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dell’antropologia culturale mi sarebbe potuto servire per approfondire la questione e
per darle una prospettiva più ampia. Una delle convinzioni che mi hanno
accompagnato nella fase di ricerca e che ho appreso durante il corso dei miei studi è
stata quella relativa alla sterilità delle prese di posizione radicali, sul modello
favorevoli-contrari. Tali posizioni ideologiche mancano spesso della profondità
necessaria a comprendere la complessità delle dinamiche sociali e culturali e sono
facilmente strumentalizzabili da chi possiede i mezzi necessari a favorire il corso dei
propri interessi.
A quel punto, ho cominciato ad esplorare la gestione delle risorse idriche dal punto di
vista dei significati simbolici attribuiti all’acqua e delle forme di gestione
culturalmente determinate. Ho anche dovuto delimitare un campo di ricerca particolare
sul quale focalizzare la mia attenzione, e la scelta è ricaduta sugli interventi di
mutamento sociale pianificato per l’importanza che tale settore ha sempre avuto
nell’orientare le politiche internazionali di gestione delle risorse; nonché per le
importanti determinanti socio-culturali che lo sviluppo incontra quando tenta di
esportare i propri modelli presso realtà culturalmente molto diverse e variegate.
L’antropologia svolge un ruolo molto importante per svelare come il concetto stesso di
sviluppo sia una costruzione culturalmente e storicamente determinata; in questo senso
ritengo fondamentale sottolineare come le forme di rappresentazione proprie del
mondo dello sviluppo siano forme particolari la cui universalità e certezza è
quotidianamente messa in discussione in relazione alle problematiche contemporanee.
L’antropologia culturale può fornire un contributo prezioso anche grazie all’attenzione
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epistemologica che attribuisce allo studio dei contesti locali e ai processi di
cambiamento che vi si verificano. Può, in questa veste, agevolare la costruzione di
ponti concettuali e di modelli che studino, in modo olistico, le interazioni tra contesti
globali e contesti locali; può infine mettere in evidenza l’importanza dello studio del
particolare e della discontinuità nei processi di pianificazione.
Nel primo capitolo ho voluto presentare una breve introduzione al fine di spiegare
l’origine storica e culturale dello sviluppo; in seguito ho analizzato le forme
concettuali secondo cui lo sviluppo pianifica i propri interventi. Questa analisi vuole
mettere in luce come le pratiche discorsive dello sviluppo pensino i processi di
cambiamento sociale pianificato come se fossero dei processi lineari di trasferimento
di tecnologie e competenze, piuttosto che come contesti d’interazione sociale tra
gruppi sociali e forme di sapere culturalmente molto diverse tra loro. Inoltre, ho
dedicato un paragrafo all’analisi di Foucault in riferimento alle forme discorsive, intese
come rappresentazioni socialmente costruite che permettono di fondare delle comunità
di consenso. L’opera di Foucault è stata centrale nell’evoluzione concettuale della tesi
per l’attenzione che dedica allo studio delle discontinuità e delle relazioni di potere che
determinano la circolazione delle forme di sapere e conoscenza.
Nel secondo capitolo, ho introdotto le forme di conoscenza prodotte dall’antropologia
rurale in relazione alla gestione delle risorse idriche e alle rappresentazioni sociali e
simboliche legate all’acqua. In questo capitolo viene affermata l’importanza di
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concepire l’irrigazione come un processo d’interazione che implica l’organizzazione di
una serie di relazioni sociali determinanti per strutturare la vita dei gruppi. Ho, inoltre,
voluto approfondire la questione riguardante il rapporto tra contesti locali e contesti
esterni perché mi è parsa storicamente molto importante nel determinare la natura delle
forme di gestione delle risorse idriche.
Il terzo capitolo è volto ad approfondire le tematiche relative alla scarsità delle risorse
idriche, con particolare attenzione alle forme retoriche e all’impatto che queste
possono avere nel legittimare alcune soluzioni, piuttosto che altre, per far fronte ai
problemi di scarsità d’acqua. Questo capitolo mostra come la scarsità non possa essere
ridotta alle sue manifestazioni ambientali, pur così evidenti e drammatiche. E’ anche
importante guardare le manifestazioni dei fenomeni di scarsità alla luce dei fattori
relazionali, delle caratteristiche antropogeniche e delle modalità di rappresentazione
sociale.
La conclusione del capitolo vuole fornire un quadro generale delle principali forme
discorsive che animano il dibattito internazionale sulla scarsità d’acqua e intende
anche mostrare gli attori coinvolti nel dibattito e le implicazioni pratiche delle diverse
concezioni.
Il quarto e ultimo capitolo è dedicato all’esplorazione di una serie di casi etnografici
che esemplificano le dinamiche socio-culturali legate all’irrigazione e all’agricoltura. I
primi due paragrafi mostrano i processi d’interazione tra le forme di gestione
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burocratizzata dell’acqua e le forme di gestione locale, evidenziando in particolare il
ruolo determinante dei fattori d’identità culturale nella strutturazione degli esiti dei
progetti di sviluppo. Concepire i processi di sviluppo come contesti dinamici
d’interazione permette di rendere manifeste le forme di aggiustamento informale
attraverso cui i beneficiari adattano la realtà del progetto alla propria realtà quotidiana,
tali processi vengono solitamente oscurati dal mondo dello sviluppo.
La seconda parte del capitolo è dedicata allo sviluppo partecipativo e alla produzione
di forme di rappresentazione delle comunità locali che spesso contrastano con quelle
dei nativi. Le forme discorsive dello sviluppo tendono a rappresentare le comunità
locali come entità astoriche e statiche sulla base di teorie riduzionistiche dell’azione
collettiva che enfatizzano la cooperazione e il ruolo della solidarietà tradizionale.
Questo errore d’interpretazione determina conseguenze importanti che contraddicono
le finalità dello sviluppo partecipativo e ne compromettono l’utilità pratica. Il sostegno
esterno diventa un fattore che finisce spesso per accrescere il disequilibrio e le fonti di
conflittualità, reiterando le forme di esclusione e di disuguaglianza che i progetti
vorrebbero modificare.
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CAPITOLO PRIMO: LO SVILUPPO E LE SUE FORME
DISCORSIVE
1.1-UNA DEFINIZIONE DI SVILUPPO
Pochi concetti godono di un livello d’indeterminatezza e di ambiguità pari a quello che
caratterizza la nozione di sviluppo; questo termine è spesso sinonimo di qualcosa
d’intrinsecamente positivo e rappresenta una necessaria tensione al miglioramento
della vita sociale.
Con l’espressione “era dello sviluppo” mi riferirò al periodo corrispondente ai
cinquant’anni di storia seguenti la fine della seconda guerra mondiale (Rist, 1991).
In questo periodo, si assiste alla promozione di grandi programmi di mutamento
sociale pianificato, in primo luogo il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa
che aveva come duplice obiettivo politico quello di sottrarre l’Europa occidentale
all’influenza sovietica e di trovare un canale di riconversione per l’ immensa macchina
dell’economia di guerra americana; il successo del piano Marshall diede grande
impulso all’idea che lo sviluppo potesse essere pianificato e gestito in modo
centralizzato (G.Rist, 1991).
E’ questo il momento storico che vede la nascita delle più importanti istituzioni
internazionali: l’ONU e la Banca Mondiale chiamate a svolgere un ruolo fondamentale
nella promozione della pace e del progresso del pianeta. E’ in questo contesto che il 20
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gennaio del 1948 il presidente americano Truman, pronunciando il discorso sullo stato
dell’unione, inaugurò una nuova era per il mondo: “In quarto luogo dobbiamo lanciare
un nuovo programma che sia audace e che metta i vantaggi del nostro progresso
scientifico e industriale al servizio del miglioramento e della crescita delle regioni
sottosviluppate.” (H.S. Truman, Inaugural address, 20.1.1949, in Documents on
American Foreign Relations, Princeton University Press). A partire da quella data gran
parte del mondo venne definita nella retorica internazionale come “terzo mondo”, tale
definizione conteneva in sé l’idea che le popolazioni potessero essere ordinate in modo
gerarchico in relazione ad una linea evolutiva e lineare. La nuova forma retorica si
sovrappose ai modi in cui le popolazioni in questione erano solite definirsi in base ai
propri criteri identitari (etnico, tribale, religioso); la nascita del “sottosviluppo”
disconobbe le pecularietà delle popolazioni per riconoscerle nei termini di una stadio
incompiuto di un processo storico il cui apice è rappresentato dal mondo occidentale.
La condizione dei popoli accomunati nello sottosviluppo è definita esclusivamente in
termini di carenze : “…Il loro nutrimento è insoddisfacente. Sono vittime di malattie.
La loro vita economica è primitiva e stazionaria. La loro povertà costituisce un
handicap e una minaccia…” (Truman, 1949).
Tali caratteristiche sono considerate parte di uno stato naturale e la storia viene
volontariamente esiliata dall’impostazione del discorso dello sviluppo. Anzi le carenze
del “terzo mondo” rappresentano un pericolo e giustificano l’intervento di agenti
esterni per pianificare il cambiamento. Si crede, in modo riduttivo, che lo sviluppo
consista in un transfert di tecnologie e conoscenze proprie della modernità in contesti
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dominati dalla tradizione e dall’arretratezza. Da questa concezione deriva il forte
impulso missionario che connota lo sviluppo. Lo si considera, allo stesso tempo, come
un’opera di carità che l’Occidente modernizzato non può negare ai meno fortunati e
come una promessa, la cui realizzazione è ancora lontana ma che contiene in sé lo
spirito e l’idealità del progetto di modernizzazione del mondo (Rist, 1991).
Il mezzo per esercitare questo diritto-dovere consiste nel mettere a disposizione il
patrimonio tecnico-scientifico: “…Per la prima volta nella storia l’umanità è in
possesso delle conoscenze tecniche e pratiche per alleviare la sofferenza di queste
persone”. Truman parla in tono solenne e pronuncia un discorso teso a scacciare i
fantasmi del colonialismo, dimentica però che esiste una storia coloniale della
cooperazione e che i programmi di mutamento pianificato erano già materia d’interesse
per tutte le amministrazioni. Inoltre, è dato per scontato che il benessere per i poveri
sottosviluppati si traduca di fatto in una aumento della produzione di beni : “Il nostro
scopo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo a produrre, con i loro
propri sforzi, più cibo, più vestiario, più materiali da costruzione, più energia
meccanica al fine di alleggerire il loro fardello” (Truman, 1949, in Rist, 1997: 75).
Truman si spinge oltre ponendo le basi per la decolonizzazione e disconoscendo il
“vecchio” imperialismo. Propone al suo posto un sistema costruito sulla comunità
internazionale di stati di diritto eguali tra loro. Nella frase seguente si coglie, inoltre,
una delle caratteristiche più importanti del paradigma dello sviluppo, quella di
rappresentare un sistema di gestione delle risorse fondato su efficienza tecnica e
razionalità scientifica. Così Truman afferma: “Il vecchio imperialismo non ha niente a
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che vedere con le nostre intenzioni…tutti i paesi compreso il nostro profitteranno
largamente di un programma costruttivo che permetterà di utilizzare meglio le risorse
umane e naturali del mondo…una maggiore produzione è la chiave della prosperità e
della pace” (ibidem).
Il discorso costruisce un percorso universale per giungere alla libertà e alla felicità, ora
quantificabili in base alla quantità di beni posseduti.
Gli Stati Uniti grazie alla loro potenza economica, militare e scientifica si pongono a
capo della “missione” il cui fine è un più intensivo sfruttamento delle risorse e un
incremento del commercio internazionale. Un programma che si prefigge di
sconfiggere la povertà è difficilmente contestabile, inoltre Truman presenta le nazioni
come una comunità d’interessi ed intenti, i cui contenziosi saranno risolti in seno
all’ONU.
Proviamo ora a dare uno sguardo ad una definizione più generale che ci consenta di
considerare lo sviluppo un processo storico e culturale originatosi in Europa, a partire
dall’età delle scoperte geografiche e che ha avuto grandi ripercussioni in tutto il
mondo. Secondo Rist “ lo sviluppo è costituito da una serie di pratiche a volte
apparentemente contraddittorie le quali, per assicurare la riproduzione sociale
costringono a trasformare ed a distruggere, in modo generalizzato, l’ambiente naturale
e i rapporti sociali in vista di una produzione crescente di merci (beni e servizi)
destinate, attraverso lo scambio, alla domanda solvibile. (Rist, 1997: 21-25). Rist
sottolinea la necessità che il sistema ha di accrescere continuamente la produzione
delle merci per garantire la sussistenza delle persone che vivono al suo interno; la
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crescita comporta una distruzione dell’ambiente in quanto la trasformazione delle
risorse e la produzione di energia viene ottenuta mediante l’impiego di macchine che
dissipano grandi quantità di calore nell’aria. I rapporti sociali vengono riorganizzati
all’interno di un ambiente artificiale: la città. Lo scambio di merci non è più mediato
dalle relazioni sociale, non sono più le circostanze e i rapporti che legano i partecipanti
a determinare i termini dello scambio, l’acquisto coinvolge esclusivamente il
compratore e l’oggetto cui il mercato attribuisce un prezzo.
Una caratteristica fondamentale del sistema è la solvibilità degli attori: l’economia di
mercato è infatti finalizzata alla trasformazione di beni e servizi in denaro; la forza
lavoro, liberata dalle necessità della sussistenza, partecipa grazie al salario che riceve
per la propria prestazione lavorativa (Rist, 1997).
I fondamenti dell’economia capitalista sono: l’incremento continuo della produzione
industriale, un processo di accumulazione delle scoperte scientifiche, la continua
riformulazione dei bisogni, una forte divisione del lavoro e una sempre minor
dipendenza dall’agricoltura come fonte di sussistenza.
Alla base di questo sistema organizzativo sono celate una serie di concezioni,
culturalmente determinate, che riguardano il tempo e la storia, il rapporto tra uomo e
natura, l’essere umano come individuo e il significato di parole come progresso,
modernità, civiltà, benessere e bisogno (Colajanni, 1994).
Il corpus socio-economico e culturale dello sviluppo costituisce quindi una pratica che
organizza sistemi di azioni e di idee e che consiste in: 1) un processo storico sui
generis 2) un corpus concettuale 3) un insieme di dispositivi istituzionali e sociali
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all’uopo espressamente destinati (Ministeri specializzati, istituzioni internazionali
come la FAO, il PNUD, Colajanni, 1994: 34).
1.2-LA NATURALIZZAZIONE DEL SOCIALE
La crescita biologica di un organismo vivente è un’immagine immediata e molto
significativa, proprio a questa immagine si richiama la metafora dello “sviluppo”. Il
fine della rappresentazione metaforica è operare un trasferimento, a livello dialogico,
dal contesto proprio della natura per riferirsi a fenomeni socio-economici (G.Rist,
1998).
La metafora è quella figura retorica che permette la “sostituzione di un termine proprio
con uno figurato, in seguito ad una trasposizione simbolica d’immagini” (Devoto, Oli,
1971). Consente quindi di attribuire ad un termine immagini e concetti propri di un
altro in virtù di un accostamento astratto. La metafora è un utile strumento di
comprensione e di esplicazione; in questo caso il suo utilizzo risulta però fuorviante in
quanto serve ad attribuire ad un fenomeno storico la regolarità e la compiutezza della
crescita biologica. Tale trasposizione di significati ha permesso di oscurare il processo
storico da cui lo sviluppo ha avuto luogo e i rapporti di potere e dominazione connessi
alla sua pratica. Compromette inoltre la possibilità di discutere criticamente gli assunti.
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Seguendo il ragionamento di Rist: “Niente prova in effetti che ogni piccolo villaggio
sia destinato a diventare una grande città; i fattori esterni che agiscono su una società
cambiano spesso radicalmente il corso della sua storia…Lo strumento essenziale di
questo progetto permanente è in primo luogo il discorso…Proprio alle parole si
affiderà la responsabilità non solo di classificare ma di fondare l’esistenza di una
rappresentazione di portata generale. Sempre alle parole si chiederà di giustificare
pratiche e poteri” (G. Rist, 1997: 36). Non si tratta quindi di analizzare la storia dei
popoli ma di riferirsi ad una filosofia della storia che attribuisce al cambiamento
sociale un valore universale, necessario e sempre positivo, tendente verso uno stato di
perfezione raggiungibile mediante il superamento irreversibile di tappe. (Rist, 1997).
Farò ora un breve e, sicuramente, incompleto excursus di alcune concezioni filosofiche
occidentali che rendono evidente come l’ideologia del progresso sia scaturita dalla
storia e dalla filosofia europee, questo punto è importante nell’economia della tesi per
cercare di mettere in questione alcuni assunti paradigmatici e per mostrare quanto sia
particolare ed “esotica” la percezione che l’occidente ha costruito di sé e del resto del
mondo.
Aristotele definisce la natura come: “L’elemento primario immanente da cui procede la
cosa che nasce; (…) la natura… è la sostanza di quelle cose che hanno un principio di
movimento in se stesse”(in Rist, 1997: 37-38).
Lo studio della natura è rivolto all’osservazione di quel principio che contiene in sè
tutto il percorso del vivente, tutte le sue possibilità di disvelamento. La storia,
classificata tra le arti, è lo studio del particolare e del contingente come risultato della
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casualità. Eppure Aristotele aveva una visione negativa dell’infinito, perchè imperfetto
per definizione, e possedeva una concezione ciclica della storia, secondo la
sequenzialità: crescita, apogeo, declino. I soggetti della storia e della scienza sono
differenti in quanto caratterizzati, il primo dal caso, il secondo dalla necessità e
dall’ordine. La fusione tra i due orizzonti e la possibilità di pensare il tempo in modo
lineare si realizzano nel pensiero d’Agostino il quale riscrive la logica aristotelica in
termini cristiani. La filosofia agostiniana sostituisce alla casualità del contingente il
segno inconfutabile della Provvidenza, al principio impersonale della fusis (natura in
greco) l’onnipotenza divina. Agostino mantiene una visione ciclica della storia ma le
attribuisce un taglio differente: pur mantenendo la struttura acme-declino, ritiene che i
fatti non si possano ripetere all’interno della storia della salvezza. Il percorso della
storia si snoda a partire dall’Antico Testamento per giungere alla fine del mondo
passando per il momento cruciale dell’incarnazione di Cristo (Rist, 1998). E’ possibile
pensare al tempo come ad un vettore universale, perchè costituito dalla storia della
salvezza di tutti gli uomini, con un inizio ed una fine e determinato in tutti i suoi
aspetti dal disegno onnisciente di Dio.
Tuttavia è l’illuminismo che secolarizza l’idea di Provvidenza e fonda così l’idea
rivoluzionaria di un progresso infinito dello spirito umano. La ragione umana
sostituisce la Provvidenza divina come guida dell’azione umana, i suoi fondamenti
teorici sono l’esercizio critico dell’osservazione e la ripetitività dell’esperimento.
L’illuminismo porta a compimento un processo di rottura con la religione considerata
fonte d’oscurantismo, anche il sistema politico dispotico basato sul privilegio nobiliare
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ed ecclesiastico viene sostituito con un ordinamento giuridico-amministrativo costruito
sulla formale eguaglianza dei cittadini.
In questo contesto, si diffonde l’idea che il progresso delle conoscenze umane sia
cumulativo e infinito. Kant afferma che: “La razza umana progredisce continuamente
in civiltà e cultura in quanto suo scopo naturale, e allo stesso modo fa continuamente
dei progressi verso il meglio in rapporto con il fine morale della sua esistenza”
(riportato in Nisbet, 1969: 117). Si sviluppa così una visione che pone il progresso
come motore e finalità della storia.
La possibilità di pensare il tempo in modo lineare e la concezione del progresso come
necessità storica conducono la cultura occidentale a guardare l’alterità attraverso la
lente dell’evoluzionismo sociale.
L’evoluzionismo sociale trova legittimità sulla base della teoria scientifica di Darwin
sull’evoluzione biologica delle specie. Darwin attribuiva tale processo all’adattamento
degli esseri viventi al proprio ambiente e ai cambiamenti accorsi nel corso del tempo;
non esprimeva però alcun giudizio di valore né alcuna causalità al processo, la
selezione era condotta per tentativi in modo casuale.
Grazie a questo trasferimento dal naturale al sociale, l’evoluzionismo sociale pone
tutte le culture lungo una scala evolutiva al cui culmine si trova la società occidentale.
La superiorità è attestata dall’incredibile vantaggio tecnico derivante dalla scienza, dal
volume della ricchezza generata dalla produzione industriale e dall’economia di
mercato e dall’ordinamento politico dello stato nazione.
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Lo sguardo occidentale percepisce l’alterità culturale come la testimonianza di stadi
primitivi dell’esistenza umana, il “primitivo” diventa una sopravvivenza del passato, il
“nostro antenato contemporaneo” (Morgan, 1877).
L’evoluzionismo sociale colloca l’altro al di fuori dal tempo e lo caratterizza con un
ossimoro: è un antenato contemporaneo, pur essendo attore dello stesso spazio
temporale viene esiliato in un tempo passato fortemente stereotipato. Ciò contribuisce
a descrivere le altre culture come fossero oggetti immutabili, società senza storia,
arcaismi nella linea evolutiva. In questa dottrina trova legittimazione, alla fine del
diciannovesimo secolo, l’ultima grande espansione coloniale sancita durante il
congresso di Berlino del 1885.
La concezione occidentale del progresso ha comportato la ridefinizione di tre
dimensioni fondamentali nel fondare la percezione che l’uomo ha di se stesso in
relazione al mondo. Queste tre dimensioni sono: il tempo, l’uomo e lo spazio.
La concezione lineare del tempo, l’individualismo e la percezione del mondo come
uno spazio omogeneo che esiste per essere sfruttato al fine di realizzare l’optimum di
felicità quantificabile dall’acquisizione di beni di consumo. L’uomo si trova così a
vivere in perenne conflitto tra scarsità delle risorse e necessità infinite.
Questi elementi sono centrali nel processo che vede la nascita dell’idea di una umanità
unificata, fondamentale per formulare di un progetto collettivo sulla base dei valori
propri dell’occidente. Si tratta quindi di elementi fondamentali per studiare le
fondamenta epistemologiche dello sviluppo.