?
Seguendo questa linea interpretativa, infatti, si potrebbe pensare che, presso i Persiani,
sarebbe stata sanzionata non tanto l’unione tra due uomini, quanto la mescolanza in un
solo corpo di atteggiamenti attribuiti al maschile e al femminile (Ibidem).
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Secondariamente, è stato messo in evidenza quanto lo Zoroastrismo, come l’Ebraismo,
fosse una religione che non accettava facilmente conversioni, perché propria di una
collettività a cui si apparteneva par nascita e questa sarebbe una probabile ragione
storica in più per spiegare la condanna dell’omosessualità; infatti una religione poco
diffusa poteva vedere nelle pratiche omosessuali delle minacce alla propria sussistenza
(Ibidem).
Il codice di Hammurabi non fa menzione di comportamenti omosessuali, mentre nel
corpus delle leggi assiro-babilonesi un passo ne parla specificatamente: la pena per un
maschio che giaceva con un altro maschio era quella di essere fatto eunuco, ma solo nel
caso in cui venisse presentata una prova di ciò. Interessante, a questo proposito, non è
solo l’assonanza con la legge islamica, in cui ritroviamo l’elemento della prova, ma
anche il fatto che, anche in questo caso, la sanzione sarebbe stata rivolta solo a chi
avesse assunto un ruolo passivo nel rapporto e non ad entrambi i partner (Ibidem).
Alla tradizione mesopotamica appartiene, inoltre, una delle più antiche epopee della
storia, il mito di Gilgamesh, re di Uruk, la cui comparsa nei testi risale addirittura al
2500 a.C. In questa storia antichissima sono affrontati, forse per la prima volta, miti e
archetipi destinati a ritornare nella tradizione leggendaria ed epica dei popoli e delle
culture successive, quali il diluvio universale, il paradiso terrestre e, tra gli altri,
l’affezione “omosentimentale” fra due eroi, rintracciabile, per esempio, nella successiva
tradizione mitologica greca, nelle vicende di Achille e Patroclo (Ibidem).
L’amicizia eroica di cui parliamo è quella tra Gilgamesh ed Enkidu, l’uomo selvaggio
creato dal dio An per contrastare l’incontenibile potenza del re, ma che ne diverrà, per
contro, compagno inseparabile. Proprio sul rapporto che si instaura tra i due eroi
esistono delle interpretazioni che lo indirizzano verso qualcosa di diverso da una grande
amicizia, come si evince dal sogno premonitore che Gilgamesh fa, allorché Enkidu
volge alle porte di Uruk per incontrarlo e che il sovrano racconta alla madre in questi
termini:
“Io lo abbracciai forte, lo amai come una moglie” (L’epopea di Gilgamesh, tavola 8, 42-
45 e segg.).
E anche quando l’amico muore, il pianto di Gilgamesh suggerisce parallelismi con il
tradizionale rapporto uomo donna:
“Io piangerò per Enkidu, l’amico mio, emetterò lamenti come una lamentatrice”
(Ibidem).
O, ancora, quando il re è chino sul corpo di Enkidu:
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“Gli accosta la mano al cuore, ma questo non batte più. Allora ricopre la faccia del suo
amico come quella di una sposa” (Ibidem).
Se da un lato può essere fuorviante e infondato leggere, in questi versi, l’esistenza di un
indubbio rapporto di coppia tra i due eroi, dall’altra, l’intensità e il carattere con cui
viene descritta la loro relazione, più volte paragonata a quella matrimoniale,
permetterebbero secondo diversi studiosi di definirla amorosa; contrariamente
all’interpretazione di chi respinge del tutto questa possibilità, volendo annoverare
automaticamente il sentimento che lega due maschi adulti nella classica categoria
dell’amicizia eroica (Daniel, Baudry; 1974).
Per quanto riguarda, invece, l’amore tra donne, sembra che questo non abbia mai
conquistato l’immortalità del mito e della poesia epica. L’unica menzione di cui si è
avuta traccia è quella contenuta in una frase impressa su una tavoletta di presagi assira,
datata 600 a.C., che così recita:
“Se un cane monta un altro cane le donne si accoppieranno tra loro” (Danna, 2003 p.
19).
Questa espressione, in realtà, non sarebbe altro che un’interpretazione dei
comportamenti anomali dei cani, presente nella grande serie delle “Summe Izbu”,
prescrizioni da cui si traevano vaticini per ogni anormalità dei fenomeni naturali e delle
nascite. Che posto avessero i rapporti sessuali tra donne nella scala di desiderabilità
sociale o di frequenza degli eventi per il popolo assiro rimane inspiegabile, così come il
loro significato (Ibidem).
1.2 L’antico Egitto
Per quanto riguarda l’antico Egitto, ancora poco è stato indagato sul tema della
sessualità in generale e pochissimo sull’omosessualità, nonostante la grande quantità di
fonti eterogenee.
Possiamo, perciò, ricondurre le nostre riflessioni sulla considerazione che questo popolo
poteva avere nei confronti dell’omosessualità alle testimonianze scritte ed iconografiche
emerse, in particolare, dalla studio dei papiri e delle tombe rinvenute nel corso dei
secoli. In riferimento a queste fonti, diversi studiosi affermano che l’omosessualità
nell’antico Egitto era conosciuta, ma non annoverata tra i comportamenti severamente
condannati (Padovano, 2002).
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Come già visto per le civiltà Mesopotamiche, anche presso quella Egizia, la
procreazione, la fertilità erano questioni di enorme importanza all’interno della società,
così come il concetto di “puro” che si estendeva a tutto l’ambito dell’esistenza.
L’omosessualità appariva sanzionata come peccato veniale, solamente in quanto attività
non conforme al modello di vita basato sulla procreazione, fonte di disapprovazione,
non più della vita trascorsa al di fuori del vincolo del matrimonio (Daniel,
Baudry;1974).
Un esempio di questa concezione si ritrova sia nel Libro dei Morti che nel Libro dei
Santi, sorta di viatici che dovevano accompagnare il giusto trapasso delle anime verso
l’aldilà, in cui, talvolta, viene citato il fatto di non aver avuto scambi sessuali con
persone del proprio sesso come vanto per l’anima che avrebbe così goduto di un motivo
in più per ricevere la salvezza. Si trattava comunque di casi rari, infatti è documentata
l’esistenza di uomini e donne non sposati che vivevano insieme, ma è certo che
andavano incontro alla disapprovazione sociale (Padovano, 2002).
Discussa è, poi, l’interpretazione di un episodio presente nel papiro di Chester Beatty
(circa 1160 –1154 a.C.) che raccoglie il racconto mitologico delle disputa tra il dio Seth
e suo nipote, il dio Horus. Episodio in cui si assisterebbe ad un caso di “frottage”
perpetuato dal dio nei confronti del nipote, con orrore delle madre Iside. Per vendicarsi
dello stupro subito Horus stuprerà sua volte Seth (Reeder, 2005).
Questo racconto viene riferito da alcuni storici come un vero e proprio caso di rapporto
omosessuale: “Seth sottopone Horus all’umiliante rapporto omosessuale” (Bresciani,
2000 p.19); da altri, invece, come un episodio che niente avrebbe a che fare con tutto
ciò, trattandosi di uno stupro, non dovrebbe essere assolutamente citato tra le
testimonianze di relazioni omosessuali dell’antichità, così come nel caso di rapporti tra
adulti consenzienti (Padovano, 2002).
Lo stupro omosessuale in questo contesto sembrerebbe più uno strumento di
umiliazione e affermazione di superiorità. Si potrebbe pensare che l’atto sessuale,
vissuto in questa veste, fosse più accettabile per l’immaginario collettivo, poiché
giustificato dal carattere bellicoso di uno scontro in cui nessuno dei due partecipanti è
disposto a subire il rapporto e nessuno dei due, quindi, abdica volontariamente il suo
ruolo maschile, se non come prezzo della sconfitta nel confronto con l’altro (Reeder,
2005).
Alcuni frammenti risalenti al Medio Regno ci riportano, invece, alla “storia d’amore”
tra il faraone Pepi II e il suo generale Sisene, il cui racconto, affidato alle parole di un
certo Teti, che spia i loro incontri, avrebbe più che altro l’aria di essere una satira dallo
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stile Boccaccesco che dà colore alle gesta di un faraone screditato. Risulta comunque
interessante il fatto che l’omosessualità fosse ritenuta un tratto sufficientemente umano
e quotidiano, da essere scelto come elemento “comico”, destinato a contaminare la
figura divina di un faraone, più che l’oggetto di una seria invettiva (Padovano, 2002).
Negli ultimi decenni sono soprattutto le fonti iconografiche ad essersi rivelate di
notevole importanza e aver attirato l’attenzione di vari storici; si tratta, in particolare di
bassorilievi, dipinti, tombe, emerse dalle ricerche archeologiche.
Rappresentazioni esplicite di incontri sessuali pare fossero rare presso questo popolo,
esiste, però, fra queste, una scoperta di eccezionale importanza, la Tomba di
Nianchchnum e Chnumhotep, che rappresenterebbe forse l’unico documento, non solo
di una storia d’amore omosessuale nell’antico Egitto, ma di una relazione che poté
godere di una certa accettazione sociale e della sua celebrazione dopo la morte, al pari
di quella coniugale (Reeder, 2005).
Si tratta di una tomba rinvenuta in seguito ad una campagna di scavi condotta
dall’archeologo egiziano Ahmed Moussa nella necropoli di Sakkaara, tra il 1964 e il
1972. Nianchchnum e Chnumhotep, a cui la tomba è dedicata, costruita appositamente
perché potessero essere ospitati due uomini, vissero insieme durante la Quinta Dinastia
presso il palazzo del faraone Niuserre e insieme vennero sepolti (Padovano, 2002).
Nell’iscrizione tombale vengono definiti “caposquadra dei manicure del palazzo e
rappresentanti dell’autorità del re”, denominazione che si presume stesse ad indicare
una particolare posizione di vicinanza al potere, o comunque un titolo onorifico
(Ibidem).
A rendere di straordinaria importanza questo ritrovamento non è tanto il fatto che si
tratti di una tomba approntata per due uomini, quanto che esistano tutta una serie di
elementi che indicherebbero la presenza di un rapporto di forte vicinanza ed intimità tra
i due.
All’entrata della tomba i nomi Nianchchnum e Chnumhotep appaiono iscritti come
un'unica parola al di sopra della porta di ingresso: è stato messo in evidenza dagli
egittologi che la desinenza Chnum, oltre a riferirsi ad un dio significa anche “uniti
insieme”, ma soprattutto “soci”, “compagni”, “amici”e perfino “coabitanti”.
Da qui la spontanea deduzione sarebbe che questa vicinanza dei nomi possa
rappresentare un gioco di parole, col significato di “uniti nella vita e nella morte” e
ovviamente far riferimento all’unione di due uomini e al desiderio di rimanere insieme
nella vita terrena e in quella successiva, visto che si tratta di un’iscrizione tombale.
(Reeder, 2005).
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In effetti in diverse illustrazioni pittoriche, all’interno della tomba, si ritrovano
testimonianze di questa possibile unione: sul muro a sud dell’entrata appare la prima
illustrazione in cui i due uomini si tengono per mano. È nella cappella delle offerte,
però, che ritroviamo i ritratti più intimi. In ben tre diverse pitture i due vengono
rappresentati in un abbraccio reciproco, frontalmente, l’uno accanto all’altro; la mano
sinistra di Nianchchnum stringe l’avambraccio di Chnumhotep che posa la sua mano
destra sulla spalla destra di Nianchchnum, i volti, di profilo, si guardano, i nasi si
sfiorano. In un altro dipinto la posizione di entrambi è invertita, ma l’abbraccio si ripete
praticamente identico (Padovano, 2002).
Diversi archeologi hanno sottolineato l’importanza e la novità del documento,
sottolineando il fatto che è raro che siano state rinvenute delle raffigurazioni di abbracci
tra persone, ma mai era stato documentato lo sfioramento, il tocco dei nasi o comunque
una scena di quel tipo tra due uomini (Ibidem).
Tanto che, ancora oggi, la definizione del tipo di rapporto esistente tra i due
“manicuristi” rappresenta una questione problematica che divide gli studiosi.
Infatti, alcuni, forse imbarazzati dalle caratteristiche di queste rappresentazioni, hanno
proposto un’interpretazione secondo cui Ninchchnum e Chnumhotep sarebbero fratelli,
forse gemelli, amici intimi; altri ancora, invece, non avrebbero dubbi nel ritenere di
trovarsi di fronte ad una vera e propria coppia omosessuale (Reeder, 2005).
Partendo proprio da questo ritrovamento, l’egittologo Godiche (citato in Padovano,
2002) arriva ad ipotizzare che nell’antico Egitto le relazioni omosessuali tra adulti
consenzienti non dovevano essere considerate poi così negativamente, contrariamente a
quanto si era sempre pensato.
In realtà va specificato che questa testimonianza, se pur rilevante, non dimostra
comunque nulla di certo: sappiamo che l’omosessualità era conosciuta e vissuta,
nonostante l’esistenza di sanzioni che la vietavano formalmente (Padovano, 2002).
Si potrebbe perciò ipotizzare che la coppia Nianchchnum e Chnumhotep ricevette
comunque un consenso sociale tale da permettergli di essere sepolti insieme; senza però
dimenticare che si trattava di individui privilegiati per la loro vicinanza al faraone.
Secondo quest’ottica anche la cultura egizia rientrerebbe in quegli archetipi comuni
secondo i quali ciò che era interdetto alla norma sarebbe stato, invece, consentito a
persone che potevano porsi al di là da essa, perché supportate dalla vicinanza al potere e
al sacro (Ibidem).
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1.3 La condanna dell’ omosessualità nell’Ebraismo
Tra le religioni più antiche, l’Ebraismo è storicamente considerata quella che
maggiormente ha contribuito a far nascere e diffondere un’accanita lotta contro
l’omosessualità. Ancora oggi, la relazione tra omosessualità e Bibbia, tra omosessualità
e Cristianesimo rimane un nodo tematico molto discusso.
Partendo dai riferimenti storici e biblici in particolare, possiamo tentare di ricostruire le
motivazioni che hanno portato alle origini di una tale condanna; motivazioni che sono
rimandabili direttamente al Levitico, il testo più antico della Torah, la legge ebraica, la
cui compilazione risale all’epoca dell’esilio degli ebrei a Babilonia (VI sec. a.C.)
(Danna, 2003).
Infatti in diversi passi del Levitico ritroviamo delle prescrizioni che vietano
completamente i comportamenti omosessuali: “Se un uomo ha rapporti con un maschio
come si hanno con una donna entrambi i colpevoli saranno messi a morte” (Levitico,
22- 13).
Secondo gli studiosi delle Bibbia la durezza di questi comandamenti potrebbe aver
avuto origine dal contrasto creatosi tra i principi cardine della religione ebraica e le
circostanze storiche dell’epoca (Baird, 2003).
Il popolo ebreo era formato da una collettività a cui si apparteneva per nascita ed era,
quindi, fortemente animato da uno spirito di conservazione dell’identità del gruppo; lo
stesso ebraismo si poneva alla base di queste aspirazioni, attraverso il rilievo che
veniva attribuito, ancora una volta, ai concetti di “puro“ ed “impuro” (Padovano, 2002).
La Torah distingue in modo capillare ciò che è puro da ciò che non lo è, ciò che
appartiene all’ordine interno delle comunità, dal disordine esterno degli altri. La
salvezza stessa dell’individuo dipende dal perfetto adempimento alle prescrizioni dettate
dai testi sacri e il divieto di compiere atti di natura omosessuale rientra tra queste
prescrizioni (Ibidem).
Va sottolineato che i compilatori del Levitico si preoccuparono di imporle anche per la
necessità di contrastare il diffondersi dei costumi propri dei Cananei ed in particolare il
loro credo religioso, basato su pratiche erotiche, i cui simboli erano le sacerdotesse
(qedeshtu) e i sacerdoti (quedeshim), prostituti e prostitute sacre della dea Athirat e del
suo consorte (Daniel, Baudry; 1974).
Questa circostanza storica spiega il motivo della condanna: proibire agli ebrei costumi
così diffusi intorno a loro perché potessero conservare una propria “identità nazionale”;
preservandoli dalla tentazione dei prostituti sacri e delle prostitute sacre dei templi
pagani, il legislatore garantiva la purezza della loro fede in un unico Dio.
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Non si trattava di un pericolo immaginario, visto che, in tutta la storia di Israele, fino
all’esilio di Babilonia, ogni re aveva dovuto lottare contro l’invasione della
prostituzione sacra nei luoghi santi (Ibidem).
Infatti, nonostante l’omosessualità fosse stata messa fuori legge dai severi
comandamenti del Levitico, tendenze omofile continuarono a rimanere anche tra gli
Ebrei più devoti e rispettosi della legge. Inoltre, man mano che si attutiva il conflitto
con i Cananei, si poté assistere ad atteggiamenti più miti, per cui rapporti tra persone
dello stesso sesso furono tollerati e, in alcuni casi, persino approvati (Baird, 2003).
Sembra, comunque, che nella tarda antichità l’ostilità e la repressione fossero aumentate
nuovamente, come testimoniano gli scritti di Filone D’Alessandria, vissuto intorno al 50
d.C., il quale fu anche il primo a collegare in modo specifico l’omosessualità al passo
dell’Antico Testamento sul quale si fonda, tradizionalmente, l’affermazione della sua
condanna biblica e cioè l’episodio di Sodoma e Gomorra (Ibidem).
“Due stranieri bussano alla porta di Lot, nipote di Abramo, pio abitante della città di
Sodoma, che li accoglie dando loro ospitalità. Un gruppo di Sodomiti si raduna intorno
alla casa e violentemente reclama la yadha (Genesi 19, 1-25).
Questo termine, yadha, indicherebbe letteralmente una conoscenza completa, ma sul
significato specifico dell’espressione vi sono almeno due interpretazioni: potrebbe
significare l’esame delle credenziali o dell’identità degli stranieri, oppure, più
probabilmente, yadha sarebbe sinonimo di conoscenza carnale e interpretato in questo
modo sembrerebbe indicare un tentativo di stupro collettivo (Padovano, 2002).
Per proteggere i due stranieri, che intuisce essere messaggeri di Dio, Lot offrirà alla
folla inferocita le sue due figlie, le stesse con cui, successivamente, commetterà incesto;
Dio distruggerà Sodoma e salverà Lot (Ibidem).
A questo punto ci si chiede perché “sodomita” sia divenuto, nel tempo, sinonimo di
omosessuale, piuttosto che di stupratore. Dal profeta Ezechiele sapremo che Dio ha
distrutto Sodoma perché i suoi abitanti avevano peccato di arroganza vivendo negli
eccessi, dimenticandosi di aiutare i poveri e compiendo azioni detestabili.
Ma neanche da questo commento emergono elementi che ci aiutino a capire perché da
una storia di stupro e incesto nasca un monito contro i rapporti omosessuali, anziché
contro l’idea di paternità equiparabile al possesso psicofisico della prole, contro l’idea
di padre-padrone per cui donne e bambini sono solo mera estensione del patriarca
(Ibidem).
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1.4. L’omosessualità nell’antica Grecia, origini e caratteristiche tra storia e mito
Quando si parla di omosessualità nel mondo antico spontaneamente si è portati a
pensare alla cultura greca come alla “culla dell’omosessualità”.
In effetti dal VII al II secolo a.C. questo paese conobbe una fioritura eccezionale di
amori tra individui dello stesso sesso, testimoniati dalle opere artistiche, letterarie, dal
pensiero filosofico dell’epoca che letteralmente pullulano di riferimenti
all’omosessualità; tanto che è stato impossibile per le pudibonde civiltà che l’hanno
seguita cancellarne del tutto le tracce (Baird, 2003).
Va specificato che i Greci non sentivano la necessità di fare un distinguo tra amore omo
ed eterosessuale, la loro lingua non ospitava nemmeno termini che indicassero l’una o
l’altra forma, presupponendo, forse, come gia sottolineava Foucalt (1978), che ognuno
sia potenzialmente pronto a rispondere in modi e momenti diversi a stimoli sia di
carattere omo che eterosessuale ( Lingiardi, 1997).
In realtà, loro parlavano semplicemente di Amore (Eros), il dio armato di arco e frecce
alle cui ferite nessuno poteva sottrarsi, perché colpiva con assoluta indifferenza per il
sesso delle sue vittime (Cantarella, 2001).
Lo stesso Freud (citato in Lingiardi, 1997) ha evidenziato che la differenza più incisiva
tra la vita amorosa del mondo antico e la nostra risiede nel fatto che l’antichità
sottolineava la pulsione, noi invece sottolineiamo il suo oggetto.Quindi, presso questo
popolo, non era l’anatomia dell’oggetto a dar senso all’amore, bensì le sue qualità di
“bontà e bellezza”, o il momento della vita che si stava attraversando.
Si trattava, quindi, di una semplice questione di gusti, non inquadrabile in una ”diversa
natura”, quanto in una forma di desiderio a cui veniva attribuito un senso collettivo, un
valore sociale. (Lingiardi, 1997).
Per quanto riguarda le origini del fenomeno va specificato che i Greci stessi erano
coscienti del suo dilagare e ne ricercavano le cause attribuendone l’invenzione a varie
divinità, eroi mitologici, o, i più eruditi, come i filosofi, rintracciando le cause storiche
che potevano averla determinata.
Nel Simposio Platone affida la spiegazione dell’origine dell’amore omosessuale alle
parole del commediografo Aristofane. Secondo il mito degli Uomini Rotondi,
originariamente l’umanità sarebbe stata composta da tre generi di individui: maschile,
femminile, e androgino. Si trattava di creature completamente diverse, rotonde, con due
braccia, due gambe, due organi genitali, bifronti, nella maggior parte metà uomini e
metà donne, in piccolo numero uomini-uomini e donne-donne. Divisi per volontà
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divina, avrebbero trascorso la vita a cercare di ricongiungersi alla propria giusta metà
(Baird, 2003).
Questo racconto, da un lato, esprime sicuramente la misoginia insita nel pensiero del
filosofo: Platone, infatti, afferma che le più infime tra le creature sarebbero state le
donne, che sarebbero andate alla ricerca di altre donne, e i più elevati spiritualmente gli
uomini, che avrebbero ricercato la completezza originaria unendosi ad altri uomini.
Questa sarebbe stata la forma d’amore superiore, perché ispirata direttamente da
Afrodite Urania e perché, pur non godendo del potere di generare dei bambini, sarebbe
artefice di bellissime idee, arte e azioni dal valore eterno (Cantarella, 2001).
Dall’altro, si tratta di una concezione straordinariamente moderna perché introduce
un’idea di soggettività nella scelta sentimentale; inoltre, è chiaro che secondo
quest’ottica l’omosessualità non si riferirebbe solo all’attività sessuale, ma investirebbe
l’intera persona, assumendo un valore identitario (Padovano, 2002).
Riferendoci, invece, alle origini storiche del fenomeno, almeno per quanto riguarda
l’omosessualità maschile, la pederastia, mentre nei primi decenni del Novecento gli
storici presupponevano che non si trattasse di un costume proprio di questa regione,
ma qui importato dai Dori, più tardi, Morrou (citato in Cantarella, 2001), ipotizzò che
fosse, invece, una tradizione propriamente greca, diffusa ancora prima della calata dei
Dori e risalente direttamente al medioevo ellenico, periodo in cui sarebbe stata diffusa
come omosessualità militare, conseguenza del cameratismo dei guerrieri, tipico di ogni
società in cui l’esclusione materiale delle donne porta con sé un’offensiva dell’amore
maschile (Cantarella, 2001).
Al giorno d’oggi, le interpretazioni sono cambiate ancora e nettamente; infatti le origini
dell’omosessualità maschile in Grecia sono ricercate in un passato ancora più remoto, in
particolare nel passato tribale della società greca, in cui l’organizzazione delle comunità
(non ancora politica) era basata sulla divisione in classi d’età. Nelle società così
organizzate, infatti, il passaggio di un giovane da una classe d’età all’altra era
accompagnato da una serie di riti di passaggio, caratterizzati da un periodo di tempo
trascorso lontano dalla collettività, in stato di segregazione, al termine del quale egli
sarebbe rinato come membro della classe di età superiore (Ibidem).
L’esistenza di questi riti nella Grecia precittadina è stata messa in evidenza da diversi
studiosi e l’amore omosessuale tra un uomo e un ragazzo, in questa, come presso altre
civiltà, affonda le sue radici proprio in questi riti. Infatti i giovani greci apprendevano le
virtù che avrebbero fatto di loro degli adulti vivendo in compagnia di un uomo, al
tempo stesso educatore ed amante (Daniel, Baudry; 1974).
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Le prove di tutto ciò si ritrovano, innanzitutto, in numerosi miti, nonché nelle diverse
vicende epiche dei poemi Omerici: molti dei tradizionali miti greci, in modo più o meno
esplicito, adombrano amori omosessuali che, in questo contesto, svolgono sempre la
funzione essenziale di strumento pedagogico, capace di trasformare il ragazzo in un
uomo(Ibidem).
Tra questi possiamo ricordare forse uno dei più celebri, quello che racconta l’amore di
Zeus, re degli dei, per il giovane Ganimede.
Ganimede è l’unico amore maschile di Zeus. Appena lo vede, il dio del fulmine se ne
innamora e, prese le sembianze dell’aquila, cala dal cielo per rapirlo. Accolto tra gli dei
dell’Olimpo il giovane ottiene il posto di coppiere; ma Zeus vuole fare al suo amato un
dono ancora più grande e per risparmiargli le tristezze dell’invecchiamento e della
morte lo trasforma nella costellazione dell’Acquario. Eternamente sospeso tra le stelle,
Ganimede diventa così il simbolo celeste dell’amore omosessuale, ritratto dai pittori e
cantato dai poeti dai tempi più antichi fino ai secoli più recenti (Lingiardi, 1997).
Ancora, sembra interessante citare il legame, molto particolare, descritto da Omero, tra
Achille e Patroclo, anche perché diversi studiosi ne hanno ormai rintracciato le analogie
con la coppia cantata nel poema babilonese, Gilgamesh ed Enkidu.
Achille, come Gilgamesh, ha un rapporto forte con un compagno di armi di rango
inferiore il quale morirà per volontà divina. Gilgamesh piange Enkidu, l’amico amato
sopra ogni cosa, Achille si dispera per la morte del suo caro compagno Patroclo;
disperato lo abbraccia affermando di avere un solo scopo nella vita, dopo aver vendicato
l’amico, togliersi la vita e giacere nella sua stessa fossa, unito a lui per sempre, nella
morte, come nella vita, in un atteggiamento assolutamente anomalo nel quadro delle
manifestazioni omeriche del lutto (Padovano, 2002).
Non è difficile, quindi, leggere dietro le parole di Omero la storia di un amore e non
una semplice amicizia tra compagni d’armi.
Le similitudini che si ritrovano con l’epopea di Gilgamesh sono poi numerose e date
probabilmente da una contaminazione letteraria presente in tutta l’area del Mediterraneo
orientale. Ma certamente un grosso ruolo in questo è stato giocato dalle somiglianze tra
i contesti sociali in cui i due poemi si sono formati: una società fondata sulla classe
guerriera in cui si sviluppa un omosessualità tra maschi, volta alla trasmissione del
sapere all’interno del gruppo, come ritroviamo anche in civiltà lontane, che
manifestano, però, delle affinità con queste; ci riferiamo ad esempio alle relazioni tra i
guerrieri Vichinghi o a quelle del Giappone medioevale nelle unioni tra monaci, attori e
samurai (Ibidem).
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1.4.1 La pederastia
Cronologicamente il fenomeno della pederastia nell’antica Grecia è circoscritto tra il VI
e il IV secolo a.C.
Si tratta del periodo in cui le donne cominciano ad essere escluse dalla vita cittadina e
pubblica. Considerate intellettualmente ed emotivamente inferiori, destinate unicamente
alla vita matrimoniale imposta secondo scelte del capo famiglia, vengono relegate nei
ginecei divenendo, così, sempre meno accessibili e vicine alla vita maschile. In questo
contesto nascono nuovi spazi destinati solo agli uomini, ai rapporti sociali, alla politica
e alla loro formazione, culturale e fisica (Benvegna, 1979).
In particolare nella polis i giovani fino ai diciotto anni attendevano alla propria
formazione secondo il sistema della paideia greca, basata, da un lato, sull’istruzione
teorica nelle varie discipline, dall’altra, sull’esercizio fisico, la cura del proprio corpo,
che avveniva presso i ginnasi, dove gli uomini si allenavano nudi (Ibidem).
Era in questi luoghi, fortemente caricati di erotismo, che si instauravano relazioni
pederastiche tra un adulto e un ragazzo, con valenza sia pedagogica che erotica.
L’adulto, denominato erastès (colui che ama), avvicinava il giovane, l‘eròmenos (colui
che è amato) e cercava di ingraziarsi la sua simpatia attraverso delle vere e proprie
regole di corteggiamento, come descrive Platone nel suo Simposio: l’erastès si
proponeva al giovane offrendogli vari tipi di regali, come ad esempio, la corona di fiori,
simbolo di virtù, il gallo simbolo di potere e virilità o un vaso con il nome del ragazzo
seguito dalla parola kalòs, come segno di ammirazione ( Daniel, Baudry; 1974).
L’eròmenos non doveva esprimersi immediatamente, era lecito cedere solo dopo un
lungo corteggiamento e solo dopo essersi accertato che le intenzioni dell’uomo non
fossero unicamente di natura sessuale. Infatti era fondamentale che l’interesse verso
l’erastès si dimostrasse stabile e mosso da autentico amore. Di fatto la scelta era poi
reciproca (Cantarella, 2001).
Per tutta la durata della relazione l’erastès diveniva per l’eròmenos un istruttore, una
guida, insegnando al giovane regole di educazione e comportamento, norme e valori
sociali, elementi di legislazione e politica; inoltre lo introduceva di fatto nella vita
cittadina, nel mondo dell’arte e del teatro, tutte cose che non venivano insegnate nelle
scuole (Ibidem).
Principalmente la relazione pederastica era basata su alti principi, ma la componente
sessuale era comunque compresa, nel rispetto di determinate convenzioni che volevano
esplicitamente che l’uomo assumesse nel rapporto solo il ruolo attivo, mentre il giovane
poteva avere un ruolo passivo, ma appena cresciuto avrebbe dovuto, a sua volta,
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assumere quello attivo. Infatti la relazione pederastica secondo la legge poteva essere
portata avanti non prima dei dodici anni e non oltre i diciotto.
L’apice dell’amore omosessuale sembra incentrarsi ad Atene alla fine della tirannide di
Pisistrato. Ma questa non fu l’unica città in cui si diffuse tale cultura.
Anche a Sparta ogni ragazzo riceveva un’educazione che includeva le pratiche
omosessuali. A Tebe nel IV secolo venne creato un battaglione di amanti omosessuali,
la “Sacra Banda”; mentre a Creta ritroviamo una serie di prove che riferiscono di rituali
in cui i giovani venivano iniziati alla vita adulta attraverso il rapimento da parte di
uomini adulti (Daniel, Baudry; 1974).
1.4.2 L’omosessualità femminile e il circolo di Saffo
L’amore fra le donne nell’antica Grecia rappresenta un fenomeno di origine più arcaica
rispetto all’istituzione delle pederastia. Possiamo collocarla nell’età antecedente la
formazione della polis, intesa come società pienamente politica. Un periodo in cui alla
donne era ancora riservato qualche spazio per vivere come individui socializzati ed
istruiti; non a caso, ad alcune di loro, come alla poetessa Saffo, fu possibile scrivere di
sé e dei propri sentimenti.
D’altra parte, però, con la svolta del V secolo, il ruolo da esse assunto fu talmente
subordinato che tutto ciò che sappiamo in merito all’omosessualità femminile, lo
dobbiamo alle testimonianze lasciate da Saffo e da pochi altri circoli femminili
(Cantarella, 2001).
Costei nacque a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove trascorse gran parte della sua vita a
capo di una di quelle associazioni di giovani donne chiamate Thiasoi.
La presenza di comunità di questo genere è documentata oltre che a Lesbo, dove erano
presenti anche quelle delle sue rivali, Gorgo e Andromeda, anche in altre zone della
Grecia, e, in particolare, a Sparta (Danna, 2003).
I Thiasoi erano qualcosa di diverso e più complesso di semplici collegi femminili per
ragazze di buona famiglia: si trattava di comunità che celebravano cerimonie e riti di
divinità proprie, all’interno delle quali veniva insegnata alle ragazze la danza, la musica
e tutto ciò che poteva renderle donne desiderabili (Ibidem).
Ma, oltre a ciò, in questi circoli le fanciulle di Lesbo apprendevano l’amore per altre
donne che amavano con eccezionale sensibilità e trasporto, come mostrano le opere
poetiche che Saffo, nel corso degli anni, dedicò alle sue allieve predilette o in generale
alle unioni che potevano formarsi tra le fanciulle (Lupo, 1998).