6
europea, che tenga conto cioè che i1 mostro imperialista va combattuto nella sua
dimensione continentale”
4
.
Muovendo da quanto affermato nel comunicato delle Br, la
giornalista de Il Manifesto aveva intitolato il suo articolo “Discorso sulla DC”.
In realtà, di Democrazia Cristiana si parlava ben poco. L’invettiva della
Rossanda era tutta diretta contro un altro attore del sistema politico
italiano, il Partito Comunista, accusato di una precisa negligenza: “Quanto
spazio ha lasciato scoperto alla propria sinistra e quanto margine di azione
questo spazio ha offerto ai gruppi più estremisti?”.
La giornalista de Il Manifesto, nonché ex-militante del Pci, diffidava,
chiunque avesse riscontrato nel testo del comunicato una critica alla DC,
dall’ignorare il contemporaneo richiamo alla propaganda politica comunista
di qualche decennio prima, la stessa su cui il Pci aveva costruito la sua forza
di partito della classe operaia contro la dominazione borghese. Era stato
poi, all’inizio degli anni Settanta, con la costruzione del dialogo con la
Democrazia Cristiana e con l’idea di compromesso storico, che la sinistra
storica aveva adattato le proprie strategie a quelle della destra, senza tuttavia
pensare di cambiare gli apparati dello Stato e rafforzare il legame con le
masse. A causa di questa trascuratezza, si erano create le “peggiori falle”
nella sinistra italiana, dalle quali era nato il fenomeno brigatista.
In un articolo successivo, nel quale riprendeva questo discorso, la
Rossanda invitava pertanto il Pci a guardare a tutto il suo passato per capire
se e quanto pesasse effettivamente, sulle sue spalle, la paternità
dell’estremismo
5
.
4
La condanna è stata emessa dunque secondo i principi della “giustizia proletaria”, rispondendo ai
seguenti capi di imputazione e alle seguenti richieste: il detenuto deve chiarire le politiche imperialiste
e antiproletarie di cui la DC è portatrice; individuare le strutture internazionali e le filiazioni nazionali
della controrivoluzione imperialista; svelare il personale politico-economico-militare a supporto del
progetto delle multinazionali; infine, il Tribunale accerta le sue dirette responsabilità
5
La Rossanda riprende il discorso sull’album di famiglia in un articolo del 2 Aprile 1978 “L’album di
Famiglia”, in Il Manifesto.
7
Questa ricerca muove proprio da qui e cioè dalla curiosità e dagli
interrogativi che solleva la polemica aperta dalla Rossanda: esiste davvero
l’album di famiglia, cioè una continuità, innanzitutto ideologica, tra le Brigate
Rosse della fine degli anni Settanta e il Partito comunista degli anni
Cinquanta? Se una continuità ideologica c’è, si può spiegare la storia delle
Brigate Rosse muovendo da quella del Partito Comunista Italiano?
All’epoca, i comunisti si affrettarono a negare qualsiasi analogia e/o
genealogia del Pci con le BR. Giorgio Amendola, per primo, sottolineò che
“L’album di famiglia è l’album in cui può trovare molti suoi parenti vicini e lontani, ma
non noi. In questo album non si ritrova chi ha combattuto, con Togliatti, per
l’applicazione della giusta linea politica, la quale escludeva assolutamente dei giochi
equivoci che potessero mantenere nelle masse quel tanto di sfiducia nelle istituzioni
democratiche, che è un retaggio secolare e che noi comunisti abbiamo invece, con molta
fatica, contribuito a superare. A volte forse senza farcela pienamente, nella misura in cui
non abbiamo svolto il nostro lavoro in modo coerente
6
”.
Coloro che poi lo seguirono riversarono tutta la colpa sulla
Democrazia Cristiana e sulla sua offensiva contro il movimento operaio.
Sulla distanza che intercorreva con le Brigate Rosse, premeva loro
sottolineare le differenze di linguaggio tra i due soggetti: “Le Br dicono: siamo
di fronte ad uno stato repressivo, che come tale deve essere distrutto. Noi dicemmo allora:
le forze conservatrici e reazionarie tentano di minare dall’interno i principi costituzionali
su cui si fonda lo Stato democratico; in nome dello Stato, bisogna respingere questo
tentativo
7
”.
Leggendo tuttavia i comunicati, i documenti, i volantini che le
Brigate Rosse diffusero nel corso di tutta l’attività di quegli anni, sorgono
6
Cit. Fabio Mussi intervista Giorgio Amendola, “Chi è responsabile della violenza politica”, in
Rinascita, Aprile 1978, Num. 14. ANNO XXXV, pag. 3 e seg.
7
Cfr. Paolo Franchi intervista Fernando di Giulio, “Le responsabilità di ieri e i compiti di oggi”, in
Rinascita, Aprile 1978, Num. 15. ANNO XXXV, pag. 3 e seg.
8
numerosi dubbi su quanto appena riportato. Supponendo sia una questione
di mero linguaggio e non di contenuti, chi non sarebbe colto dal dubbio di
sfogliare l’articolo di un dirigente comunista leggendo che “il proletariato
italiano possiede in sé un immenso potenziale di intelligenza rivoluzionaria, un
patrimonio infinito di conoscenze tecniche e di capacità materiali che con il proprio lavoro
ha saputo collettivamente accumulare una volontà e una disponibilità alla lotta che
decenni di battaglie per la propria liberazione ha forgiato e reso indistruttibili”, come
scrissero appunto i terroristi nel volantino di rivendicazione del 25 marzo?
O ancora, chi non penserebbe di essere lui il compagno comunista, quando le
BR lanciarono un simile appello all’opinione pubblica: “Compagni, la crisi
irreversibile che l'imperialismo sta attraversando mentre accelera la disgregazione del suo
potere e del suo dominio, innesca nello stesso tempo i meccanismi di una profonda
ristrutturazione che dovrebbe ricondurre il nostro paese sotto il controllo totale delle
centrali del capitale multinazionale e soggiogare definitivamente il proletariato
8
.”?
Perché quanto scritto finora non sia considerato frutto di
considerazioni ovvie e soprattutto banalizzanti la propaganda dei due
soggetti – che senza alcun dubbio sono diversi e non rappresentano lo
stesso modo di gestire le battaglie socio-politiche – un esempio su tutti sarà
proposto, con l’obiettivo di mettere il lettore nelle condizioni di cominciare
ad afferrare quel filo rosso che lega le due impostazioni e di cogliere quanto
la propaganda delle BR sia intrisa del vecchio proselitismo comunista. “Da
almeno tre anni assistiamo, per quanto riguarda in particolare l’Italia, al tentativo
sistematico dei gruppi più reazionari della grande borghesia agraria e monopolistica di
restaurare il proprio esclusivo dominio di classe, valendosi contro le masse lavoratrici di
quelle stesse vecchie leggi fasciste che erano state fatte a protezione del privilegio e
lacerando viceversa spudoratamente quella costituzione repubblicana che il popolo italiano
8
Questa frase è presa dal primo comunicato di rivendicazione, quello del 16 marzo 1978, rinvenuto
nel sottopassaggio di Torre Argentina a Roma.
9
si è dato per garantire gli interessi della maggioranza contro l’arbitrio e le velleità di
prepotenza di pochi”. Chi scrive è un militante comunista, Vezio Crisafulli, e
l’articolo, comparso su Rinascita, si intitola “Vengono alla luce i limiti della
democrazia borghese
9
”: correva l’anno 1951.
Ripercorrendo le tappe della storia del Pci e della sinistra
extraparlamentare e analizzando l’evoluzione della loro ideologia dagli anni
’50 in poi, si cercherà dunque di capire se l’impostazione ideologica del Pci
del secondo dopoguerra sia stata la base recuperata dalle Brigate Rosse per
rispondere alla dirigenza comunista degli anni Settanta, ovvero alla terza
generazione di comunisti italiani che, sotto la guida di Enrico Berlinguer,
aveva avviato una svolta revisionista definitiva, avvicinando il partito al
governo e alla Democrazia Cristiana.
Sarebbe esistito dunque un filo rosso tra terrorismo e comunismo,
tra violenza rivoluzionaria e lotta di classe, che l’album, come lo chiama la
Rossanda, ci aiuterebbe a ricostruire? Si tratterebbe di una semplice verità
scomoda per i comunisti italiani, che rifiutano di recuperare le memorie del
passato, o di un’accusa funzionale a scardinare le basi del compromesso
storico?
Si cercherà in particolare di dimostrare come, muovendo da principi
identici, raccolti nelle teorie marxiste e leniniste, l’ideologia delle Br e quella
del Pci (cosi come espressa negli anni di massima ortodossia) risultino
molto simili, anche se il contesto politico nazionale e internazionale diverso
e una cultura politica in parte difforme da quella delle élites delle due
formazioni permettono di cogliere alcune differenze essenziali. In altri
termini, si cercherà di dimostrare che, laddove il Pci degli anni ’50 e le Br
degli anni ’70 si richiamano allo stesso modo ad una presunta purezza del
9
In Rinascita, Luglio 1951, Num. 7, ANNO VIII, pag. 334 e seg.
10
marxismo-leninismo, la propaganda del Pci tuttavia appare segnata
dall’impronta dello stalinismo, mentre quella delle Br si è arricchita di varie
riletture dei “classici” marxisti, quale in particolare quella maoista.
La vicinanza ideologica si evidenzia bene, come avremo modo di
esplicitare nella tesi, prima di tutto nel richiamo alla lotta di classe quale
motore della storia e alle conseguenti teorie derivanti di tale principio. Non
mancavano, negli anni Cinquanta, appelli da parte comunista alla “dittatura
del proletariato” e alla rivoluzione quale mezzo per abbattere il capitalismo e
instaurare lo stato socialista. In quest’ottica, erano pressoché identiche, nel
rispetto della dialettica marxista, la concezione del proletariato, quale unico
soggetto rivoluzionario, e la polemica contro il capitalismo, secondo una
raffigurazione della storia quale continua lotta tra capitalisti e classe operaia
presente nelle Br di fine anni ’70.
Identica anche la scelta dell’avversario, sia a livello ideale che
concreto. Il capitalismo, lo stato borghese, i padroni ecc. erano il nemico da
abbattere, che, nel contesto italiano degli anni ’50, così come in quello degli
anni ’70, era identificato innanzitutto con la Democrazia Cristiana.
L’analogia è molto netta tra la polemica contro la DC da parte del Pci, che
vedeva in essa l’interprete degli interessi della borghesia capitalistica, e
quella da parte delle BR, che identificavano il partito al governo con lo
strumento del potere dei padroni e lo concepivano quale macchina di
oppressione e sfruttamento.
Identica, almeno in parte, è infine la proiezione internazionale
dell’ideologia del Pci e delle Br. Il Pci si concentrò, nell’ottica della Guerra
Fredda, sulla polemica contro gli Stati Uniti come rappresentanti
dell’imperialismo e contro il Patto Atlantico come espressione
dell’aggressione americana e strumento della guerra imperialista condotta
contro le nazioni più deboli. L’obiettivo principale delle Brigate Rosse era la
11
Nato nelle vesti di pilota dei progetti continentali di controrivoluzione
armata nei vari SIM europei. Assai più presente, tuttavia, nella propaganda
Br, la dottrina leninista della distruzione dello Stato (per le Br, Stato
Imperialista Multinazionale), come passaggio ultimo prima
dell’instaurazione dello Stato socialista.
Come cercheremo di sviluppare nella tesi, la differenza maggiore,
tuttavia, tra il Pci degli anni Cinquanta e le Br degli anni Settanta, si
riscontra in un altro elemento, ripreso dall’impostazione marxista-leninista,
vale a dire l’uso della violenza. Secondo la teoria leninista, l’uso della forza
era concepito per abbattere l’ordine esistente nell’ottica di una guerra civile.
L’idea di violenza che si ritrova nel Pci rimase sul piano strettamente
ideologico, più come richiamo necessario alla coerenza della dottrina, che
come vero e proprio pilastro dell’ideologia del partito. Nel caso delle Br,
come vedremo, diventò, al contrario, prerogativa della loro attività. Lo
concepirono non solo come mezzo per abbattere lo Stato, ma anche come
strumento per far emergere le contraddizioni all’interno dello Stato e si
concretizzò in attentati, sequestri e uccisioni.
Questa analisi è stata condotta attraverso un approccio diacronico
in modo da evidenziare non solo analogie e differenze tra l’ideologia del Pci
e quella delle Br, ma anche l’esistenza o meno di una genealogia più
direttamente politica. Si è cercato di chiarire, insomma, attraverso un
percorso cronologico, se e in quale modo il Pci, evolvendo, a partire della fine
degli anni ’50, per cercare di avvicinarsi progressivamente all’area di
governo, abbia lasciato uno spazio a sinistra che fu occupato, vent’anni
dopo, dalle Br, in polemica con il partito di allora.
Dopo aver chiarito quali fossero le origini del Pci, a livello politico e
soprattutto ideologico, si è cercato di evidenziare, sempre nel primo
capitolo, quali fossero i tratti dell’ideologia comunista negli anni ’50. Allora,
12
il partito aveva aderito al Cominform e ne seguiva le prerogative alla lettera,
richiamandosi ai principi del marxismo-leninismo e allo stalinismo. Da qui,
la costruzione di una propaganda basata sull’anti-imperialismo e sull’anti-
americanismo, derivanti dalla scelta di campo che l’Unione Sovietica aveva
imposto a tutti i partiti comunisti, anche quelli occidentali e delle sue
esigenze geopolitiche; sulla polemica contro il capitalismo e sulle iniziative
che ne avrebbero permesso il crollo, secondo quanto propinato dalla
dottrina marxista, e sull’anti-borghesismo come tratto distintivo di tutta
l’ideologia comunista, perché si legava, in campo internazionale, alle lotte
imperialistiche condotte dai partiti borghesi per lo sfruttamento dei popoli
più poveri, in campo nazionale, alla volontà di instaurare un regime in cui
dominano privilegi e corruzione, di cui la classe operaia è la principale
vittima; sulla battaglia contro il regime democristiano, vale a dire lo scontro
frontale con la DC, interprete italiana del modello occidentale e quindi
dell’anticomunismo. Centrale era inoltre l’idea di rivoluzione, unica via per
liberare la classe operaia dall’oppressione dei partiti borghesi. A livello
organizzativo, il partito aveva imposto il «centralismo democratico», base
del consenso unitario. .
Nel secondo capitolo, si è cercato di capire l’emergere di una
contestazione a sinistra del Pci negli anni ‘60, attraverso la comparsa di
riviste e movimenti vari, in relazione all’evoluzione dell’atteggiamento della
dirigenza comunista. Con la morte del leader sovietico, cominciò il
rinnovamento in tutto il mondo comunista, che trovò il culmine nel 1956:
crollava il mito di Stalin e il marxismo-leninismo sembrava aver fallito,
perché non in grado di spiegare la Rivoluzione d’Ottobre e le sue
conseguenze. Il Pci subì una brusca frenata in termini di militanti,
soprattutto in seguito alle rivoluzioni in Ungheria e Polonia: questo
momento è fondamentale per l’analisi che verrà sviluppata nelle pagine
13
successive. La linea che trovava origine nell’ideologia marxista-leninista era
rimasta intatta fino al ’56, perché la forza dell’Unione Sovietica in campo
internazionale aveva permesso alla dirigenza comunista di mantenere un
perfetto controllo sui propri militanti, che non esitavano a dare sostegno al
partito, garantendo iscrizioni e consensi elettorali. A partire dal ‘56, tuttavia,
l’avvento del maoismo, la messa in discussione dello stalinismo, le prime
opposizioni interne al blocco comunista, la nascita del centro-sinistra, tutto
contribuì a destabilizzare il comunismo, anche quello italiano. Togliatti,
quale leader indiscusso del partito, mantenne il partito fedele a Mosca (lo
stalinismo fu l’impronta più evidente dell’importanza che Togliatti
attribuiva alla solidarietà all’Unione Sovietica, rimasta inalterata anche dopo
la morte di Stalin e l’inizio del disgelo), ma operò affinché fosse
perfezionato l’inserimento del partito nel sistema politico nazionale, il che
lo avrebbe portato, come vedremo, a moderare la politica e la propaganda
del Pci. A partire dagli anni ’60 e soprattutto dopo la morte del leader
italiano, la nuova generazione comunista recuperò le credenze del passato, il
credo rivoluzionario, la coscienza di classe, in risposta alla tendenza troppo
moderatrice che il Pci aveva adottato: era necessario, infatti, che la storia
ricominciasse il suo corso verso il socialismo, per questo occorreva
rimuovere tutto ciò che ostruiva il cammino del progresso, anche attraverso
il ricorso alla violenza.
Il recupero della tradizione s’intrecciò con la mobilitazione
studentesca del 1968 e, in quel contesto, la linea cominciò a biforcarsi: da
un lato, c’era il partito che si stava rinnovando perché, dopo il fallimento
del centro-sinistra, rigettava i modelli radicali e avanzava l’ipotesi di
partecipazione alla vita istituzionale; dall’altro, i giovani che si richiamavano
alla tradizione comunista pura, integrata dalle nuove istanze del
terzomondismo, del maoismo. La scissione era ormai compiuta e,
14
nonostante l’appoggio iniziale ai movimenti sessantottini, il Pci era sempre
più lontano dall’idea di «partito di mobilitazione» per configurarsi come
«partito di gestione»
10
: la strategia comunista era un misto di penetrazione-
integrazione, che metteva insieme la forma di governo consociativa e la
compartecipazione come basi di un sistema che coniuga pluralismo,
autonomia e partecipazione. Il mutamento fu importante perché cambiò
l’impostazione delle battaglie socio-politiche che il Pci condusse,
legittimando la violenza solo per sbloccare il processo storico e
contrastando alcuni gruppi dell’ultra-sinistra che ne concepivano il ricorso
in maniera permanente.
L’idea di rivoluzione fu recuperata nell’accezione più tradizionalista,
perchè lo stato borghese non si sarebbe autodistrutto, ma occorreva un
intervento duro. Dai movimenti del ’68 e dallo spazio che il Pci aveva
lasciato a sinistra, nel tentativo di avvicinarsi al potere, si generò uno dei
germi del terrorismo di fine anni Settanta: il Pci abbandonò l’accusa di
interclassismo della DC, della denuncia del capitale di Stato, del
confessionalismo, della dominazione borghese – tutti argomenti ripresi
dalle Brigate Rosse – per avviare il «compromesso storico» con la DC.
L’ultimo capitolo è dunque dedicato all’affermarsi delle Brigate Rosse,
in relazione sempre all’evoluzione del Pci e dei gruppi della sinistra
extraparlamentare. Le Brigate Rosse si presentarono sulla scena politica
italiana come movimento rivoluzionario e di guerriglia che sfidava lo Stato e
il movimento comunista, del quale avevano recuperato e rilanciato
l’ideologia nella sua forma più pura. Significativo è, in questo senso, il
paragone proposto da Antonio Lombardo sulle BR come “micro-stato” che
ha il monopolio dell’uso della forza fisica su un territorio e la legittimità
10
Cfr. il saggio PCI e istituzioni: l’integrazione difficile, in A. A., Il PCI allo specchio, Rizzoli
Editore 1983.
15
presso la popolazione che vive su quel territorio. L’idea di micro-stato,
infatti, serve a recuperare la teoria leninista che concepisce il partito come
micro-stato armato, ma nel caso delle BR diventa il risultato dell’intreccio
tra tradizione terzo-interzionalistica, tradizione stalinista dell’apparato del
Pci e dei modelli rivoluzionari del Terzo Mondo. Motivi per cui in tanti
allora, almeno inizialmente, solidarizzarono con il gruppo terroristico.
Per quanto sia ampia la storiografia sul Pci, la riflessione sull’album
di famiglia appare tuttavia piuttosto discreta. Il richiamo, seppur sfumato, da
parte di alcuni autori, riguarda principalmente la concezione della violenza
nell’ambito del partito. Settembrini, ad esempio, afferma ne “Il PCI allo
specchio” che l’album di famiglia abbraccia molte più cose di quanto non
pensasse Rossana Rossanda, vale a dire tutta la cultura della sinistra
marxista italiana nelle sue varie articolazioni
11
; Antonio Lombardo, da parte
sua, lo richiama, ma esprimendo solo un veloce giudizio riguardo alle
ipotesi di legame tra sinistra storica e brigatismo.
Un’analisi attenta alla produzione ideologica dell’estrema sinistra
italiana, la quale evidenzia le analogie e le differenze e, dunque, le continuità
e le rotture tra le varie formazioni, in particolare tra il Pci e le Br, è dunque
alla base di questa ricerca.
Dal punto di vista bibliografico, la ricerca è stata condotta
innanzitutto, per il Pci, su Rinascita, che si è preferito consultare rispetto ad
altri organi come L’Unità, poiché la sua periodicità (inizialmente
settimanale) e lo spazio disponibile (il numero di pagine raggiungeva anche
le cinquanta) hanno permesso alla dirigenza comunista, come anche ai
semplici militanti, di presentare in maniera puntuale le scelte ideologiche del
partito e di analizzare in modo approfondito gli eventi. Per gli anni
11
Cfr. il saggio Il PCI e la violenza rivoluzionaria, in A. A., Il PCI allo specchio, Milano 1983, pag.
356.
16
Sessanta, nell’ambito delle prime forme di contestazione al Pci, è stato
molto utile consultare i sei numeri de I Quaderni Rossi e alcuni numeri de I
Quaderni Piacentini. Infine, per gli anni Settanta, i volantini delle Brigate Rosse
rappresentano ovviamente buona parte del materiale raccolto.
17
Capitolo Primo
Il PCI Dalla Nascita Alla Svolta Del ’56.
18
1. La Fondazione.
Quando diventa uno dei maggiori protagonisti della vita politica
nazionale, all’indomani della seconda guerra mondiale, il Partito
Comunista Italiano (Pci) ha alle spalle una lunga, seppur in larga parte
clandestina, storia dalla quale non si può prescindere per capire la sua
evoluzione successiva.
La fondazione del partito è riconducibile alla creazione del
Comintern
12
e alla relativa adesione che venne richiesta ai partiti socialisti
nazionali. Come ben si sa, il Partito Comunista d’Italia
13
nacque, nel
gennaio del 1921, dalla scissione di alcuni membri del partito socialista
italiano: durante il XVII Congresso socialista, presso la sala del Teatro
Goldoni di Livorno, la corrente di estrema sinistra del Psi, guidata da
Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga, abbandonava la sala, convocando
presso il Teatro San Marco il congresso costitutivo da cui sarebbe nato il
Partito Comunista d'Italia. Ancora nel 1949 – nel voler sottolineare la
continuità della propria linea politica e giustificarne la legittimità
14
–, i
12
Il Comintern (anche chiamato Terza Internazionale o Internazionale comunista) fu creato a Mosca
nel marzo 1919 da un piccolo gruppo di bolscevichi guidato da Lenin. Muovendo da una critica alla
socialdemocrazia e ponendosi perciò in contrapposizione con l’Internazionale Socialista, si proponeva
di promuovere la rivoluzione socialista mondiale secondo il modello sovietico e di suscitare la
creazione di partiti comunisti votati alla lotta armata per il rovesciamento del capitalismo e
dell’imperialismo.
13
Il nome ufficiale è Partito Comunista d’Italia, Sezione Italiana della Terza Internazionale, nel
rispetto della condizione n°17 prevista dall’atto di costituzione del Comintern: essa recita “Il fatto del
nome non è soltanto una questione formale, ma una questione squisitamente politica e di grande
importanza”. Il partito assumerà il nome di Partito Comunista Italiano nel 1943, in seguito allo
scioglimento dell’Internazionale Comunista.
14
Cfr. l’articolo “Nel Ventottesimo anniversario del Partito Comunista Italiano”, di Ruggero Grieco,
in Rinascita, Gennaio 1949, Num. 1, ANNO VI, pag. 10 e seg. Grieco cercava infatti di dimostrare
che la stessa frattura del 1921 si riproponeva nel secondo dopoguerra, la cui responsabilità veniva
ricondotta, nel contesto politico del 49, da un lato, al socialdemocratismo (termine che rimanda sia
alla tradizione del movimento operaio così come si è sviluppato in vari paesi europei nella seconda
metà del XIX sec. e in particolare in Germania, caratterizzata dall’idea secondo la quale la transizione
verso la società socialista possa essere attuata solo attraverso un processo democratico, il quale si
identifica con una pratica progressista e riformista, cioè promuovendo la democrazia rappresentativa e
graduali programmi di riforme del sistema capitalistico). Nel contesto italiano del secondo
dopoguerra, socialdemocrazia rimanda anche esplicitamente al partito dei lavoratori italiani di
Saragat, il quale si trasformerà nel 1952 in Partito socialdemocratico italiano, nato dalla scissione con
il PSIUP) che aveva tradito gli ideali e gli interessi della classe operaia. Dall’altro lato, al centrismo,
19
dirigenti comunisti ricordavano come tale frattura fosse stata innanzitutto la
conseguenza del dissenso sugli articoli 7 e 18 del “manifesto” del
Comintern, ovvero la richiesta di una “completa rottura col riformismo e la
politica dei centristi”
15
e l’adesione totale alle direttive del Comintern
16
.
Nel giugno del 1920, in effetti, nell’occasione del secondo
congresso dell’Internazionale Comunista, era stato deciso di vincolare
l’ammissione al detto organismo all’accettazione di 21 condizioni tra cui le
due sopracitate
17
. Tale irrigidimento aveva provocato una forte reazione da
parte della maggioranza del PSI guidata da Serrati che, pur rinnovando la
sua adesione all’Internazionale Comunista, si rifiutò di espellere i riformisti
dal partito e di sacrificarne l’unità e la tradizione. La contrapposizione tra
l’estrema sinistra, raccolta attorno a Gramsci e Bordiga e sostenuta da
Lenin, e la maggioranza massimalista del partito guidata da Serrati si
rafforzò ulteriormente nell’autunno quando la direzione del PSI si rifiutò di
fare del movimento di occupazione delle fabbriche l’inizio di una fase
rivoluzionaria suscitando violente polemiche da parte dei comunisti sul
che lo aveva difeso (termine che rimanda, invece, alla stagione politica italiana dal 1946 al 1953, anno
della fine della prima legislatura, caratterizzata dall’egemonia della Democrazia Cristiana sul sistema
politico che, seppur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento, strinse alleanze con il
Partito Liberale, Partito Repubblicano e il Partito Socialista Democratico di Saragat, avviando in
questo modo una politica centrista e lasciando ai margini del sistema politico i comunisti e i partiti di
estrema destra).
15
L’art. 7 recita: “I partiti, che desiderano appartenere all’Internazionale Comunista, sono obbligati a
riconoscere la completa rottura col riformismo e la politica dei centristi, e a progettare questa rottura
nella più ampia cerchia dei compagni. Senza di ciò non è possibile una coerente politica comunista.
L’Internazionale Comunista esige assolutamente e categoricamente che si operi tale frattura il più
presto possibile. L’Internazionale Comunista non può accettare che dei noti opportunisti, come Turati,
Modigliani, Kautsky, Hilferding, Hilquit, Longuet, MacDonald, ecc. abbiano il diritto di apparire
quali membri dell’Internazionale Comunista. Ciò non potrebbe non portare l’Internazionale
Comunista ad assomigliare per molti aspetti alla Seconda Internazionale andata a pezzi.”
16
L’art. 18 recita: “Tutti gli organi di direttivi della stampa dei partiti di tutti i paesi sono obbligati a
pubblicare tutti gli importanti documenti ufficiali del Comitato Esecutivo dell’Internazionale
Comunista”.
17
Per il testo completo dei 21 punti della III Internazionale, Cfr Cammarano, Piretti, Fonti e documenti
per la storia contemporanea, Baiesi Editore, Bologna 2002, pag. 161 – 162.