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Capitolo III
Carcerazione e dinamiche familiari: l’importanza delle
relazioni affettive.
Nei capitoli precedenti mi sono limitata a delineare quei processi
storici e giuridici che ci hanno condotti alla disciplina odierna e ad
esaminare le linee generali della normativa vigente.
Descritto il panorama in cui il giurista si trova ad operare ed il
detenuto a “vivere”, ritengo sia necessario soffermarsi e trattare dei
vari tentativi di riforma che si sono succeduti nel corso
dell’evoluzione storica; parallelamente cercherò di far luce sui
bisogni sottesi a ciascun intervento e sulle ragioni che indussero a
ritenere che potesse essere prematura l’introduzione di strumenti
che meglio favorissero i contatti, anche fisici, con i propri familiari.
Dedicherò la parte restante del mio elaborato alla disamina degli
effetti che la carcerazione ha sui detenuti e sui familiari, cercando di
provare che la privazione delle relazioni affettive è causa, in una
elevatissima percentuale di casi, di disturbi disadattivi che
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certamente ostano alla rieducazione e al reinserimento nella società
libera.
La carcerazione è intesa come “una minaccia per gli scopi di vita
dell’individuo, per il suo sistema difensivo, per la sua autostima ed
il suo senso di sicurezza”.
104
Assunta questa consapevolezza,
ritengo che sia doveroso procedere al riconoscimento di un vero e
proprio diritto all’affettività ed alla sessualità, dei quali, oggi, è
innegabile l’esigenza; consci della rilevanza che ha la
conservazione di relazioni affettive e, soprattutto, dell’importanza
che avrebbe anche il mantenimento di contatti fisici, non si può che
procedere al riconoscimento di più ampi spazi di libertà.
104
A.H. MASLOW, Deprivation, Threat and Frustration, in T.M. NEWCOMBLE
E.L. HARTEY, Readings in Social Psychology, New York, Henry Holt & Co., 1947;
Cit. in Emilio SANTORO, Carcere e società liberale. Giappichelli. Torino, 1997.
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§3.1 Gli effetti e le conseguenze della detenzione sui soggetti
ristretti e sulle dinamiche familiari.
Tratterò nelle pagine che seguono degli effetti negativi della
detenzione, che sarebbe possibile attenuate se solo fosse
riconosciuta una maggiore attenzione e si mostrasse una migliore
sensibilità al mantenimento di vive relazioni ed alla cura dei contatti
fra il detenuto ed i suoi affetti.
Ritengo sia necessario trattare delle “istituzioni totali” e degli
aspetti patogeni connessi e derivanti dalle stesse, fra i quali va
ricompresa, la sindrome di prigionizzazione, come fenomeno
possibilmente e potenzialmente evitabile, essendo determinato da
tutta una serie di fattori la cui “influenza è sufficiente per rendere
un uomo membro caratteristico della comunità penale e
probabilmente per distruggere la sua personalità in modo tale da
rendere impossibile un successivo felice adattamento ad ogni altra
comunità”.
105
Inoltre, accennerò ad ulteriori disturbi, ormai
effettivamente riconosciuti in ambito medico-penitenziario,
connessi e derivanti dalla restrizione nello spazio circoscritto di una
105
Donald CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher
Publishing House, 1941. Tr.it. Emilio SANTORO, Carcere e società liberale.
Giappichelli. Torino, 1997.
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istituzione comunitaria chiusa, intendo riferirmi, nel dettaglio, alla
sindrome da ingresso in carcere e di vertigine all’uscita, come
momenti connessi, rispettivamente, all’allontanamento dal nucleo
familiare e alla possibilità di una imminente reimmissione nella
comunità sociale e familiare dalla quale si è stati allontanati.
106
106
G.C. NIVOLI, M.N. SANNA, L. LORETTU, Aspetti clinici e medico legali in
psichiatria penitenziaria, a cura di Vittorio VOLTERRA in Trattato italiano di
Psichiatria, Giovanni Battista CASSANO e Paolo PANCHERI. Masson, 2002.
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§3.1.1 (Segue) Le istituzioni totali: comunità inglobanti e
permanenti. Gli elementi patogeni.
Gran parte dei disturbi disadattivi, conseguenti alla carcerazione,
soprattutto se di non breve durata, sono riconducibili al carattere
inglobante e permanente delle carceri, in quanto “istituzioni totali
chiuse”. La paternità della espressione viene riconosciuta allo
studioso canadese Erving Goffman, il quale mosso dall’intento di
comprendere il perché, spesso, la carcerazione non riesca a
soddisfare gli scopi cui la stessa è preposta, rieducazione e
risocializzazione, finì con l’esaminare le criticità comuni ad ogni
struttura penitenziaria e le insufficienze che emergono nei percorsi
di istituzionalizzazione degli internati.
Un’istituzione totale può definirsi, per lo studioso, come “il luogo
di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori
dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a
dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in
un regime chiuso e formalmente amministrato”.
107
Per comprende gli effetti patogeni, o meglio desocializzanti, ritengo
possa essere di aiuto quanto lo stesso autore ha scritto in materia.
107
Erving GOFFMAN, Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e
della violenza. Edizioni di Comunità. Torino, 2001.
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Egli ritiene che “uno degli assetti sociali fondamentali della società
moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in
luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza
alcuno schema razionale di carattere globale. Caratteristica
principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la
rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di
vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo
e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività
giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di
persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le
medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono
rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta
dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto
dall’alto da un sistema di regole formali esplicite e da un corpo di
addetti alla loro esecuzione.”
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E’ evidente che le istituzioni totali, così come descritte dallo
studioso, incidano notevolmente sui ritmi della quotidianità stessa,
ne discende una diversa percezione del tempo, notevolmente
dilatato. In questo panorama, caratterizzato da una sostanziale
lentezza e monotonia, l’attesa dei colloqui, dell’incontro con i
108
Ivi.
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propri cari, genera ansie, emozioni e non poche aspettative, le
settimane sono spesso interamente proiettate e vissute in attesa di
quelle poche ore trascorse in serenità.
Sembrerebbe, allora, che l’intenzione dello studioso sia quella di
evidenziare come questa sorta di stereotipizzazione imposta
produca effetti desocializzanti e generi evidenti conseguenze
patogene. In altri termini, è dalla stessa che derivano i principali
disturbi disadattivi evidenziati. Se, quindi, all’interno delle
istituzioni totali la rieducazione e la risocializzazione si presentano
come prospettiva utopica, poiché la desocializzazione sembrerebbe
la prima ed immediata conseguenza generata, favorire
l’integrazione ed intervenire incrementando gli stimoli affettivi
provenienti dall’esterno sembrerebbe l’unica alternativa in grado di
correggere le conseguenze dannose ed ovviare all’afflittività della
detenzione.
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§3.1.2 (Segue) Sindrome da prigionizzazione.
Lo sradicamento dal contesto sociale e familiare in cui si è
stabilmente inseriti, la lontananza dagli affetti, la perdita della
genitorialità e l’impossibilità di amare unitamente ad un desiderio
sessuale nascosto e represso, non vi è dubbio, sono gli aspetti più
dolorosi della detenzione. Vi è di più. L’essere costretti ad
abbandonare i propri progetti di vita futuri e quelli in corso di
esecuzione, ad allontanarsi dalla propria abitazione, dai propri cari e
dal proprio luogo di lavoro per essere immersi con forza in una
comunità chiusa, quale è quella carceraria, sono tutti elementi atti
ad avviare ad una “progressiva disorganizzazione della
personalità”;
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la successiva riorganizzazione ed il conseguente
adattamento alla vita ed all’ambiente intramurario determinano
quello che taluni studiosi sono soliti definire “processo di
prigionizzazione”.
110
L’espressione venne coniata dallo studioso
Donald Clemmer che, per indicare e chiarire, come a seguito di un
lento e graduale processo di adattamento alla vita carceraria ed agli
elementi che lo circondano, il detenuto finisse per identificarsi con
109
Carlotta BARGIACCHI, Esecuzione della pena e relazioni familiari. Aspetti
giuridici e sociologici in http://www.altrodiritto.unifi.it
110
Donald CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher
Publishing House, 1941. Tr.it. Emilio SANTORO, Carcere e società liberale.
Giappichelli. Torino, 1997.
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l’ambiente, le abitudini e la subcultura propria della comunità
carceraria in cui risiede. Lo studioso individua tutta una serie ben
definita di fattori che sono in grado di favorire un più o meno alto
grado di prigionizzazione. Ritengo possa essere interessante
riportare la classificazione, in sette punti, elaborata dallo stesso, dei
fattori che, egli ritiene, possano concorrere alla determinazione di
un più o meno basso grado di prigionizzazione. Nel dettaglio, si
reputano rilevanti:
1. Una condanna di breve durata ed il mantenimento di
prospettive di vita future;
2. Una personalità decisamente stabile;
3. Il mantenimento di solide relazioni con i propri familiari e
con persone estranee all’ambiente carcerario;
4. L’incapacità ed il fermo rifiuto di integrazione;
5. La non accettazione dei dogmi e dei codici vigenti nella
subcultura carceraria;
6. Il collocamento e la condivisione della propria cella con un
compagno che non si sia, anch’egli, completamente
omologato all’ambiente carcerario;
7. L’astensione da comportamenti sessuali anormali.