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1.1 Introduzione
L’obbiettivo del lavoro è quello di analizzare e comprendere
come la musica Altra, ovvero la musica extraoccidentale,
appartenente a culture lontane da quella europea, viene recepita
dalla tradizione musicale colta. Partendo dalla scoperta delle
Americhe, si può vedere come le comunità d’oltreoceano sono
percepite dall’uomo colonizzatore dell’epoca, convinto della
propria superiorità culturale. Inizialmente la musica extraeuropea
è considerata unicamente come un qualcosa di rituale, troppo
banale e caotica per poter essere valutata come arte. Nel corso dei
secoli maturerà, invece, un processo di infiltrazione della musica
Altra nella musica occidentale. L’utopico, idilliaco mondo del
diverso, del selvaggio, del barbaro in simbiosi con la natura cessa
di essere unicamente una dimensione esistente nei romanzi e
nelle rappresentazioni teatrali. La curiosità verso l’Altro, lontano
dagli schemi della società borghese europea, dà vita ed
incrementa gli studi sulle nuove civiltà. Nel XIX secolo,
principalmente negli Stati Uniti, nasce l’antropologia culturale e
a seguire ha origine l’etnomusicologia che, a differenza della
musicologia tradizionale, rompe con le indiscusse nozioni sulla
storia della musica. Ora anche la musica extraeuropea ha una sua
dignità. Prima derisa, col passare del tempo è fonte d’ispirazione
per compositori in vari ambiti.
Si andrà ad analizzare, dunque, successivamente, l’apertura
della musica di tradizione colta verso la musica popolare. Nei
2
primi del Novecento analizzeremo il tentativo riuscito e
sorprendente di Igor Stravinskij, con la sua Sagra della
Primavera, di riportare sulla scena di Parigi, attraverso una
nuova dimensione del balletto russo, l’espressione di una Russia
musicale arcaica. Arcaismo e modernità si fondono così
nell’opera del compositore.
Nel periodo storico della sua crisi, l’Europa prende coscienza
dei suoi limiti culturali. Si analizzerà l’ambito culturale francese
l’influenza del compositore Claude Debussy; il contributo dato
allo studio della musica di tradizione orale da parte di Bela
Bartok, compositore ed etnomusicologo ungherese, passato alla
storia per le sue ricerche sul campo
1
e per l’influenza che il
folklore musicale ha esercitato sulla sua attività compositiva,
come evidenzia Guido Salvetti.
A confermare, lo strappo con i dogmi della tradizione musicale
occidentale troviamo inoltre John Cage: la sua opera è
fondamentale per lo sviluppo della musica contemporanea, in
un’ottica di collegamento della tradizione compositiva colta con
le culture Altre.
L’apertura verso la componente sconosciuta in musica è palese
con la nascita della ‘musique concrete’, a seguito delle
sperimentazioni del compositore francese Pierre Schaeffer a
partire dal 1948
2
.
Il modo di intendere la musica si è fatto più complesso, ha
acquisito nuove sfaccettature. Dapprima, infatti, la musica di
tradizione orale era considerata una sorta di appendice di quella
1
SALVETTI 1996, pp. 21-24
2
SCHAEFFER 1973, p. 10
3
scritta. Oggi numerosi studi riportano alla luce caratteristiche
proprie della musica sarda, ad esempio, della quale si
analizzeranno alcuni aspetti.
Nella scena contemporanea la ricerca dell’alterità musicale si
è fatta ancora più significativa. Il linguaggio è ancora più
sensibile allo stato attuale della società. La musica assorbe il
malessere e lo esprime. Esempio di sperimentazione strumentale
di esperienza brutale sul palco sono gli Einsturzende Neubauten:
il gruppo industrial tedesco piega ai propri voleri la musica colta,
elabora e porta a trasmutazione la musica vocale di Karlheinz
Stockhausen, di Luigi Nono, di Gyorgy Ligeti. I Neubauten
realizzano suoni della civiltà industrializzata a manifesto della
decadenza di questa e dell’alienazione che la stessa produce. I
suoni sono portati all’estremo di dissonanza.
Questo viaggio tra i vari ambiti musicali mette in luce come la
cultura musicale dominante occidentale, nel corso dei secoli,
abbia aperto i suoi orizzonti conoscitivi alla musica dell’Altro sia
per arricchire il proprio linguaggio, sia per superare la troppa
diversità con lo Sconosciuto che sempre di più avrebbe fatto
parte della stessa società.
L’etnomusicologo Diego Carpitella ritiene che le ragioni
dell'impiego di elementi appartenenti al mito del 'primitivo' nella
musica contemporanea sono da rintracciare in un preciso
momento storico e bisogna collocarle in riferimento
all'esperienza culturale della società occidentale
3
. Il concetto di
primitivismo lo si ritrova in pittura ad indicare la violenza
3
CARPITELLA 1992
4
espressiva del colore, le cosiddette fauves, 'bestie selvagge' della
tavolozza. E fauve è stata definita anche La sacre di Stravinskij;
ma può comprendere anche l'utilizzo del materiale sonoro
appartenente a popoli 'arcaici' come, ad esempio, la
rielaborazione dei materiale folkloristici.
Nella ripresa di materiale di popoli 'primitivi' però, bisogna
distinguere tra il concetto di 'esotismo' e 'primitivismo': il primo
comprende una sorta di decorazione di musiche occidentali con
elementi esotici, come ritmi e melodie
4
. Difatti nel corso
dell'Ottocento, in Europa, c'è una spiccata tendenza volta a
ricreare delle atmosfere esotiche, sia nella musica che nella
danza. L’esotismo vuole plasmare la cultura dell’Altro affinché
divenga non troppo difforme da quella di riferimento; dunque
viene resa piacevole e attraente smussandone le caratteristiche
eccessivamente connotative
5
. L’Altro è ‘domato’, quindi tollerato
e, allo stesso tempo, suscita curiosità poiché rimane celato nel
mistero, spesso creato dalla non conoscenza approfondita. La
dimensione primitivista si sviluppa in modo più complesso. Il
musicista, oltre ad essere incuriosito ed ispirato dalla natura
sonora primitiva nel suo contesto culturale che ne è anch'esso
condizionato, adotta strumenti ben lontani dalla tradizione
europea, strumenti appartenenti a popoli 'arcaici'
6
. Il guardare
oltre le proprie barriere culturali, il rivolgersi e avvicinarsi ad un
linguaggio musicale diverso è fomentato dal desiderio dell'uomo
4
Ibidem
5
GIURIATI 2003, pp. 333-343
6
CARPITELLA 1992
5
occidentale di analizzare la propria condizione esistenziale,
mettere in discussione i valori da sempre conosciuti.
Il primitivo è esteriorità e decorazione, ricreazione di
atmosfere mitiche ed esotiche con Debussy; successivamente
acquista sostanza, si arricchisce di una dimensione spirituale e
religiosa con Stravinskij: nella Sagra della primavera la magia
del rito si traduce nel linguaggio musicale caratterizzato dalla
prorompenza ritmica; e poi diviene un sentimento di disordine
interiore, nel secondo dopoguerra, una forma d'arte per
combattere un «antico potere organizzato»
7
ai tempi della crisi
della ragione, che diviene presto anche crisi della morale.
L’uomo occidentale ricerca nell’universo delle società
primitive uno stato di benessere primordiale, di innocenza, di
estraneità dalla corruzione e lo sfoggia come baluardo per la
rivendicazione della libertà perduta, in seguito a guerre e crisi
della società europea. Uno stato di beatitudine delle civiltà
d’oltreoceano che è solo un’illusione, però, poiché lo studio dei
cosiddetti ‘selvaggi’ dimostra che la realtà è assai diversa, e cioè
che alle proprie spalle questi popoli hanno anni di sfruttamenti e
sofferenze
8
. L’idealizzazione dell’uomo nella sua dimensione
naturalistica è stato, per lungo tempo, un errore, dal punto di
vista etnologico, ma ciò rappresenta la fonte più fertile di
ispirazione per l’avvicinamento verso la cultura Altra.
7
MARC 1992
8
LEVI-STRAUSS 2004
6
1.2 Il mito del ‘bon sauvage’ e la musica non compresa
Nel XV secolo la scoperta delle Americhe dà vita ad un incontro
fondamentale per la storia dell’uomo europeo: l’incontro con un
nuovo mondo. L’universo civilizzato ha di fronte a sé un
universo in cui domina la natura, dove l’uomo vive con essa in
armonia. Da questa visione nasce il ‘mito del buon selvaggio’.
Nel 1503 Amerigo Vespucci pubblica, nell’opuscolo Mundus
Novus, una descrizione dei costumi degli indiani che diverranno
emblema del ‘buon selvaggio’. Echi degli archetipi dell’Eden
primitivo, dell’età dell’oro vengono a infondersi
nell’immaginario dell’uomo occidentale che si trova a
fronteggiare il dilemma natura-cultura. Il ‘selvaggio’, difatti, è
colui che è privo degli attributi dell’umanità civile.
Nel corso del Settecento i viaggi degli esploratori nel nuovo
mondo si intensificano e, inizialmente, lo studio dell’Altro
sconosciuto si rivela un’arrogante affermazione di primato della
cultura europea. Il termine ‘barbari’, infatti, è frequentemente
usato nelle descrizioni dei popoli delle Americhe presenti nelle
relazioni di viaggio e nei dibattiti socioculturali dell’epoca. La
politica espansionistica vuole giustificare, sul piano etico,
l’espansionismo in nome di una missione civilizzatrice dei
colonizzatori, certi di essere i detentori di un sapere legittimo,
giusto, universale. L’egocentrismo domina: c’è
un’identificazione dei valori dell’Occidente con i valori in
7
generale. Assimilazionismo o rapporto superiore-inferiore:
questo è ciò che viene proposto al nuovo mondo. Gli Altri non
sono più solo incontrati ma fagocitati
9
.
Louis Armand Lahontan, un avventuriero fuggito dai i
creditori dalla Francia, che esplorò le regioni del Minnesota,
tornato in Europa nel 1703 pubblicò due volumi di memorie
intitolate Dialoghi curiosi tra l’autore e un selvaggio di buon
senso che ha viaggiato. Egli non ha dubbi sulla superiorità
dell’uomo civilizzato e del fatto che i ‘barbari’ vadano istruiti
ma, in qualche modo, il ‘mito del buon selvaggio’ illuminerebbe
sul malessere dell’uomo che vive nella società moderna. L’uomo
non civilizzato, difatti, è libero, non conosce padroni, dipendenze
e dunque aspira ad un’armonia interiore sconosciuta all’uomo
legato ai dogmi culturali.
Denis Diderot, filosofo francese del Settecento, sostiene la
‘purezza’ dell’uomo che vive in sintonia con la natura poiché egli
non conosce l’ipocrisia, la degenerazione morale della società.
Nel passaggio dal Cinquecento al Seicento, dunque, si abbandona
progressivamente il concetto di ‘barbarie’, legato alla bestialità
dell’uomo non civilizzato. Più che deviazione dal normale ora si
parla di condizione sociale. I dibattiti socio-culturali proseguono
e si nota come ci sia del paradossale nell’Illuminismo, ovvero il
contrasto tra la rivendicazione dei diritti umani e l’apporto che
esso diede per la nascita di una sorta di razzismo scientifico. Si
studia, infatti, il ‘buon selvaggio’ senza averlo mai incontrato. Se
ne parla come una sorta di mito già scomparso. Scarseggiano
9
CIPRIANI 2007
8
descrizioni dei popoli di cui si parla ma si elaborano comunque
concetti, definizioni aberranti come, ad esempio, per quanto
riguarda il comportamento istintivo dei ‘selvaggi’, considerato
quasi insensato. Si coglie e sottolinea l’elemento dell’estraneità
rispetto ai valori europei, unico metro di giudizio esistente per gli
studiosi.
L’Altro, dunque, rimane sconosciuto nel corso degli anni e dei
secoli. L’eurocentrismo, volto a giustificare comportamenti
imperialisti e soggiogatori, non si occupa per molto tempo di
approfondire l’altra cultura che rimane conforme a modelli
stereotipati. L’Occidente europeo proietta verso il non-Occidente
sogni, immagini, utopie di purezza, pace, desideri di ricchezze
abbondanti ed infinite offerte dalla natura, ambizioni di varcare i
propri confini ed esportare il proprio sapere. La cultura
dell’Altro, valori, usi e costumi sono lungamente ignorati,
sottovalutati. La musica, come altri aspetti della cultura, non è
stata esente da questo trattamento. Nel 1648 abbiamo una
testimonianza del viaggiatore francese Balthasar de Monconys
10
il quale aveva osservato un’esibizione di dervisci del Cairo:
costui riporta uno spettacolo raccapricciante di bestie che gridano
e danzano per ore come streghe, con voci simili all’ululare dei
lupi. Il compositore francese Hector Louis Berlioz
11
, nel XIX
secolo, descriverà la musica dell’Altro come un qualcosa di
ancora bambinesco, incompiuto, poiché «sono ancora a tale
riguardo sprofondati nelle tenebre più profonde della barbarie e
di un’ignoranza puerile in cui si manifestano appena vaghe e
10
LEONI
11
Ibidem
9
impotenti pulsioni.» Charles Burney, compositore inglese, verso
la fine del Settecento, cataloga la musica etnica come
principalmente diversa perché «barbara, zotica, ed inferiore alla
vera musica, che viene generata da una scala completa»
12
. C’è
scetticismo, oltre che una sprezzante superiorità: si pensa che,
anche studiando di più queste musiche sconosciute, non si
scoprirà nulla di paragonabile alla musica colta occidentale.
E´ del 1751 il saggio di Charles Fonton sulla musica orientale
che viene comparata a quella europea. Qui troviamo un capitolo
intitolato Della musica degli Orientali e del loro particolare
gusto: la musica orientale ne esce descritta come qualcosa che
non si è sviluppata nel tempo, e neanche perfezionata. Essa è
ancorata alla musica delle origini. Le sonorità orientali, difatti,
sono caratterizzate da semplicità e naturalezza; inoltre lo scrittore
nota come alcune arie e danze di autori antichi sono presenti
nelle musiche di vari popoli orientali. Seppur il giudizio non sia
stroncante come negli altri studiosi, Fonton sottolinea i tratti
patetici e toccanti delle melodie ascoltate, le quali suscitano
emozioni e sono inclini a infondere piacere. Riporta inoltre che la
musica è «[…] adatta allo spirito asiatico, è come questo popolo,
molle e languido, privo di energia e vigore, e non possiede né la
vivacità né lo spirito della nostra. Il grande difetto di cui può
esser accusata è quello d’esser troppo monocorde […]».
13
L’autore riconosce, quindi, alla musica orientale la capacità di
ammaliare e addolcire, ma non trova nessuna peculiarità nella
12
Ibidem
13
LEONI 2003
10
struttura, anzi la trova piuttosto monotona, priva di caratteristiche
particolari, che in definitiva induce alla noia.
Samuel Romanelli
14
, un ebreo italiano che visitò il Marocco
nel 1787, descrisse la danza in un matrimonio ebraico a Tangeri
con toni derisori. Riporta la visione delle giovani ragazze che si
prestavano alla danza evasiva ed il rullio dei tamburi che,
secondo lui, era del tutto casuale.
La prima ‘testimonianza’ di etnografia musicale risale alla
seconda metà dell’Ottocento, ossia durante l’epoca coloniale. Il
Capitano E. Fiori, ufficiale rimasto sconosciuto dal punto di vista
delle informazioni bibliografiche, pubblica delle annotazioni
riguardo la musica dei popoli dell’Eritrea, scritto intitolato
appunto Saggi musicali dell’Eritrea
15
. Si tratta di una delle prime
trascrizioni di musica extraeuropea che è ancora molto lontana
dalle conoscenze dei ricercatori. Le annotazioni dell’ufficiale
sono caratterizzate da un forte eurocentrismo che opera come
filtro razziale nell’ascolto delle musiche del luogo. Gli appunti
presi riguardano canti e musiche eritree come Andante pastorale
suonato con flauti di canna dalle tribù dell’Altopiano d’Alal e il
Canto delle Bilene
16
. L’incontro con queste sonorità si rivela
acerbo nella metodologia usata per la trascrizione; inoltre
l’approccio è decontestualizzato, cioè non si mette in relazione la
musica ascoltata con le funzioni che essa espleta, le occasioni in
cui questi canti vengono interpretati ed in che modo. L’autore dei
saggi incentra la sua attenzione sulla natura melodica delle
14
Ibidem
15
ABBONZIO, pp. 31-33
16
Ibidem