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La creazione dei moderni sistemi sanitari ha infatti favorito la specializzazione di certe
attività e capacità ma ha anche reso sempre più marcate le differenze tra Paesi, e
incrementato il peso economico delle persone indigenti.
Le risorse devolute ai sistemi sanitari sono distribuite in maniera diseguale, e non
sempre in maniera proporzionale ai problemi di salute che affliggono i suoi utenti.
Al giorno d’oggi, in gran parte dei Paesi ad alto-medio reddito, i governi sono
diventati il punto focale della politica sociale e sanitaria. Il loro coinvolgimento è
giustificato sia sul versante dell’efficienza che su quello dell’equità.
Ma nei Paesi il cui reddito pro-capite è più basso, dove le entrate statali totali sono
scarse e la capacità istituzionale del settore pubblico è molto bassa, il finanziamento e
la distribuzione dei servizi sanitari è largamente affidata al settore privato.
In molti di questi Paesi, ancora grossi segmenti della popolazione non hanno accesso a
delle cure di base ed effettive.
L’obiettivo primario di questo lavoro dunque è quello di analizzare il modo in cui la
società risolve i problemi distributivi in ambito sanitario.
La distribuzione delle risorse in sanità si pone su due livelli diversi e complementari:
da un lato si parla di organizzazione dell’assistenza pubblica e della determinazione
delle regole generali che devono ispirarne la gestione da parte degli organi politici e
amministrativi competenti (macro-allocazione). Dall’altro, si tratta di individuare dei
criteri per le scelte cui sono chiamati, quotidianamente, i singoli operatori sanitari, i
quali si trovano a decidere sull’utilizzazione dei mezzi a lori disposizione, a fronte di
una domanda spesso eccedente (micro-allocazione).
In questo lavoro ci soffermeremo soprattutto su questo secondo ordine di problemi.
Nella micro-allocazione ci si chiede con quali criteri scegliere, tra i possibili fruitori
delle risorse a disposizione, coloro a cui di fatto – ove si ponga l’alternativa – esse
vanno destinate: bisogna privilegiare per esempio chi ha migliori possibilità di
guarigione, oppure chi, per la maggiore gravità delle sue condizioni, corre maggior
pericolo di morte? Quale percentuale di cure deve essere destinata agli anziani e ai
malati cronici? A parità di condizioni, bisogna preferire chi, per il suo ruolo sociale, è
più necessario agli altri o chi, in base a dei meriti passati, avrebbe diritto alla
riconoscenza della società?
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Questi quesiti sono solo un piccolo esempio dei problemi che in ambito sanitario si
presentano quotidianamente: essi coinvolgono non solo il personale sanitario, ma,
ancora più a monte, i decision makers, cioè i membri del governo che si occupano delle
politiche sanitarie.
La motivazione di fondo della ridistribuzione sociale, in senso lato, affonda in giudizi
di valore che una società, attraverso la propria rappresentanza politica, esprime
riguardo al valore dell’equità. Dunque nemmeno la politica sanitaria può in alcun
modo essere scissa dagli obiettivi di equità.
L’equità è un concetto complesso, che non può essere costretto in una semplice e
univoca definizione. Essa è variamente modellata dai valori culturali e sociali e dagli
specifici beni e servizi che si vuole ridistribuire. Per capire cosa significhi l’equità in
una data situazione, dobbiamo analizzarne i dettagli contestuali.
Partiremo dunque esponendo una rassegna dei vari concetti di equità utilizzati dalle
teorie della giustizia (Capitolo 1), per poi entrare nel particolare e cercare di capire
quale concetto di equità sia più adeguato quando si parla di problemi distributivi in
ambito sanitario (Capitolo 2).
In seguito ci occuperemo delle tecniche di stima di quello che si suole chiamare il
societal value of health care, ovvero il valore sociale di un servizio sanitario (Capitolo 3),
fino ad arrivare ad uno dei metodi pratici di stima: il QALY-approach (Capitolo 4). Ne
analizzeremo la struttura, le sue possibilità d’impiego nelle decisioni di distribuzione
delle risorse sanitarie ma ne vedremo anche gli aspetti più controversi, studiando i
risultati di indagini svolte a riguardo nel Nord Europa e in Australia.
Il lavoro si chiude (Capitolo 5) con un’analisi sul campo, un’indagine svolta presso il
personale medico del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena. Tramite essa
cercheremo di contestualizzare, nella realtà del sistema sanitario italiano, l’utilizzo del
QALY-approach e di valutarne l’effettiva applicabilità. L’indagine ha come secondo
obiettivo anche quello di stabilire quale sia, secondo il giudizio dell’opinione pubblica
rappresentata dal nostro campione di indagine, il concetto di equità che meglio si
applica alla distribuzione delle risorse in ambito sanitario.
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Capitolo 1.
Il concetto di equità nella dottrina economica: un rassegna
La giustizia, secondo Rawls (1971) è la prima virtù delle istituzioni sociali. Così come
una teoria deve essere modificata o abbandonata se non è vera, così leggi ed istituzioni,
a prescindere dalla loro efficienza, devono essere abolite o riformate se ingiuste. E’
opinione comune, che risiede anche nei principi costituzionali del nostro Paese, che
ogni persona possieda un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il
benessere della società nel suo complesso può prevalere. Secondo giustizia, non è
possibile giustificare la perdita della libertà di qualcuno in nome di maggiore benefici
goduti da altri.
Rawls ritiene necessaria la costruzione di una teoria della giustizia, fondata su
determinati principi, per la valutazione di affermazioni come quelle sopra riportate. A
questo scopo, assumiamo innanzitutto che la società sia un’associazione più o meno
autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche, riconoscono come
vincolanti certe norme di comportamento e che, per la maggior parte, agiscono in
conformità ad esse. Si supponga anche che queste norme specifichino un sistema di
cooperazione il cui fine è quello di avvantaggiare coloro che vi partecipano.
Nonostante questo carattere di cooperatività, la società è caratterizzata sia da un
conflitto che da un’identità di interessi. Esiste un conflitto di interessi dal momento che
le persone non sono indifferenti rispetto al modo in cui vengono distribuiti i maggiori
benefici prodotti dalla loro collaborazione: è ovvio che ognuno, per perseguire i proprio
obiettivi, preferisca una quota maggiore di benefici piuttosto che una minore. Ma esiste
anche identità di interessi, poiché la cooperazione sociale rende possibile per tutti una
vita migliore di quella che chiunque potrebbe avere se ciascuno vivesse esclusivamente
in base ai propri sforzi.
Un insieme di principi serve quindi a discernere tra i vari assetti sociali da cui ha
origine tale suddivisione dei vantaggi, e a sottoscrivere una sorta di “accordo sociale”
per una corretta distribuzione dei benefici. Stiamo parlando dei principi di giustizia
sociale: è grazie ad essi che è possibile assegnare diritti e doveri alle istituzioni
fondamentali della società, e definire la distribuzione appropriata dei benefici e degli
oneri della cooperazione sociale.
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Nelle società, in realtà, raramente vi è un accordo su quali siano i principi che debbano
fornire i termini fondamentali dell’associazione tra i suoi membri. Ma ognuno di noi
possiede una sua concezione di giustizia: siamo pronti a riconoscere e affermare la
necessità di uno specifico insieme di principi che assegnino diritti e doveri
fondamentali, e che determinino quella che viene considerata la corretta distribuzione
dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale.
Un certo grado di accordo sulle concezioni di giustizia non è però l’unico prerequisito
per una comunità umana accettabile. Esistono altri problemi sociali fondamentali: la
coordinazione, l’efficienza e la stabilità degli schemi di cooperazione individuale. I
piani degli individui devono essere resi coerenti tra loro, in modo che le loro attività
siano compatibili le une con le altre, e in modo che sia possibile realizzarli senza che le
legittime aspettative di qualcuno siano disattese. L’esecuzioni di tali piani dovrebbe
anche portare al raggiungimento di fini sociali secondo modalità efficienti e coerenti
con la giustizia. Infine, lo schema della cooperazione sociale deve essere stabile: deve
essere regolarmente osservato, e le sue norme devono essere seguite volontariamente.
Nel caso in cui avvengano infrazioni, devono esistere forze stabilizzatrici che
prevengano ulteriori violazioni e riescano a ristabilire l’ordine sociale. Tutto ciò è
collegato al concetto di giustizia: se i soggetti non sono d’accordo su ciò che è giusto e
ciò che non lo è, risulta loro più difficile coordinare efficacemente i propri piani e trarne
i vantaggi sperati. Quindi, se la funzione distintiva delle concezioni della giustizia è
quella di specificare diritti e doveri fondamentali, e determinare la corretta
distribuzione delle quote di beneficio, è necessario che sia data rilevanza anche alle
questioni di efficienza, coordinazione e stabilità.
Come dice Rawls (p. 24):
Generalmente non possiamo determinare una concezione di giustizia
soltanto sulla base del suo ruolo distributivo, per quanto questo ruolo
possa essere utile nell’identificare il concetto di giustizia. Dobbiamo
prendere in considerazione le sue implicazioni più ampie: poiché anche se
la giustizia, essendo la più importante virtù delle istituzioni, ha una certa
priorità, è pur vero che, a parità di condizioni, una concezione della
giustizia è preferibile a un’altra quando le sue conseguenze più ampie
sono maggiormente desiderabili.
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Nel corso di questo lavoro non ci occuperemo tanto della giustizia distributiva in senso
lato (a livello macro), cioè di che cosa debba intendersi per giusto ordine sociale. Siamo
piuttosto interessati alla giustizia sociale in un settore particolare (potremmo dire, a
livello micro), quello della sanità, e del modo in cui le istituzioni distribuiscono il
“bene salute” all’interno della collettività. Il motivo per cui non approfondiremo il
concetto di giustizia sociale in senso lato riguarda il fatto che le teorie della giustizia
hanno poco da dire e da spiegare su come risolvere “in piccolo” i problemi distributivi
che ogni società al giorno d’oggi deve affrontare: non ci dicono quale criterio seguire
per decidere quale paziente sottoporre a trapianto, o a un dato trattamento sanitario.
Il motivo del “fallimento” delle teorie in senso lato deriva dal fatto che i problemi di
giustizia applicati a livello locale tendono ad essere suddivisi in diversi campi di
applicazione (sanità, tassazione, divisione delle proprietà…), cioè scorporati, per cui la
società non si sforza di coordinare le decisioni distributive inerenti a domini diversi, e
non avrebbe nemmeno senso che lo facesse.
Per decidere a quale paziente trapiantare l’unico rene a disposizione, non si può ad
esempio usare come criterio di priorità la situazione reddituale soggettiva, o qualsiasi
altro elemento che non sia inerente alle condizioni di salute del soggetto in questione.
Non esiste un meccanismo comparabile alla mano invisibile del mercato teorizzata da
Smith
1
che sia utilizzabile per coordinare decisioni distributive a livello micro con esiti
cosiddetti giusti a livello macro. Grosse iniquità sociali esistono a causa degli effetti
cumulati delle decisioni a livello locale (micro): esse possono essere rettificate a livello
macro dalle politiche redistributive, ma non tramite tentativi di coordinare le decisioni
delle varie istituzioni locali.
Il risultato di tale scorporamento dei problemi di giustizia nei vari campi di
applicazione è che ogni tipologia di problema distributivo viene trattato
separatamente, in base a norme e a criteri precedentemente usati e che si sono evoluti
appositamente per far fronte a una data classe di situazioni. Così i problemi relativi
alla sanità si risolvono in base agli standard della professione medica, quelli relativi
alla tassazione in base alla finanza pubblica e quelli relativi alla divisione della
proprietà in base alle leggi apposite…
1
Con il concetto di mano invisibile Smith intendeva esprimere la capacità del mercato di garantire che le scelte
economiche compiute da ognuno in vista del perseguimento di interessi e soddisfazioni personali, avessero esiti
benefici dal punto di vista dell’intera società.
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Gli standard rilevanti differiscono considerevolmente da un dominio all’altro, ma
anche a seconda della cultura dominante nella società di riferimento.
Su questa linea si trova anche il pensiero di Walzer (1983), il quale presenta la
concezione pluralistica di giustizia distributiva. Essa è basata su un’idea molto
semplice (p. 15):
L’idea di giustizia distributiva riguarda sia l’essere e il fare sia l’avere, sia la
produzione sia il consumo, sia l’identità e lo status sia i capitali, i
possedimenti, e i beni personali. Ogni ordinamento politico impone, e ogni
ideologia giustifica, una diversa distribuzione dell’appartenenza del potere,
della parentela e dell’amore, della conoscenza, della ricchezza, della
sicurezza personale, del lavoro e del tempo libero, delle ricompense e delle
punizioni, nonché di una quantità di altri beni più immediati e concreti –
cibo, alloggio, vestiario, trasporti, cure mediche […] che gli esseri umani
raccolgono. E a questa molteplicità di beni corrisponde una molteplicità di
procedure, agenti e criteri distributivi.
Ciascun bene sociale genera dunque una sua sfera di pertinenza. Così, la nozione di
giustizia si riformula come quella di una pluralità di criteri distributivi, ognuno
pertinente alla sua sfera. Non si può più parlare di eguaglianza semplice, ma è
doveroso utilizzare il termine introdotto da Walzer di eguaglianza complessa. In una
società in cui vige l’eguaglianza complessa nessun bene può essere dominante su tutti
gli altri, e l’assenza di dominio di un bene sui beni delle altre sfere dà vita a una società
giusta.
Se una generalizzazione risulta dunque difficile da farsi, essa non è impossibile.
Possiamo almeno definire una sorta di linguaggio comune e una serie di principi di
base, applicabili a una vasta gamma di problemi distributivi.
1.1 Alcune definizioni
Un problema allocativo sorge ogniqualvolta un ammontare di risorse, diritti, ma
anche oneri o costi, è temporaneamente posseduto in comune da un dato gruppo, e
attende di essere assegnato individualmente a ciascun soggetto. Una distribuzione, o
allocazione, è un’assegnazione di tali oggetti a specifici individui. Il termine
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allocazione non è un sinonimo di scambio. Per allocazione intendiamo una decisione
circa il destinatario di un bene (o, negativamente, di un onere) e solitamente deriva da
un processo decisionale che ha coinvolto tutto il gruppo di riferimento, o l’istituzione
che agisce in nome del gruppo.
Quando si parla di scambio invece, vengono coinvolte molteplici transazioni,
volontarie e decentralizzate, le quali possono aver luogo solo dopo che i beni o gli
oneri sono stati allocati. Prima viene l’allocazione, e solo successivamente può aver
luogo lo scambio, da cui avrà luogo una nuova allocazione.
Da qui in poi useremo il termine bene, come oggetto delle decisioni allocative e di
scambio, anche quando ci riferiremo a entità negative per il soggetto, come costi e
oneri vari. I beni possono avere molteplici gradi di omogeneità e divisibilità: ad
esempio degli organi da utilizzare per un trapianto sono beni eterogenei e indivisibili.
Altro termine di differenziazione riguarda l’offerta del bene, la quale può essere fissa o
variabile. Il numero di organi disponibili per il trapianto, ad esempio, varia di giorno
in giorno. E’ importante riconoscere che la quantità del bene può essere condizionata
dalla procedura utilizzata per distribuirlo. Ad esempio, la giustizia percepita nei criteri
di allocazione tra diversi pazienti degli organi per il trapianto può influenzare la
propensione dei donatori a donare.
In Young (1994) vengono identificati tre tipi di decisione differenti da cui può aver
luogo un’allocazione. La prima decisione concerne l’ammontare totale del bene da
distribuire. Si parla quindi di decisioni relative all’offerta (supply decisions). La seconda
categoria di decisioni riguarda invece il principio con cui il bene viene diviso tra i
soggetti destinatari. Si parla in questo caso di decisioni distributive. Queste prime due
categorie di decisioni sono in genere adottate dalle istituzioni. L’ultima categoria di
decisioni, invece, deriva dal comportamento individuale in risposta alle sopraccitate
scelte fatte a livello istituzionale: sono le c.d. reactive decisions. Combinando questi tre
tipi decisionali, otteniamo quella che si chiama l’allocazione effettiva (effective
allocation).
In questo lavoro, come già accennato, ci concentreremo sul secondo tipo di decisioni,
cioè sulle regole distributive e i principi invocati per giustificare tali regole.
In generale una regola di allocazione è un metodo, un processo o una formula tramite
cui allocare una qualsiasi offerta di beni tra un dato gruppo di richiedenti, in accordo
alle caratteristiche salienti di tali soggetti. Per rimanere all’interno del campo sanitario,
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possiamo ad esempio identificare una regola di distribuzione di un dato organo da
trapiantare, che determini chi debba esserne il destinatario, in funzione delle
condizioni mediche del paziente, del tempo di attesa del trapianto, della compatibilità
dell’organo con il fisico del soggetto, etc.
Le regole di allocazione che generalmente osserviamo in pratica, si servono di uno dei
tre ampi concetti di equità che ora descriveremo, e che vengono presentati in Young
(1994).
Si tratta dei concetti di:
- equità come parità;
- equità come proporzionalità;
- equità come priorità.
Con parità intendiamo il fatto che coloro che necessitano di un dato trattamento sono
trattati allo stesso modo, o perché tra loro uguali nelle caratteristiche salienti o perché
non esiste una maniera chiara di distinguerli. La proporzionalità invece riconosce le
differenze tra i richiedenti, e divide i beni in proporzione a queste differenze. Tramite
il criterio di priorità, infine, è possibile fare in modo che la persona che rivendica
maggiormente il bene sia quella che lo riceve.
Questi tre criteri di equità compaiono nelle maggiori teorie di giustizia distributiva.
Essi descrivono la struttura generale della regola allocativa, ma l’effettivo contenuto
della regola deriva da specifici principi normativi.
Consideriamo il solito esempio relativo a chi dare la priorità di fronte alla possibilità di
effettuare un trapianto d’organo. Filosoficamente parlando, si potrebbe dire che la
priorità sia da attribuirsi a colui che si trova nella peggior condizione, ovvero a chi si
trova maggiormente in pericolo di vita, o soffre di più. Alternativamente, qualcuno
potrebbe anche pensare che l’organo dovrebbe essere impiantato laddove l’intervento
ha migliori possibilità di riuscita, ad esempio su una persona che ha maggiori
probabilità di sopravvivenza. La terza opzione potrebbe fare invece riferimento a una
norma sociale, del tipo “il primo in lista sarà il primo a dover essere curato”, in modo
da servire la persona che ha dovuto attendere più a lungo le cure.
Questi sono principi normativi, che possono essere in contrasto con il modo in cui le
decisioni distributive sono prese in pratica, cioè con le regole empiriche seguite dalle
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istituzioni in fase di scelta. Vediamo quindi quali sono le teorie generali della giustizia
che si rifanno ai concetti di equità visti sopra.
La prima e più antica teoria è il principio di equità di Aristotele, il quale afferma che i
beni dovrebbero essere divisi in proporzione al contributo fornito da ciascun
richiedente. Questa può sembrare un’idea plausibile, ma ha senza dubbio delle
limitazioni. Innanzitutto dovremmo poter disporre di un metodo di misura della
contribuzione individuale, su una scala cardinale. Talvolta questa misura è qualcosa di
naturale, come può accadere per il monte di ore lavorative effettuato da un soggetto a
favore di un dato lavoro di gruppo. Ma, altre volte, tale misura non è in alcun modo
calcolabile. In secondo luogo, affinché si possa utilizzare il criterio della
proporzionalità, il bene in questione deve essere divisibile. E come già abbiamo detto,
non sempre abbiamo a che fare con beni divisibili.
La seconda teoria generale della giustizia è quella relativa all’utilitarismo classico,
benthamiano: essa afferma che i beni devono essere distribuiti in modo da
massimizzare il benessere totale dei richiedenti. Afferma Bentham, nell’opera Fragment
of Government del 1776: « L’assioma fondamentale è che […] la misura di ciò che è giusto o
sbagliato è la massima felicità del più grande numero di persone».
Scrive Thomas Nagel (1977)
2
:
L’eguaglianza morale dell’utilitarismo è una sorta di regola di
maggioranza: gli interessi di ogni persona contano una volta, ma certi
possono pesare meno di altri. Non è veramente una maggioranza di
persone a determinare il risultato, ma una maggioranza di interessi
convenientemente soppesati per intensità. Le persone sono eguali nel
senso che a ognuna è dato un “voto” soppesato proporzionalmente
all’ampiezza dei suoi interessi. Anche se questo significa che gli interessi
di una minoranza possono talvolta superare gli interessi di una
maggioranza, l’idea fondamentale è maggioritaria perché si attribuisce a
ogni individuo lo stesso peso (variabile) e il risultato è determinato dal
totale più ampio.
2
Traduzione contenuta in: Carter, L’idea di Eguaglianza (2001), pag. 54.