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INTRODUZIONE
L’idea di questo elaborato nasce da un’esperienza di pratica clinica in Istituzione, presso una
comunità terapeutica riabilitativa con sede a Cuggiono (Milano), che ho avuto modo di iniziare e
portare avanti a partire dal primo anno di studi all’Istituto freudiano e che a oggi è terminata.
Ho sentito quasi l’urgenza di interrogarmi sul lavoro svolto in questi miei primi anni di pra-
tica clinica, per trarne un insegnamento, integrando così la pratica con la teoria clinica studiata pa-
rallelamente all’Istituto freudiano. Senza una teoria che la supporti e che metta in logica gli inter-
venti clinici la pratica è a mio parere inconsistente; per questo motivo ho voluto operare un'attenta
riflessione, a partire dall’esperienza di lavoro, nell'intento di integrarla con le conoscenze che anda-
vo acquisendo sulla teoria di Lacan.
Lavorare in comunità con il ruolo di “operatrice socio sanitaria con funzioni educative” po-
trebbe però sembrare quanto di più lontano dalla clinica, in particolare da quella lacaniana. Tuttavia
questa “etichetta”, che viene attribuita da un contratto, identifica un ruolo puramente immaginario:
nel lavoro in Antenna, infatti, c’è ben altro.
La struttura Antenna Beolchi nasce dall’intento della cooperativa Artelier di fare della clini-
ca nel sociale, secondo l’orientamento di Freud e di Lacan. Si tratta di una vera e propria sfida, poi-
ché avviene in una struttura che non è libera di operare secondo i propri principi, perché vincolata
da rigidi parametri standard, imposti dalla ASL, da cui è sovvenzionata.
Durante il terzo anno di tirocinio ho avuto anche l’occasione, offertami dalla stessa coopera-
tiva, di fare un’esperienza di stage presso l’Antenne 110 di Genval (Bruxelles), di cui parlerò nel
primo capitolo della tesi. L'esperienza belga mi ha permesso di conoscere una realtà di cui tanto a-
vevo sentito parlare e avevo letto, come eccellenza nella pratica clinica con il bambino psicotico e
autistico. Ho avuto modo così di confrontare le due diverse realtà (quella italiana, di mia diretta e-
sperienza, e quella belga) rendendomi conto della profonda differenza tra le due, non solo per di ti-
po di utenza (adolescenti versus bambini, psicotici versus autistici), ma soprattutto per la libertà che
si ha nel lavoro. A Bruxelles, infatti, la gestione della casa è completamente autonoma: non vi è per-
tanto un dominus cui sottostare, come invece accade nel caso della ASL a Cuggiono.
Fare della clinica in una realtà italiana legata alla sanità è perciò una grande sfida: bisogna
sempre e prudentemente operare in equilibrio tra le richieste istituzionali e le proprie convinzioni
teoriche. Questo rende ancora più arduo un compito che di per sé è già difficile, in relazione alla
particolare utenza, con cui si ha a che fare.
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In questi anni la difficoltà maggiore è stata non tanto quella di avere a che fare con adole-
scenti psicotici gravi, lavoro per il quale sono stata sostenuta dai miei studi e dalla mia analisi,
quanto il rapporto con le “gerarchie” e con il lavoro d’équipe non sempre semplice.
È risultato difficile districarsi tra l'essere soli con il proprio corpo durante un turno di lavoro,
mentre dall’altra doversi confrontare e rendere conto a un’équipe, nell'adempimento a degli stan-
dard che vengono richiesti.
Il lavoro in équipe e, per quanto possibile, à plusieurs (pratica che tratto in modo specifico
nel primo capitolo) mi ha visto in difficoltà, dal momento che la formazione della maggior parte dei
miei colleghi era diversa dalla mia
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. Spesso mi sono trovata così a fare degli interventi, che traevano
ispirazione dalle mie conoscenze cliniche e dal confronto costante nell’ambito dell’Istituto, piutto-
sto che dal lavoro di équipe, che troppo spesso si riduce a essere prettamente organizzativo.
Nonostante tutto, però, l’équipe è stata in grado di fare grandi passi in avanti ed è cresciuta,
dovendosi confrontare con una neuropsichiatra di orientamento direttivo, convinta nell'applicare la
logica del premio/punizione. Tale logica, da alcuni colleghi in un primo tempo appoggiata e tentata,
poiché appare semplice e difende dall’angoscia, non ha portato a risultati soddisfacenti e l’équipe ha
allora compreso che non poteva essere di alcuna efficacia in Antenna. A poco a poco, allora, anche
con il mio contributo operativo che era esemplificativo per gli altri colleghi, abbiamo iniziato a pen-
sare a delle invenzioni creative, ogni volta diverse per ciascuno dei nostri utenti, che hanno permes-
so il crearsi di un’atmosfera più serena e meno angosciante. Si è constatato così come la serenità
degli operatori creasse un’atmosfera pacificante per gli ospiti stessi. Al contrario, il periodo peggio-
re per ospiti e per operatori era stato quello in cui le regole di una rigida normativa avevano inne-
scato negli ospiti timore e sentimento di persecuzione in relazione agli operatori, angosciati e nel
panico anch’essi.
Nel primo capitolo tratto della pratique à plusieurs, un’invenzione clinica piuttosto recente
che nasce a Bruxelles all’interno dell’Istituzione clinica cui accennavo, guidata da Antonio Di Ciac-
cia e poi giunta anche in Italia nelle Istituzioni legate al Campo Freudiano. Spiegherò come un tale
orientamento, che si discosta dal setting classico anche solo per la presenza di più soggetti-partner
in relazione con lo psicotico, possa giovare all’interno di un’Istituzione.
Nel secondo capitolo la mia attenzione si focalizza sull’Istituzione Antenna Beolchi, con la
sua specificità di trattare adolescenti psicotici gravi, e dei modi che sono stati trovati dagli operatori,
in questi anni di lavoro, per affrontare una realtà pulsionale così complessa. L’adolescente, infatti,
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Non sempre infatti sono stata in grado di “contagiarli” con quelle istanze teoriche correlate ai miei studi e alla mia
conoscenza di Lacan.
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pone alcune problematiche date di per sé dal periodo della vita che si trova ad affrontare, non tanto
nell’ottica evolutiva del raggiungimento di tappe e di svolgimento di compiti, quanto piuttosto per il
reale pulsionale che, per tutti, costituisce un problema con la pubertà. La trasformazione del corpo e
del ruolo sociale fa enigma e pone a ciascuno delle problematiche, che sono amplificate nel caso di
una struttura psicotica che può vedere proprio in quel periodo l’esordio della sua psicosi
1
.
Nel terzo capitolo ho ritenuto opportuno passare in rassegna testi e conferenze, nei quali La-
can getta le basi del suo pensiero intorno alla psicosi. Rispetto a Freud, la particolarità di Lacan ri-
siede nel fatto che egli, con la sua tesi di dottorato sulla paranoia, prende l'avvio proprio da questa, e
solo successivamente elaborerà una teoria sulla nevrosi. Trae dunque insegnamento dalla psicosi,
con una teoria che si evolve e si trasforma, come credo di poter mostrare nella rassegna cronologica
dei suoi maggiori testi sull'argomento, nei quali si compie un percorso che va “dal Nome del Padre
alla forclusione generalizzata”.
Il quarto capitolo tratta dello strumento principe, la componente “riabilitativa” della struttu-
ra, che comprende gli atelier, piuttosto che la psicoterapia. Si parla degli atelier quale strumento
nella pratica clinica con lo psicotico e dei suoi vantaggi rispetto al setting classico. Quello sugli ate-
lier è il capitolo in cui cerco di dare testimonianza di una pratica recente, della quale ancora non si
dispone di una vasta bibliografia. Quello relativo agli atelier è infatti ancora un lavoro pionieristico,
al quale sono in pochi a fare riferimento, trattandosi perlopiù di casi istituzionali da analizzare uno
per uno, nell'intento di coglierne la singolarità.
Infine, l’ultimo capitolo è il caso clinico che ho denominato “Perla”, una ragazzina che or-
mai da due anni vive in comunità, una schizofrenica molto grave che a partire dal menarca inizia
una costruzione delirante attorno al suo essere donna e avere le mestruazioni. Il caso è un esempio
delle costruzioni deliranti o immaginarie che ogni giorno trova, che inventa per far fronte a un reale
del suo corpo e una realtà familiare da cui è rinchiusa nel ruolo di eterna “bambina”.
1
Il caso clinico che illustro nel quinto capitolo ne dà un’esemplificazione.
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I. TRA GENVAL E CUGGIONO:
LA PRATIQUE À PLUSIEURS IN ISTITUZIONE
Quelle joie trouvons-nous dans notre travail ?
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1. Origini di una pratica
Jacques Alain Miller nel 1992 definisce pratique à plusieurs o clinique à plusieurs il“lavoro
à plusieurs”, una pratica inventata da Antonio Di Ciaccia nel 1974. In quest’anno Di Ciaccia fonda
l’Antenne 110, istituzione belga per bambini autistici e psicotici gravi, pensata in modo da risponde-
re alla loro struttura clinica, secondo l’insegnamento di Freud e di Lacan. Di Ciaccia nota che i
bambini cosiddetti psicotici si rivolgono più facilmente non alle persone deputate a occuparsi e pre-
occuparsi per loro, ma alle figure più marginali dei luoghi di cura: donne delle pulizie, cuoche, e
tutti coloro che non sono implicati nel lavoro clinico ma deputati ai bisogni primari dei bambini. Da
qui l’intuizione che lo psicotico cerchi un partner che non si occupi di lui in modo diretto, e che non
sia nei suoi confronti in posizione di sapere. Il reclutamento degli operatori dell'Istituzione non av-
viene poi sulla base di titoli e di ruoli ma anzi è addirittura avvantaggiato chi è privo di conoscenze
psicologiche o psicoanalitiche. Un requisito ottimo è quello di avere bisogno di uno stipendio, la
qualcosa significa non avere un interesse diretto per i soggetti.
Secondo questa impostazione, perciò, per lavorare con loro non è necessario un proprio sa-
pere, ma al contrario il desiderio di imparare qualcosa sulla psicosi. Diversamente da quello che ac-
cade nel setting classico del colloquio con un terapeuta, “l’appuntamento ce lo danno loro e non vi-
ceversa”
2
. Per lavorare con questi soggetti non è poi necessario neppure essere in analisi.
Il nome Antenne verrà dato, anche in Italia, alle successive istituzioni, che si occuperanno di
questo tipo di soggetti, anche adolescenti
3
. Assieme a Stevens, fondatore di Le Courtil (altra istitu-
zione belga), Di Ciaccia creerà poi R13, il Résseau International d’Istitutions Infantiles, una rete di
istituzioni simili in Europa, ma anche in Argentina e in Israele. Le testimonianze di questa rete si
trovano nelle riviste del Campo Freudiano
4
.
Questa nuova pratica à plusieurs ha la caratteristica di nascere dalla psicoanalisi,
l’insegnamento di Freud e Lacan la fondano e orientano, pur non utilizzando il dispositivo analitico
nella sua versione classica. Può essere definita una tra le tante forme della cosiddetta “psicoanalisi
1
Rouillon J-P, L’enfants et ses joues, 1998.
2
Baio, V., La funzione degli educatori all’Antenna, in “Qualcosa da dire” al bambino autistico, Borla, Roma 2011,
pp.91-92.
3
Si veda il secondo capitolo che tratta dell’Antenna Beolchi di Cuggiono (Milano).
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Lacan fonda il Campo Freudiano per raccogliere coloro che, anche se non membri della Scuola, lavoravano nel campo
della salute mentale.
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applicata”. Le strutture che lavorano fondandosi su questa pratica vengono definite da Di Ciaccia
«luoghi di vita»
1
aventi come caratteristica, per l’appunto, un’atmosfera vivibile per questi soggetti.
Utilizzare questa pratica e questo orientamento, è una vera e propria scelta logica che deriva da
un’esigenza clinica precisa: il soggetto psicotico ha una relazione del tutto particolare con l’Altro
(significante), con l’altro (immaginario) e con l’oggetto.
2
L’assunto di base da cui Di Ciaccia parte per sviluppare la logica del suo metodo di lavoro è
che “nessun soggetto può esistere senza l’Altro”, che nella teoria psicoanalitica di Freud e di Lacan
costituisce la definizione stessa di soggetto
3
.
Scrive Egge che “ogni bambino, alla nascita, si situa come oggetto delle cure materne. Se
questa è la sua posizione iniziale rispetto all’Altro, sarà necessario un percorso segnato da tappe
cruciali e ineludibili per raggiungere lo statuto di soggetto”. Prosegue poi dicendo che “i bambini
che stiamo trattando hanno trovato lungo questo percorso un inciampo, un ostacolo insormontabile.
Il blocco che li ha fermati nel loro divenire si riferisce al loro vissuto rispetto al rapporto con
l’Altro, costituito dapprima dalla madre e dal padre e successivamente, più in generale, dal mondo
esterno. Le psicosi infantili sono caratterizzate da una grande diffidenza verso il mondo esterno”
4
.
È questa la ragione per cui spesso i problemi di questi soggetti sono relativi alla socializza-
zione e al rapporto coi familiari, perché non si fidano dell’Altro, da cui sentono di doversi difende-
re. Senza questa fiducia e con questo sentimento di minaccia come possono sottostare a tutte quelle
leggi che comportano una rinuncia pulsionale e regolano al tempo stesso la convivenza civile?
Com'è possibile che apprendano dall’Altro o che siano educabili
5
?
Di Ciaccia identifica quattro assi nel lavoro à plusieurs:
I. Anzitutto si propone l’équipe. È proprio l’équipe infatti il soggetto che dirige la cura.
Essa si riunisce periodicamente per mettere insieme l’intervento del singolo operatore con la lettura
che di esso si fa assieme al resto dei membri.
L’atto dell’operatore è dunque orientato e non segue il libero arbitrio ma non è neppure la
semplice esecuzione di un comando. Questo atto implica sempre una responsabilità. Motore
dell’équipe è il transfert di lavoro tra tutti i membri, che concerne l’implicazione di ciascuno in re-
lazione a uno scopo comune.
La partnership di ogni membro dell’équipe implica poi la responsabilità di ciascuno, a pre-
scindere dai titoli professionali che si possiedono. Si vale qualcosa per il soggetto non a partire dal
1
Di Ciaccia, A., A proposito della pratica à plusieurs, in “Qualcosa da dire” al bambino autistico, cit., p. 77.
2
Parlerò diffusamente della psicosi nel terzo capitolo del presente elaborato.
3
Cfr. Egge M., La cura del bambino autistico, Astrolabio, Roma 2006, p. 89. M. Egge, neuropsichiatra infantile e psico-
analista, fu fondatore e direttore terapeutico dell’Antenna 112 e l’Antennina, centri residenziali e diurni a Venezia.
4
Egge M,. La cura del bambino autistico, cit., p. 89-90.
5
Cfr. Mangiarotti C., Il mondo visto attraverso una fessura, Quodlibet, Macerata 2012, p.11.
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proprio ruolo ma solo dalla propria posizione soggettiva, ove in gioco c’è il desiderio che avvenga
un incontro. Ciascuno è dunque interscambiabile, nessuno è indispensabile, affinché non ci si fissi
in un rapporto duale con lo psicotico che rischia di continuo di divenire l’oggetto di un Altro perse-
cutore.
II. La funzione della riunione di équipe è di essere il luogo in cui si parla del soggetto
non come oggetto, ma per farlo divenire effetto di un discorso. Ogni membro è chiamato a rilancia-
re il proprio desiderio di sapere, così che l’operatore si “smuove” di continuo dal sapere sul bambi-
no che crede di avere ottenuto, verso un sapere altro, mai acquisito in toto e sempre da verificare
continuamente, tramite il dialogo con gli altri membri dell’équipe, in cui ognuno confrontandosi
con gli altri può elaborare la strategia più adatta per accompagnare le costruzioni dei bambini.
Infine tutto quello che viene detto al di fuori di questo luogo non conta, perché solo in esso
la parola diviene atto in quanto inscritta in un dire responsabile. In équipe pertanto va elaborandosi
un sapere, non una chiacchiera di puro godimento.
L’équipe con il proprio “saper-non-sapere” offre poi un posto ai genitori. Se il genitore si
sente accolto come soggetto si fida e si appoggia all’Altro dell’équipe, condizione indispensabile
perché affidi il proprio figlio e si senta coinvolto in prima persona come partner. Solo se questo av-
viene i genitori possono arrivare a smarcarsi dalla posizione di coloro che tutto sanno sul figlio, per
far posto all’enunciazione del figlio, senza sapere in sua vece. Il genitore diviene allora un Altro re-
golato per il figlio e lascia spazio alla sua costruzione soggettiva. Solo a partire dal vuoto di sapere
dell’équipe e dei genitori il bambino può trovare un posto da cui inscrivere il proprio sapere.
Attraverso la pratica à plusieurs, dentro e fuori gli atelier, l’équipe si fa partner perché lo
psicotico si costruisca un partner-sinthomo che realizza a partire da tratti prelevati nella realtà dai
suoi partner reali e potrà fare a meno dell’Altro in carne e ossa, cui sostituirà un Altro alla sua por-
tata, da lui costruito con un bricolage e del quale potrà servirsi
1
.
III. Il direttore terapeutico non è colui che sa più degli altri o dirige la cura e gli operato-
ri, ma ha la funzione è di preservare un vuoto centrale di sapere (di cui si è parlato al punto prece-
dente): è proprio lui a garantire che sia mantenuto il vuoto di sapere come causa del desiderio per
ciascuno e il soggetto non divenga "oggetto" delle cure.
IV. Il riferimento teorico e clinico a Freud e Lacan non implica un sapere supposto, ma
un sapere esposto. La cura non si riduce assolutamente al solo lavoro di équipe, ammonisce Di
Ciaccia
2
, ma è un bricolage che permette al soggetto di dire "no" all’Altro del godimento e "sì"
all’Altro della catena significante, che gli fa posto, riconoscendolo come soggetto e dandogli così la
1
Egge M., La cura del bambino autistico, cit., p.152.
2
Di Ciaccia A., Una pratica al rovescio, in Autismo e psicosi infantile, Roma, Borla 2006, p. 41.