dell’esercizio della potestà genitoriale ordinaria, mentre l’altro assumeva un ruolo esterno e
marginale, con il forte rischio, specie nelle situazioni di perdurante conflittualità, di essere
progressivamente emarginato, fino alla totale estromissione dalla vita del figlio.
La nuova normativa, introducendo il principio-diritto della bigenitorialità, ha concretizzato
una rivoluzione copernicana nella disciplina dell’affidamento dei figli minori a seguito della
disgregazione del nucleo familiare.
La bigenitorialità rappresenta, infatti, non solo la situazione ottimale per il figlio, cui è
riconosciuto il diritto fondamentale a mantenere un rapporto stabile e continuativo con
entrambi i genitori, ma anche per gli stessi genitori poiché non lascia quello “vincitore”
nella battaglia per l’affidamento nella difficile condizione data da un eccessivo carico di
responsabilità, ed evita all’altro tutta la sofferenza e la rabbia che derivano dal sentirsi
ingiustamente allontanato dai propri figli
4
.
Nelle pagine che seguiranno, dopo aver tentato di inquadrare storicamente le discipline che
si sono succedute nel tempo in materia di affidamento dei figli minori, si cercherà di
svolgere un’analisi dei contenuti della nuova normativa, valutare in che modo questa sia
penetrata nel tessuto sociale, esaminare a che livello sia stata recepita dalle Corti di merito,
tracciare, insomma, un primo bilancio circa l’adeguatezza della nuova disciplina alla
realizzazione e alla tutela dell’interesse del minore, il soggetto sicuramente più vulnerabile e
coinvolto dal punto di vista psicologico ed emotivo. Ma soprattutto, l’attenzione verrà
concentrata su come l’affidamento esclusivo, ipotesi regolare prima della riforma del 2006,
sia stato retrocesso dalla nuova disciplina ad ipotesi meramente residuale, attuabile solo nei
casi in cui l’affido condiviso sia in palese contrasto con il supremo interesse della prole
minorenne.
A ciò si aggiungerà un’attenta disamina di quelli che sono considerati dalla giurisprudenza i
presupposti idonei a legittimare un provvedimento di affido esclusivo, senza tralasciare
l’acceso dibattito dottrinale circa la spettanza della titolarità e dell’esercizio della potestà
genitoriale nelle varie forme di affidamento.
4
De filippis, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, II ed., Padova, 2007.
CAPITOLO I
L’AFFIDAMENTO DEI FIGLI: DALLA PREVIGENTE DISCIPLINA ALLA
LEGGE 8 FEBBRAIO 2006 N. 54.
1. L’art.155 c.c. nella vecchia formulazione: affido esclusivo e interesse della
prole.
Per comprendere al meglio la portata innovatrice della legge 8 febbraio 2006 n.54, è
necessario effettuare un accurato esame delle varie discipline che si sono succedute nel
tempo in materia di affidamento dei figli nelle ipotesi rottura del vincolo coniugale.
L’art.155 c.c., nell’originaria formulazione del codice del 1942, non dettava alcuna
disposizione in materia di affidamento della prole, limitandosi a statuire che il tribunale
indicasse quale dei coniugi dovesse tenere i figli presso di sé.
5
La prospettiva mutava radicalmente con l’entrata in vigore della legge di riforma del diritto
di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), che apportò rilevanti modifiche al libro I del
codice civile. L’art.155 comma 1 c.c., come riformato, prevedeva che al giudice, in primo
luogo, spettasse il compito di stabilire a quale dei coniugi i figli dovessero essere affidati; in
secondo luogo avrebbe dovuto adottare tutti i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale di essa.
Dall’attento esame della norma molti erano gli aspetti che catturavano l’attenzione
dell’interprete: appariva, infatti, esplicita la scelta effettuata dal legislatore della l. 151/1975
di sancire la regola dell’affido esclusivo, cioè dell’affidamento della prole ad uno solo dei
genitori. Scelta chiaramente confermata dall’esame del comma 2 dell’art.155, che attribuiva
al giudice il compito di stabilire misure e modo con cui l’altro coniuge, il non affidatario,
avrebbe dovuto contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione della prole.
Disposizione che richiamava l’art.147 c.c.
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ed estendeva, quindi, questi doveri genitoriali
anche alla fase patologica del menage familiare.
La scelta del legislatore di introdurre nell’art. 155 c.c. il modello dell’affidamento esclusivo
trovava ulteriore conferma nel testo del comma 3 dello stesso articolo, che distingueva i
diritti e gli obblighi spettanti al genitore affidatario da quelli a carico del non affidatario: la
5
Art. 155, comma 1, c.c 1942: “Il tribunale che pronunzia la separazione dichiara quale dei coniugi deve tenere presso
di se i figli e provvedere al loro mantenimento, alla loro educazione e istruzione”.
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“Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle
capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.
potestà continuava a spettare ad entrambi, ma l’esercizio della stessa, salva diversa
disposizione del giudice
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, veniva attribuito al solo genitore affidatario.
Quindi, mentre nella famiglia unita la potestà veniva esercitata di comune accordo da
ambedue genitori (art.316 comma 2 c.c.), in caso di separazione l’esercizio spettava
esclusivamente al genitore affidatario. Questa norma si poteva ricavare anche dall’art. 317
c.c., ai sensi del quale “la potestà comune dei genitori non cessa quando, a seguito di
separazione, scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio i
figli vengano affidati ad uno di essi. L’esercizio della potestà è regolato, in tali casi, secondo
quanto disposto nell’art. 155 c.c.”.
L’esercizio esclusivo della potestà in capo al genitore affidatario incontrava, tuttavia, un
limite: esso gli era attribuito soltanto in merito alle decisioni di ordinaria amministrazione in
campo personale e patrimoniale; le “decisioni di maggiore interesse” per i figli dovevano,
invece, essere assunte di comune accordo. Il genitore affidatario compiva da solo le scelte
concernenti la cura, l’assistenza e l’educazione quotidiane della prole (sotto la vigilanza del
genitore non affidatario), concordando con quest’ultimo quelle di maggiore interesse.
Nell’ambito di queste rientravano tutte quelle decisioni che rivestivano un significato
primario nella vita dei figli, come l’impartire a questi un tipo di educazione laica o religiosa,
il sottoporli ad eventuali trattamenti sanitari, la scelta del tipo di studi che avrebbero dovuto
seguire.
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Il genitore non affidatario poteva essere escluso anche da queste ultime solo dopo
aver compiuto abusi tali da giustificare la decadenza dalla potestà ex art. 330 c.c.
Inoltre, al non affidatario spettava il diritto ed il dovere di vigilare sull’istruzione e
sull’educazione dei figli, potendo ricorrere al giudice qualora fossero state assunte dall’altro
coniuge decisioni ritenute contrarie al loro interesse. Quindi, gli obblighi educativi
permanevano, seppure con modalità diverse, anche a carico del genitore non affidatario, al
quale però, perché fosse in grado di adempiere agli stessi, doveva essere garantito il diritto
di visita.
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Tuttavia, il riferimento al c. d. diritto di visita del genitore non affidatario appariva
improprio, sia perché la locuzione non era neppure contenuta nella norma, sia perché
sembrava eccessivamente riduttivo ricondurre quel fondamentale diritto-dovere di vigilanza
ad un concetto così limitato.
7
Secondo alcuni autori, già prima dell’attuale riforma questa clausola consentiva al giudice di adottare in tema di
affidamento i provvedimenti in grado di attuare un esercizio condiviso della potestà, dando applicazione al diritto alla
bigenitorialità.
8
Pret. Verona, 12 ottobre 1985, in Foro. it., 1986, I, 2042.
9
Cass., 20 gennaio 1978, n.259, in Foro it, 1978, I, 2028: “Se come sopra si è detto il coniuge non affidatario conserva
il diritto ed il dovere di vigilare e di collaborare allo sviluppo psicofisico del figlio, il giudice, pur avendo in materia un
poter discrezionale, non può dare disposizioni che, rendendo estremamente difficili gli incontri fra genitore e figlio,
impediscano in concreto l’esercizio di tale diritto-dovere”.
La posizione giuridica soggettiva del genitore non affidatario consisteva in un insieme di
facoltà, quale, appunto, quella di visita, che assumevano significato “solo se inserite in un
più ampio contesto di responsabilizzazione”.
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La “facoltà di visita” si delineava, dunque, come un importante strumento di tutela, sia a
vantaggio dei figli minori, che avrebbero potuto continuare a coltivare i rapporti con il
genitore non affidatario, sia a tutela del genitore stesso che, esercitandolo correttamente e
costantemente, non avrebbe visto la propria figura relegata, agli occhi dei figli, ad un ruolo
meramente marginale. Per realizzare le finalità indicate si affermava che il giudice non
potesse dettare disposizioni che rendessero particolarmente difficili gli incontri tra genitore
e figli.
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Secondo la giurisprudenza maggioritaria, solo in ipotesi eccezionali sarebbe stato possibile
limitare la facoltà di visita, e solo nei casi più gravi escluderla: si ricordi ad esempio una
decisione dei giudici del merito romani, con la quale la facoltà di visita era stata subordinata
al desiderio del figlio di vedere il genitore, nonché al consenso del genitore affidatario.
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Altra pronuncia aveva temporaneamente escluso la suddetta facoltà in quanto si riteneva che
gli incontri del minore con il genitore non affidatario avrebbero potuto comportare, per il
primo, seri pregiudizi al suo sviluppo psicofisico.
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Nel caso di specie, la corte, tenendo
presente il criterio dell’esclusivo interesse dei minori, e fornendo ampia e puntuale
motivazione, aveva ritenuto che, in via provvisoria, e cioè fino a quando non si fosse
verificato un cambiamento dell’atteggiamento del padre, gli incontri con i figli sarebbero
dovuti avvenire con particolari cautele.
Generalmente i tribunali non si limitavano a concedere al genitore non affidatario la facoltà
di visita, ma gli riconoscevano il diritto di tenere il figlio con sé ed accudirlo per determinati
periodi dell’anno (vacanze estive, natalizie, pasquali).
In conclusione, merita un cenno, ad avviso di chi scrive, una condivisibile pronuncia di
merito
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, confermata in sede di legittimità
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, che attribuiva la facoltà di visita anche ai nonni
del minore, e che vedeva, per la prima volta, affermarsi nel nostro ordinamento la tutela di
una famiglia “allargata”.
10
Zanetti Vitali, La separazione personale dei coniugi (artt. 150-158) ne Il codice civile. Commentario, diretto da
Schlesinger, Milano, 2006, 245.
11
Cass., 20 gennaio 1978, n. 259, cit.
12
App. Roma, 27 febbraio 1995, in Dir. fam., 1995, 1450.
13
Cass., 12 luglio 1994, n. 6548, in Dir. fam., 1995, 129.
14
Trib. Napoli, 18 giugno 1990, in Giur. merito, 1991, I, 15.
15
Cass., 25 settembre 1998, n. 9606, in Fam. e dir., 1999, 17.