7
quelli degli stati maggiori, risulta evidente come siano elevate le
probabilità di conflitto all’interno di un’alleanza asimmetrica.
Anche se le grandi potenze non sono immuni ai rischi e pericoli che
derivano delle alleanze, sono le piccole potenze a trovarsi nella
posizione più svantaggiosa; la loro maggiore dipendenza nei
confronti dell’alleanza, infatti, le induce ad accettare costi talvolta
eccessivi per timore di essere di abbandonate, e le espone allo stesso
tempo al rischio di pressioni e ritorsioni da parte degli alleati
maggiori. Senza dubbio le piccole potenze possono ricorrere ad
alcuni stratagemmi per ridurre tali rischi, ma essendo in grado di
esercitare soltanto una limitata influenza nei confronti degli alleati
maggiori, sono nella maggior parte dei casi costrette ad assecondare
la loro volontà.
L’Anzus, il trattato militare stipulato all’inizio degli anni ‘50 tra
Stati Uniti Australia e Nuova Zelanda, si rivela particolarmente
interessante per l’analisi delle alleanze tra stati “disuguali”. Esso,
infatti, fu concluso tra due stati di medie dimensioni i cui interessi
erano confinati essenzialmente all’area del Pacifico, ed una
superpotenza che almeno inizialmente voleva evitare qualsiasi
coinvolgimento in tale area, ed il cui obiettivo era quello di
contenere un ex-alleato, la Cina, ed allo stesso tempo ricercare il
sostegno di un ex-nemico, il Giappone, considerato dall’Australia e
dalla Nuova Zelanda la principale minaccia alla loro sicurezza.
Nonostante l’asimmetria esistente tra i due Dominions e l’alleato
maggiore, si trattava di un’alleanza apparentemente destinata ad
evitare i contrasti tipici delle alleanze tra piccole e grandi potenze,
soprattutto grazie al fatto che i tre stati condividevano la stessa
lingua, gli stessi valori e le stesse istituzioni democratiche.
Contrariamente alle aspettative invece, fin dalle fasi iniziali
dell’alleanza emersero vari motivi di contrasto tra i tre stati, ed una
crisi scoppiata tra Stati Uniti e Nuova Zelanda all’inizio degli anni
‘80 metterà addirittura a repentaglio l’esistenza stessa dell’alleanza.
Obiettivo di questo lavoro sarà quello di testare, alla luce del trattato
concluso tra Stati Uniti Australia e Nuova Zelanda, le principali
8
ipotesi e teorie che emergono dalla letteratura relativa alle alleanze
tra piccole e grandi potenze. Verranno analizzate questioni come
quella relativa alle origini di tali alleanze, agli specifici problemi
degli alleati minori nei loro rapporti con stati più forti, e alle
mutevoli percezioni degli obblighi relativi alle alleanze. La crisi
degli anni ‘80 poi, permetterà di affrontare temi come quelli del
diritto di ogni stato di agire alla luce dei propri interessi nazionali,
del ruolo delle ritorsioni nei rapporti tra alleati, e della capacità
americana di mantenere la leadership del reticolo di alleanze
costruito nel corso della Guerra Fredda.
La ricerca è stato divisa in due parti. La prima ha carattere teorico,
ed oltre a fornire una visione generale delle principali teorie sulle
origini delle alleanze, si sofferma sull’analisi della letteratura
relativa a quelle concluse tra piccole e grandi potenze; la seconda ha
invece carattere storico, e si concentra sull’origine e sull’evoluzione
dell’Anzus fino alla crisi dei primi anni ‘80. La prima parte è
composta da quattro capitoli. Il primo riporta alcune delle più
importanti definizioni e classificazioni delle alleanze, dedicando
maggiore attenzione a quelle che sottolineano il diverso peso degli
attori che ne fanno parte. Esso ricorda inoltre le principali teorie
sulle origini delle alleanze. Il secondo capitolo definisce e descrive
le principali caratteristiche delle piccole potenze, mettendo in
evidenza la mancanza di accordo tra i vari autori sui criteri ritenuti
più significativi per distinguerle dal resto degli stati del sistema
internazionale. Il terzo capitolo invece, specifica i diversi motivi che
inducono le piccole e le grandi potenze ad allearsi tra loro, mentre il
quarto capitolo mette in evidenza i principali rischi e pericoli che
discendono dalle alleanze tra stati “disuguali”, soffermandosi ad
analizzare alcuni dei rimedi che le piccole potenze possono adottare
al fine di limitare i rischi che esse corrono alleandosi con stati più
forti.
La seconda parte invece, è divisa in tre capitoli. Il primo descrive le
origini dell’Anzus, dedicando particolare attenzione alla fase della
stipulazione del trattato e al contenuto di quest’ultimo. Il secondo si
9
occupa invece dell’evoluzione dell’alleanza fino alla fine degli anni
‘70, e mette in evidenza le conseguenze legate alla disparità di forza
tra i tre alleati. L’ultimo capitolo, infine, si concentra sulla disputa
sorta tra Stati Uniti e Nuova Zelanda all’inizio degli anni ‘80, ed
analizza tanto le ragioni che indussero il partito laburista
neozelandese ad adottare una politica antinucleare, quanto quelle che
spinsero gli Stati Uniti ad adottare severe misure punitive nei
confronti dell’alleato minore.
10
Capitolo 1
ALLEANZE
1.1 Definizioni e classificazioni
Nonostante la maggior parte degli autori sia concorde nel ritenere la
natura cooperativa, il carattere formale e la ricerca della sicurezza gli
elementi fondamentali delle alleanze (Cesa 1995, p. 205), la varietà
di definizioni esistenti sottolinea la mancanza di una definizione
generalmente accettata delle stesse (Holsti 1973, p. 3)
1
. Quella data
da Holsti: “ un’alleanza è un accordo formale tra due o più stati volto
alla collaborazione su questioni di sicurezza nazionale”, non solo
comprende tutti e tre gli elementi sopra ricordati, ma evidenzia
anche come egli escluda tanto occasionali e temporanei atti di
coordinazione di politica estera, quanto tutta una serie di accordi
formali in materie diverse dalla sicurezza nazionale (1973, p. 4).
Bercovitch (1989, p. 8), che come Holsti evidenzia la natura
cooperativa delle alleanze, sottolinea però come esse siano
finalizzate non solo alla sicurezza, ma anche ad obiettivi di natura
economica. Russett (1971, p. 263) opta per una definizione meno
articolata: “un accordo formale tra un numero limitato di stati in
merito alle condizioni in cui essi impiegheranno o meno la forza
militare”, ma che comunque richiama almeno uno degli elementi
ritenuti costanti. Una definizione leggermente diversa è quella di
Liska (1968, p. 3), il quale sostiene che le alleanze “associano attori
1
Anche Modelski (1963), dopo essersi riferito alle alleanze come ad uno dei
termini chiave delle Relazioni Internazionali, evidenzia come per esse non esiste
tuttavia una definizione generalmente accettata.
11
che la pensano allo stesso modo nella speranza di prevalere sui loro
avversari ”.
Se in questa varietà di definizioni di alleanze è comunque possibile
riscontare una certa uniformità di vedute, altrettanto non può dirsi
dei criteri usati dai diversi autori per classificarle.
A sottolineare il diverso peso degli attori che le costituiscono, ad
esempio, abbiamo la contrapposizione tra alleanze concluse tra
superpotenze ed alleanze concluse invece tra superpotenze e piccole
potenze (Bercovitch 1989, pp. 8-9). Anche Rothstein (1968, pp. 116-
119) distingue le alleanze a seconda che esse siano composte da
partner “uguali” o “disuguali, ” evidenziando i vantaggi e gli
svantaggi associati a queste ultime. Egli considera
contemporaneamente due criteri: quello del numero degli attori
coinvolti e la loro rispettiva forza, e sottolinea gli aspetti positivi
delle alleanze bilaterali tra stati “uguali”, sia rispetto a quelle
multilaterali, sia rispetto a quelle bilaterali ma tra stati “disuguali”.
In confronto alle prime esse sono più flessibili, e la probabilità che le
azioni comuni siano condivise da tutti gli alleati è più alta; rispetto
alle seconde invece, vi è di solito un più ampio consenso sugli
interessi che l’alleanza deve difendere, oltre al fatto che i membri
della stessa godranno di una maggior libertà nell’allocare le proprie
risorse. Nonostante i vantaggi di un rapporto paritario tra alleati, le
piccole potenze traggono benefici anche da alleanze asimmetriche,
primi fra tutti l’aumento di forza e di capacità deterrente che
derivano dall’allineamento con stati potenti. Un altro criterio che
evidenzia la diversa importanza degli stati all’interno di un’alleanza,
in quanto sottolinea il più ampio margine di discrezionalità di cui
godono gli stati più potenti nel caso in cui i termini del trattato non
siano specificati in modo preciso (Cesa 1995, p. 207), è quello che
distingue le alleanze in base alla natura del casus foederis. Avremo
allora alleanze vaghe nel caso sopra menzionato, ed alleanze precise
nel caso in cui le clausole del trattato che si riferiscono alle occasioni
12
di intervento siano previste in modo dettagliato
2
. Sempre in tema di
allineamenti in cui gli stati aderenti non hanno lo stesso peso,
Morrow (1991) parla di alleanze simmetriche ed asimmetriche; le
prime sono quelle in cui tutti i membri soddisfano gli stessi interessi,
mentre le seconde, in genere tra piccole e grandi potenze, sono
quelle dalle quali gli stati traggono benefici diversi
3
.
C’è inoltre chi classifica le alleanze sulla base del numero degli stati
che ne fanno parte (bilaterali e multilaterali o collettive), della loro
durata (temporanee e permanenti), della loro portata geografica
(regionali o globali) o del loro livello di coesione. Morgenthau
(1971, pp. 82-85) aggiunge altri quattro criteri. Oltre alla durata egli
prende in considerazione: il tipo di interessi di cui l’alleanza si fa
portatrice, che possono essere identici, se condivisi da tutti i membri,
complementari o ideologici; la distribuzione dei benefici, alla luce
dei quali si possono avere alleanze mutue, se ogni parte riceve un
guadagno commisurato al servizio reso, o unilaterali se non c'è un
equa condivisione di costi e benefici; il grado di tutela offerto agli
interessi delle varie parti, in base al quale avremo alleanze limitate o
generali, e l’efficacia in termini di azioni e politiche comuni, che
contrappone le alleanze operative a quelle inefficaci. Un altro
criterio è quello che distingue le alleanze alla luce dei fini che gli
stati si prefiggono nel momento in cui le stipulano. Avremo allora
patti difensivi, di neutralità ed intese (Singer 1968, p. 266)
4
, con le
2
Tale classificazione si deve ad Holsti K. J. (1992, pp. 89-92) che considera
anche il tipo di impegno assunto, in base al quale si avranno alleanze reciproche
o unilaterali, il livello di integrazione militare, e la copertura geografica.
3
Due sono i tipi di vantaggi che gli stati possono trarre dalla partecipazione ad
alleanze: uno é la sicurezza, intesa come la capacità di mantenere lo status quo
ovunque questo li soddisfi; l’altra e l’autonomia, intesa come il grado in cui essi
possano modificarlo qualora ne siano insoddisfatti (Cesa 1995, p. 209).
4
J. David Singer e Melvin Small si riferiscono nel primo caso a quei patti che
impegnano ciascun firmatario ad intervenire militarmente in difesa degli altri
stati; nel secondo caso, invece, gli stati firmatari si impegnano ad astenersi da
13
relative conseguenze in termini di maggiore o minore libertà
d’azione; i primi, ad esempio, forniscono un alto grado di protezione
ma non lasciano molta libertà d’azione, mentre l’opposto vale per gli
ultimi.
Come dimostrano questi pochi esempi, i parametri sulla base dei
quali le alleanze vengono classificate sono molto numerosi; essi si
rivelano comunque utili, soprattutto se si considera che alcuni di essi
ben rappresentano il tipo di relazione qui considerata, ossia quella
esistente tra stati “disuguali” all’interno delle alleanze.
1.2 Perché gli stati si alleano?
Le alleanze costituiscono un tratto tipico delle Relazioni
Internazionali e, sebbene alcuni dei motivi per cui gli stati uniscono
le loro forze possono essere considerati comuni a tutti loro,
indipendentemente dalle rispettive dimensioni e potenziali militari,
altri trovano la loro ragion d’essere proprio nella diversa condizione
che discende da tali caratteristiche.
Fin dall’analisi delle motivazioni che inducono gli stati ad allearsi, e
dall’esame delle conseguenze che discendono da tale adesione,
emerge quindi con chiarezza che gli stati minori si differenziano da
quelli più grandi. Rothstein (1968, p. 1), ad esempio, dopo aver
chiarito che le piccole potenze non possano essere paragonate a
grandi potenze di dimensioni ridotte, sottolinea come esse agiscano
in modo diverso tra loro, aggiungendo che il loro comportamento
può essere compreso solo se sono chiare le prospettive che guidano
il loro operato, e che derivano proprio dalla loro diverse
caratteristiche.
Dopo aver passato in rassegna le principali ragioni che spingono gli
stati ad entrare a far parte di alleanze, e che sono condivise con
qualsiasi azione militare in caso di aggressione nei loro confronti, mentre
l’intesa prevede la consultazione tra firmatari nell’ipotesi di attacco ad uno di
essi.
14
maggiore o minore accentuazione da tutti gli stati, analizzeremo
quelle che sono invece tipiche rispettivamente di piccole e grandi
potenze. Cercheremo poi di evidenziare le implicazioni, per le prime,
del ricorso ad alleanze con stati più forti, le conseguenze che
derivano dalla mancata coincidenza di interessi tra le due categorie
di stati all’interno di una medesima alleanza, ed il modo in cui le
piccole potenze cercano di ovviare agli svantaggi che derivano da
tale situazione.
1.2.1 Motivazioni condivise da tutti gli Stati
Aumento della potenza al fine di una maggiore
sicurezza, balance of power, percezione di una
minaccia
Uno dei motivi per cui gli stati si alleano è che essi hanno alcuni
interessi in comune
5
, e che la difesa di tali interessi è più facile se le
loro forze sono combinate. Tenendo conto del fatto che l’obiettivo
principale di tutti i Governi è quello di salvaguardare la propria
nazione da aggressioni esterne, la ricerca del modo migliore di
tutelarne la sicurezza in presenza di una minaccia può essere
considerato l’interesse più importante che gli stati condividono. Ecco
allora che essi, incapaci di fronteggiare con le sole forze a loro
disposizione un eventuale attacco, decidono di collaborare con chi si
trova a dover affrontare lo stesso pericolo, fornendo così una prima
giustificazione al ricorso alle alleanze.
5
Liska (1968, pp. 27-28), ad esempio, sottolinea che tutte le associazioni
dipendono dall’esistenza di interessi che possono essere identici fin dall’inizio, o
che lo diventano nel tempo; Morgenthau (1971, p. 81) afferma che la fondazione
di un’alleanza richiede una comunione di interessi (di solito ad essa
preesistente), che essa stessa contribuisce a precisare.
15
Alla luce della teoria realista quindi, se gli stati vogliono evitare di
essere sopraffatti da altri stati più potenti, dovranno prestare la
massima attenzione alla distribuzione del potere a livello
internazionale. Il legame con la teoria dell’equilibrio internazionale
(Sheehan 1996, pp. 1-15), che auspica una distribuzione del potere
tra gli stati tale che nessuno di essi, o nessuna alleanza esistente,
abbia una forza preponderante (Zinnes 1967, p. 272; Sheehan 1996,
p. 4), risulta evidente. Quando uno stato o un’alleanza diventano, o
minacciano di diventare troppo potenti, sostiene Claude (1962, p.
18), gli altri stati devono riconoscere che ciò può rappresentare una
minaccia alla loro sicurezza, in quanto essi possono cedere alla
tentazione di dominare, di opprimere o di conquistare. Essi devono
allora reagire, unilateralmente o insieme ad altri stati, per adottare
quelle misure che li mettano in condizione di accrescere il potere a
loro disposizione. Agire unilateralmente significa aumentare la
propria potenza ricorrendo a mezzi interni, ma gli stati possono
anche optare per una delle seguenti alternative: aggiungere alle
proprie risorse quelle di stati alleati, oppure ridurre la forza dei loro
avversarsi, separandola da quella degli stati con cui sono allineati, o
dissuadendo potenziali alleati dallo schierarsi col nemico. (Organski
e Kugler 1980, p. 16; Morgenthau, 1985). Entrambe le soluzioni
comportano il ricorso ad alleanze che, in quest’ottica, consentono di
mantenere un’equa distribuzione del potere tra diversi stati, evitando
che alcuni di essi, o eventuali coalizioni dotate di risorse superiori,
prevalgano sul resto del sistema.
Anche Waltz (1987) condivide l’importanza della potenza per gli
stati al fine di garantire la loro sicurezza, ma sottolinea come questa
sia in pericolo soprattutto a causa dell’ambiente anarchico che li
circonda. L’elemento cruciale della teoria neorealista di Waltz,
diventa quindi la “struttura” nella quale gli stati sono collocati; a
differenza di quanto avviene al loro interno, infatti, dove il governo
detiene il monopolio legittimo dell’uso della forza, a livello
internazionale non esiste alcuna un’autorità in grado di impedire loro
di ricorrere a quest’ultima o ad altri mezzi ritenuti utili per il
16
raggiungimento dei loro scopi. Poiché in una situazione di questo
tipo nessuno è in grado di aiutare gli stati in difficoltà, (p. 225)
l’obiettivo primario che il sistema incoraggia è la ricerca della
sicurezza, mentre il “comportamento indotto dal sistema é quello
equilibratore” (pp. 238-239)
6
. Le alleanze rappresentano in questo
caso l’alternativa al ricorso a mezzi interni per contrastare chi, libero
di perseguire con qualsiasi mezzo i propri fini, minaccia la sicurezza
di altri stati.
Nonostante la condivisione dell’idea che tutti gli stati avvertono la
necessità di aiuti esterni in caso di minaccia, c’è chi attribuisce più
importanza a quest’ultima che non all’esigenza di incrementare il
proprio potere, per giustificare il ricorso alle alleanze.
Walt (1987), ad esempio, ritiene che sia la percezione stessa della
minaccia, e non l’esigenza di accrescere la propria forza per
fronteggiarla, la causa principale della costituzione delle alleanze.
Egli non considera soddisfacente la spiegazione secondo cui gli stati,
preoccupati per la loro sicurezza a causa di un’iniqua distribuzione
della forza tra attori del sistema, sarebbero spinti a stipulare alleanze
proprio per cercare di bilanciare tali squilibri. In tal modo, egli
sottolinea, non si spiegherebbe come mai le due superpotenze,
entrambe dotate di forza superiore a quella di tutti gli stati
mediorientali considerati nella sua analisi, non abbiano mai
provocato la costituzione di alleanze regionali volte a contrastarle
(1987, p. 171). Walt introduce quindi, accanto alla potenza, tre
fattori che contribuiscono a quantificare il livello di minaccia che
uno stato può porre, ed a chiarire le conseguenze che ne discendono
in termini di ricorso alle alleanze: la prossimità geografica, le
capacità offensive e le intenzioni aggressive. Se è vero che uno stato
6
Waltz (1987, p. 239) sottolinea come tale comportamento equilibratore sia la
prova del fatto che gli stati non cercano di massimizzare il potere, (nel qual caso
si alleerebbero con gli stati più forti), ma piuttosto di conservare la propria
posizione nel sistema. Il potere è solo il mezzo per garantire la propria sicurezza,
non un fine.
17
è tanto più minaccioso quanto maggiori sono le risorse a sua
disposizione (popolazione, capacità industriale e militare, sviluppo
tecnologico), non bisogna dimenticare che la capacità di avvalersene
diminuisce con l’aumentare della distanza, che la potenza di uno
stato deve essere comunque trasformata in capacità offensiva, e che
gli stati aggressivi, indipendentemente dalle loro potenzialità, sono
ritenuti più minacciosi. E’ per questo che gli stati da lui considerati
preferiscono guardare alle superpotenze, forti ma meno minacciose
in quanto distanti, come a potenziali alleati con cui schierarsi contro
stati sempre potenti ed aggressivi, ma resi più minacciosi dalla loro
prossimità geografica. Per contro, stati regionali deboli e con
intenzioni non aggressive, sebbene vicini e quindi teoricamente più
temibili, non costituiscono una minaccia sufficientemente forte da
stimolare la costituzione di alleanze. A parità di altri fattori, dunque,
gli stati appaiono tanto più minacciosi quanto più sono vicini, quanto
maggiori sono le loro capacità offensive, e quanto più aggressive si
dimostrano le loro intenzioni. Risulta quindi evidente che per Walt la
distribuzione del potere, o, nelle sue parole “aggregate
capabilities”, non è la sola variabile di cui gli stati tengono conto nel
decidere in merito ai loro possibili alleati. Concentrandosi
esclusivamente su quest’ultima, egli sottolinea, non si sarebbe in
grado di spiegare alleanze diverse da quelle previste dalla teoria
dell’equilibrio internazionale (Walt 1991, p. 53). Come rendere
giustizia, ad esempio, dei numerosi casi in cui gli stati si alleano con
la fonte stessa della minaccia anziché contro di essa? Accanto al più
frequente “balancing”, è dunque necessario prendere in
considerazione l’alternativa sopra ricordata, che è conosciuta col
nome di “bandwagoning”.
18
Balancing e Bandwagoning
Così come non vi è accordo tra i diversi autori sulle origini alleanze,
un’uniformità di vedute manca anche in merito ai motivi che
spingono gli stati ad optare per il balancing o per il bandwagoning.
Come ricordato, con il primo termine si intende l’allineamento
contro la potenza minacciosa, al fine di dissuaderla dall’attaccare o
per sconfiggerla nel caso in cui lo faccia; con il secondo, si intende
invece l’allineamento con il potenziale aggressore. Quali sono le
ragioni che spingono gli stati ad optare per questa seconda
alternativa?
La teoria realista sostiene che, alla base della scelta in favore del
bandwagoning, vi possa essere sia il tentativo da parte dello stato
minacciato di guadagnare tempo, ed evitare così una possibile
invasione, sia una scelta più opportunista, ossia quella di approfittare
dell’eventuale successo dello stato aggressore, al fine di spartire con
lui i frutti della vittoria (Larson 1991, p. 86; Walt 1991, p. 52).
Walt (1987, pp. 172-180), dopo aver sottolineato la maggior
frequenza del ricorso ad allineamenti contro lo stato aggressore, si
sofferma a considerare i casi in cui è più probabile che gli stati
optino per allineamenti con quest’ultimo. La sua prima
considerazione è che sono gli stati deboli i più propensi a questo tipo
di politica; essi, infatti, non essendo in grado di deterrere o di
fronteggiare un potenziale aggressore, devono cercare a tutti i costi
di schierarsi dalla parte vincente; qualsiasi stato invece, aggiunge
Walt, si schiererebbe dalla parte della minaccia in mancanza di
alleati, poiché in tal caso il tentativo di resistere all’aggressore
dovrebbe avvenire con le sue sole forze. Un altro fattore considerato
da Walt è il contesto nell’ambito del quale viene fatta la scelta tra
balancing e bandwagoning. La prima è più frequente in tempo di
pace, mentre una volta che il conflitto è iniziato, ed in particolare
quando comincia a delinearsi il probabile vincitore egli sostiene, gli
19
stati cercheranno di schierarsi con la parte vincente per sfruttare i
suoi eventuali successi. Walt non trascura di sottolineare i rischi ed i
pericoli legati al bandwagoning (1987, pp. 28-29); se l’obiettivo
dello stato che opta per questa alternativa é quello di impedire una
sua immediata conquista, esso non è però in grado di prevedere i
piani futuri dell’alleato, per cui un certo rischio rimane comunque
presente. Allo stesso modo poi, le incertezze in merito alle
probabilità di vittoria dell’aggressore nel momento in cui viene
conclusa l’alleanza, fanno sì che la speranza di sfruttarne le
conquiste territoriali possa rivelarsi vana.
Le conseguenze negative legate a questo tipo di politica, non si
riflettono solo sullo stato che decide di adottarla, ma si ripercuotono
anche a livello internazionale. Se lo stato aggressore aumenta la
propria forza, infatti, la sicurezza diventa sempre più scarsa, ed un
numero crescente di stati tenderà a defezionare per schierarsi con la
parte che si sta rafforzando (Walt 1991, p. 52)
7
; mentre i successi
dell’aggressore faranno sì che esso attragga nuovi alleati, i quali
apporteranno altre risorse, la forza degli oppositori si ridurrà sempre
più (Walt 1987, p. 17), allargando il gap tra loro esistente in termini
di forza.
Alla luce di queste considerazioni, il balancing si rivela una politica
più sicura. Da una parte, infatti, gli stati non sono costretti a riporre
la loro fiducia nella benevolenza della potenza dominante, la quale
potrebbe un giorno volgersi contro di loro; dall’altra, i casi di
aggressione sarebbero meno frequenti, dato che gli stati minacciosi
si troverebbero a dovere fronteggiare numerosi oppositori allineati
contro di loro.
7
Walt (1991, pp. 74-75, n. 11) usa la metafora del domino per descrivere la
situazione in cui le conquiste di un avversario in un area renderanno più facili e
probabili ulteriori espansioni. Questo dipende dal fatto che l’espansione
accresce le risorse del vincitore, mentre la sconfitta pregiudica il morale di chi
perde, ed indebolisce la sua capacità di resistere; i successi di una parte, inoltre,
convinceranno altri stati ad optare per l’allineamento con la parte vincente.