1 introduzione alle arti marziali giapponesi tradizionali
DO. Questo ideogramma significa “via” e rappresenta un percorso, una strada, un
cammino finalizzato, di norma, a raggiungere il livello di maestria più alto
possibile.
Non a caso “do” compare nel nome di “arti” tipicamente giapponesi, come lo Iaido (ovvero
l’arte di sguainare la spada), il Judo (la via della cedevolezza), l’Aikido (la via dell’armonia e
dell’energia), il Kyudo (tiro con l’arco). Queste e altre arti fanno parte del Budo, il cui
significato è “la via del guerra”, ma anche “la via della pace”, in un esemplare e perfetto
dualismo Zen, degno di un “Koan” .
Lo stesso ideogramma lo troviamo in altre arti, come lo Shodo (l’arte della calligrafia), il
Sado (la famosa cerimonia del the) e nel Kado (l’arte del disporre i fiori).
Un tempo la maggior parte di queste arti avevano una desinenza diversa: “jutsu”, che significa
“tecnica”, come nel Jujutsu (la tecnica della cedevolezza) che, al pari dell’acqua, riceve a sé
l’energia scagliatagli contro e la riversa a proprio favore, accoglie per poi respingere,
asseconda e poi ribatte…
La trasformazione da “jutsu” a “do” è un effetto della religione o filosofia Zen, nella quale
“l’illuminazione” ha ben poco a che fare con la teoria ed ha molto a che vedere con la pratica,
con l’esperienza.
Per lo Zen, il vivere, di per se stesso, è una ascesi, e qualunque azione della vita, anche la più
umile e più insignificante, è occasione per ritrovare la verità assoluta all’interno di noi stessi.
Così questa filosofia dell’anima, misericordiosa, pacifica e salvifica viene sposata un pò da
tutte le arti giapponesi e anche i Samurai, guerrieri sanguinari, ma comunque leali, trovano
negli assiomi Zen più incomprensibili agli occidentali, la loro vera illuminazione:
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Il tempo che non torna indietro e non possiamo voltarci a rimirarlo
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il passato è passato e quindi non esiste più, il domani deve ancora venire ed ancora non si
manifesta, solo l’oggi esiste
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la vita è una successione di "qui ed ora". Le persone angosciate dal passato o dal futuro
non si rendono conto del mondo illusorio in cui vivono
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la vita e la morte non differiscono poi così tanto tra loro, ed in egual modo vanno trattate
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fiducia in se stessi e contemporaneamente la negazione di se.
E' stato lo Zen a trasformare i jutsu, le tecniche della guerra, in arti finalizzate alla ricerca di
sé, al perfezionamento interiore di colui che pratica l'arte stessa. La mano vuota (karate),
l'arco, le frecce e la spada si trasformano da strumenti di morte a supporto per la meditazione.
Il combattimento diventa figurato, spirituale. Il nemico diveniamo noi stessi, nelle illusioni
del nostro ego che ci impediscono di scoprire la nostra stessa natura.
Di qui nasce il "Bushido", la via del guerriero, un insieme di valori e principi morali, codice
di onore, disciplina cavalleresca, finalizzati a perfezionare qualità fisiche e morali dell'uomo
come la lealtà, la giustizia, la semplicità, il coraggio, la generosità ed il disprezzo della morte.
Si formano le regole di vita dei Samurai:
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Gi: la verità, la decisione giusta ed equanime, l'atteggiamento giusto ed ineluttabile
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Yu: l'abilità ed il coraggio... l'eroismo
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Jin: la benevolenza verso l'umanità
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Rei: il retto comportamento
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Makoto: la totale sincerità
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Melyo: l'onore e la gloria
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Chugi: la devozione e la lealtà
L'influenza del Buddhismo ha portato nel Bushido alcuni altri aspetti:
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l'acquietamento dei sentimenti
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l'accettazione di fronte all'inevitabile
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la padronanza di sé in ogni circostanza
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la maggiore intimità con l'idea della morte
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la non paura della povertà e della sofferenza
Kodo Sawaki : "le arti marziali non sono teatro, né sport, né spettacolo. Il loro segreto è che
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in esse non esiste né vittoria né sconfitta. Non si può vincere né essere vinti! Negli sport è
diverso perché in essi c'è il tempo, l'azione non si realizza all'istante. C'è il tempo per pensare,
Taisen Deshimaru - Lo Zen e le arti marziali
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per decidere, per agire, mentre nelle arti marziali non c'è che l'istante. La vittoria o la non
vittoria, la vita o la non vita si decidono nell'istante".
Naturalmente questa visione è frutto della parte bellica e pericolosa dell'arte marziale e non
certo valutando quella agonistica moderna; pur tuttavia i principi generali rimangono sempre
sotto la soglia della percezione del gesto.
Nell'arte marziale sono ben tre le cose essenziali: spirito - intuizione (Shin), tecnica (Waza) e
corpo (Tai). Tutte e tre sono indispensabili ma, dovendo dare un ordine di importanza, lo Shin
va considerato l'elemento più importante, poi vengono Waza e Tai.
"Se uno spirito forte combatte contro una tecnica forte, sarà lo spirito a prevalere, giacché
saprà trovare il punto debole dell'avversario".
In occidente si dedica particolare attenzione al corpo, tuttavia nelle arti tradizionali giapponesi
non è così. La tecnica precede. Una buona tecnica prevale sempre sul corpo, come nel jujutsu
nel quale la forza muscolare, ad esempio, non può nulla rispetto ad una leva articolare ben
realizzata.
Malgrado la gerarchia indicata, la perfezione si raggiunge con la perfetta integrazione di Shin,
Waza e Tai.
Nel combattimento pensare e poi colpire non è l'azione corretta.
In primo luogo bisogna non mostrare mai debolezze, dato che l'occasione per colpire la coglie
lo spirito - intuizione, nei momenti di vuoto dell'avversario, quando inspira o quando si
percepisce un vuoto nello sguardo, allora arriva l’opportunità, per una tecnica raffinata, di
utilizzare un corpo in perfetta forma ed allenato per sferrare l'attacco decisivo. Potenza del
corpo e abilità tecnica non sono nulla senza la pronta vigilanza dello spirito.
La concentrazione per un marzialista deriva dall'abbandonarsi a ciò che accade, momento per
momento. Si insegna a concentrarsi, nel qui ed ora, aiutandosi con il porre attenzione al
proprio respiro, soprattutto l'espirazione, lenta, lunga e potente, addominale, facendo bene
attenzione a non staccare mai gli occhi dagli occhi dell'avversario, per cogliere ogni suo
movimento interiore e sfruttare qualunque momento di vuoto. Normalmente durante
l'inspirazione si è vulnerabili mentre nell'espirazione si è vigili, potenti e veloci.
Tutto nell'arte marziale favorisce la concentrazione, il disporre i propri indumenti, il saluto, la
postura...
Ad esempio, nel saluto, è tutto il corpo che fa omaggio di sé all'altro, testimonianza di rispetto
per l'avversario o per il Maestro, e aiuta a focalizzare la propria attenzione favorendo la
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concentrazione. Il corpo eretto, nuca eretta, piedi uniti all’altezza dei talloni, punte divaricate
a 30 gradi, braccia lungo il corpo con le mani sulle gambe e palmi rivolti all'interno. Poi con
la schiena ci si piega in avanti mantenendo fisso lo sguardo di fronte e con la nuca mantenuta
eretta. Le braccia scivolano lungo la parte laterale delle gambe, sempre a contatto, ci si ferma
con un’inclinazione e con tempi variabili, sulla base della situazione e dell'oggetto del saluto.
Poi, lentamente, si torna alla posizione originaria. La fretta non esiste, nessun pensiero si
ferma in testa, ciò che esiste è solo quel movimento, in quel momento, niente altro.
KAIZEN significa letteralmente “miglioramento”. Affrontare la vita un
passo per volta, considerando le sconfitte mai una bocciatura ma come
punto di partenza per costruire un sé nuovo e migliore. Vincere l’ineluttabilità delle vicende
della vita con la leggerezza del rinnovato impegno personale. Ciò comporta una riduzione
immediata dello stress ed uno stop ai pensieri negativi che ci soffocano e ci bloccano. E’
qualcosa di più ampio della resilienza.
Spesso l’errore è quello di porsi obiettivi troppo lontani per le proprie capacità attuali. L’idea
chiave del kaizen è di accogliere in noi stessi cambiamenti così leggeri da essere malapena
percepiti, in un continuo e blando percorso a tappe, nella direzione che vogliamo; in un
viaggio nel miglioramento infinito. Oggi, quanto posso cambiare i miei comportamenti per
avvicinarli al miglioramento desiderato? Nella nostra risposta sincera c’è tutto il percorso
della nostra auto consapevolezza.
Nessun obiettivo è mai troppo lontano se siamo consapevoli e sopportiamo la dimensione del
tempo che ci occorre per conseguirlo, nel limite imposto dalla nostra natura, che lo colloca in
noi, all’interno, come una tessera in un mosaico. L’attitudine principale da sviluppare è la
disposizione mentale al cambiamento, dimenticando la velocità e l’immediatezza del nostro
mondo occidentale moderno e riscoprendo il piacere dell’armonia con noi, il nostro corpo e la
nostra anima. Nessun confronto con gli altri, solo concentrarsi sulle proprie capacità e i propri
limiti, cercando di superarli piano piano, con dedizione, pazienza ed impegno.
Il KAIZEN comprende anche il prevedere rallentamenti ed ostacoli che affronteremo sempre
in modo razionale, dato che i nostri obiettivi, essendo piccoli piccoli, sono per definizione
realizzabili ed in linea con le nostre capacità, un pò come metafora degli obiettivi SMART,
tanto cari ai moderni Coach ed agli Psicologi dello sport.
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Nel 2002 Sir Dave Brailsford assunse il ruolo di Direttore della squadra di ciclismo inglese
che, fino ad allora, non aveva ottenuto alcun successo degno di nota. Alle olimpiadi di
Pechino, nel 2008, la squadra vinse sette medaglie d’oro sulle dieci complessive del ciclismo.
Sir Dave Brailsford era un esperto in gestione aziendale, con alle spalle master specifici, ed
utilizzò le tecniche proprie delle imprese e mutuate direttamente dal Kaizen. Invece di
ricercare obiettivi ambiziosi, convinse la squadra a ridurre ai minimi termini ogni aspetto
delle loro attività e diede l’obiettivo di migliorare di un piccolo 1% alla volta ogni dettaglio,
dalla nutrizione alla manutenzione delle biciclette, alla aerodinamica, al miglioramento del
sonno, ecc... Decise di non puntare alla perfezione direttamente dall’inizio ma bensì su piccoli
guadagni marginali su tutto. I miglioramenti, seppur ognuno di essi, in se stesso, fosse
minimo, crearono un clima di euforia contagiosa portando alla fine enormi miglioramenti che
poi sfociarono in entusiasmanti successi. Questo è Kaizen.
SHU-HA-RI. Tutti coloro che praticano le arti giapponesi che seguono
il DO, ovvero la via della maestria, apprendono tradizionalmente
attraverso tre distinte fasi.
Shu significa “conservare”, “mantenere” ed è basato sul seguire alla lettera i precetti e gli
insegnamenti del maestro, finalizzati a perfezionare con la pratica le tecniche di base ed i vari
precetti. L’apprendimento è per osservazione ed imitazione e la ripetizione continua consente
di consolidare automatismi e utilizzare completamente la memoria procedurale attraverso
l’iper apprendimento. L’attivazione dei neuroni specchio si ottiene anche solo guardando
compiere un gesto, a patto che sia un gesto conosciuto, compreso nel significato, e che si
abbia la competenza per replicarlo.
HA significa “rompere” e si ha quando le tecniche apprese sono perfettamente comprese, al
punto di creare con esse piccole, infinitesime nuove variazioni spontanee ed efficaci, mai
apprese dal maestro.
RI significa “riparare” e si ha quando la propria maestria consente di avere una dominanza
della materia che consente anche di creare nuove forme ed applicazioni da fondere con le
conoscenze precedenti, riportandoci al punto di partenza ma con un bagaglio tecnico
infinitamente superiore.
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Sen No Rikyu, colui che ha perfezionato la celebre cerimonia del tè giapponese, era solito
dire: “le pratiche servono per imparare da uno a dieci. Quando si arriva al dieci, bisogna
tornare all’uno”. Diceva anche: “cerca sempre di preparare il tè pensando a chi lo berrà”.
Che cosa è ZAZEN? E’ una forma di meditazione che precede l’allenamento
delle arti marziali tradizionali e, al bisogno, precede anche la gara. La
traduzione, pur grossolana ma efficace, è “meditazione seduti”. Ci si trova in
ginocchio, seduti sui talloni, alluce del piede sinistro sopra l’alluce del piede
destro, braccia lungo il corpo con le mani sopra le cosce rivolte verso l’interno e con il palmo
verso il basso. Una variante è quella di unire le mani al centro, le dita tutte in contatto,
creando un piccolo ovale, pollici rivolti verso l’alto. Lo sguardo avanti, a terra, su di un punto
fisso invisibile posto a circa 1,5 metri davanti al viso. Durante lo Zazen si rimane
perfettamente immobili, ma questo non significa restare nel pensiero, anzi, i pensieri vanno
lasciati fluire, senza indugiare in nessuno di essi, tanto che l'essere immobili significa in realtà
non stare fermi, non indugiare in nulla. La tradizione dice che lo zazen è “pensare di non
pensare”. Si tratta di porre attenzione al momento presente in modo non giudicante. Diventare
consapevoli di se stessi e di ciò che si percepisce, senza critica né giudizio, permette di
controllare le emozioni, le sensazioni o i pensieri negativi. Qualora dovessero emergere
verranno presi per quello che sono, non eliminati, ma accettati senza perderci in essi, così da
imparare a controllare gli automatismi disfunzionali e non farsi prendere dall’ansia, dalla
rabbia e, conseguentemente, avere comportamenti nella vita o prestazioni agonistiche nello
sport non ottimali.
Ci addestriamo per la vita quotidiana. Durante un combattimento il nostro spirito non indugia
nei movimenti dell'avversario, si muove libero, è totalmente concentrato nel "qui ed ora",
completamente, momento dopo momento. Secondo la tradizione, “perseverando nello zazen
non sarà più necessario utilizzare una spada, un arco, le mani nude. Gli altri non oseranno
avvicinarsi. Non sarà necessario combattere. La vera via del “Budo” non è competizione né
conflitto. È al di là della vittoria o della sconfitta. Il segreto dell’arte della spada consiste nel
non sguainarla. Non bisogna estrarre la spada, poiché chi desidera uccidere deve prima
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morire. Bisogna uccidere se stessi, solo allora gli altri avranno paura e non oseranno neppure
avvicinarsi a voi”.
Lo zazen è analogo alla meditazione mindfulness introdotta in occidente da Jon Kabat-Zinn,
normalmente non praticata seduti sui talloni ma distesi supini a terra, oppure nella tradizionale
posizione definita “del cocchiere”.
Riassumendo, lo zazen, come la meditazione mindfulness:
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È una tecnica per promuovere il benessere personale nello sport e nella vita
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È per tutti. Chiunque ne può trarre beneficio
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Non è una tecnica di rilassamento
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Non è una terapia
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Non rappresenta nessuna religione
1.1 cosa resta di “tradizionale” nelle arti marziali giapponesi, in particolare nel karate
È facile comprendere che è complicato mutuare esattamente questo tipo di cultura nello sport
moderno, soprattutto in un’ottica occidentale. Come può la nostra cultura assimilare la
tradizione millenaria giapponese, quella filosofia di vita, quel codice, quei valori?
Riteniamo comunque che si possa fare di più per salvaguardare la splendida tradizione di
cultura e di valori tipica delle arti marziali tradizionali giapponesi.
In questo paragrafo esamineremo alcuni aspetti esistenti riguardo l’arte marziale sportivo
agonistica occidentale rispetto alle tradizioni orientali.
Facciamo riferimento al solo karate sportivo, che unisce nelle competizioni tutti gli stili
moderni, finalizzandoli però alla sola competizione agonistica.
In alcune palestre italiane la visione sportiva è esasperata al punto che il tempo impiegato per
la parte atletica e tecnica è quasi totale, relegando la tradizione, la cultura ed i valori propri
dell’arte marziale in un ambito residuale. Questo avviene in ogni fase della sessione di
allenamento e nel complesso delle attività svolte dalla dirigenza tecnica dei corsi.
In molte palestre, l’allenamento non è preceduto dal saluto tradizionale, malgrado il primo dei
venti principi del karate, secondo Gichin Funakoshi è: “non dimenticare che il Karate do
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comincia e finisce con il saluto (rey)”. Si tratta di un rituale tradizionale della durata di meno
di un minuto che culmina con un inchino, pronunciando la parola “rey”. Il saluto non è una
Funakoshi, G., i 20 principi del karatè
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formalità, è rispetto verso gli altri, nei confronti del Maestro e verso se stessi; un sincero
sentimento di stima esternato da un vero e proprio rituale. Sempre Funakoshi: “Senza rey c’è
disordine”. “La differenza tra gli uomini e gli animali sta nel rey”.
Nella tradizione giapponese, al saluto succede poi qualche minuto di meditazione (zazen) che,
nelle italiche palestre è completamente sparito da tempo.
Il principio numero due del karate è: “nel karate non esiste iniziativa”. Mani e piedi dell’uomo
possono essere armi mortali e, pertanto, un’arte marziale dovrebbe fermare lo scontro sul
nascere. L’intero Budo si basa sul principio che non si deve mai colpire per primi. Tutte le
tecniche tradizionali del karate partono prima con una difesa e solo successivamente ci sarà
un contrattacco. Il principio marziale fondamentale evidenzia la necessità assoluta di un
contenimento dell’aggressività.
Malgrado questo, sono molte le palestre che, al contrario, favoriscono l’aggressività, per il
tramite dell’agonismo spinto, insegnando principalmente ad attaccare quando, invece, la
tradizione insegna a difendere. L’esasperato agonismo può facilmente portare allo
snaturamento della disciplina marziale ed avere risultati tutt’altro che educativi nel discente.
Forse non è nemmeno ragionevole trasformare in sportivo qualcosa che in origine non era
creato per questo scopo. i fondatori non avevano pensato la loro arte per un utilizzo sportivo
ma per cercare di restare in vita, per la difesa personale, per l’efficacia in combattimento.
I concetti di vittoria o sconfitta possono sostituire quelli di vita o di morte?
Togliere l’arte marziale dal contesto militare, per proiettarla a quello agonistico, comporta
necessariamente una modifica della didattica, prevedendo elementi di fisiologia che un tempo
erano assenti, elementi di psicologia dello sport che vanno ad integrare quelli già presenti e il
considerare i valori tradizionali come cultura di fondo e non sempre la sola cultura o quella
prevalente.
Siamo del parere che andrebbe sempre mantenuta la cornice tradizionale dell’arte marziale
per preservarne fascino e valori, tuttavia dobbiamo considerare che poi nelle gare i ragazzi
affronteranno avversari che, spesso, non sanno nemmeno che cosa sia il saluto e che non
conoscono i nomi delle tecniche che applicano, magari anche operate con discreta maestria.
Ciò che non dovrebbe mai mancare è il fine del perfezionamento dell’individuo, anche se
realizzato nella sola pratica sportiva.
Questo a volte è un punto debole del karate moderno, perché spesso le capacità agonistiche
dell’atleta non hanno nulla a che vedere con la qualità della persona, ovvero chi è forte
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