CAPITOLO PRIMO
LA PENA DI MORTE TRA IL XIX E XXI SECOLO
1.1. L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE IN
ITALIA
Toccò dunque alla Toscana di Pietro Leopoldo dare
l’esempio, non soltanto all’Italia, d’una nuova
legislazione che abolisse interamente la pena di morte. Il
testo della Riforma della legislazione criminale toscana
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del 30 novembre 1786, redatto per volontà del Granduca
Leopoldo di Toscana è sicuramente il più importante
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documento dell’influenza di Beccaria e delle idee
illuministe sulla legislazione italiana del Settecento. Si
tratta, peraltro, del codice in cui per la prima volta in
Europa veniva soppressa la pena di morte. “Fin dal
nostro avvento sul trono di Toscana considerammo come
uno dei nostri principali doveri l’esame e la riforma della
legislazione criminale, ed avendola ben presto
riconosciuta troppo severa, e derivata da massime
stabilite nei tempi meno felici dell’Impero Romano, o
nelle turbolenze dell’anarchia dei bassi tempi, e
specialmente non adattata al dolce e mansueto carattere
Martucci R., Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla repubblica (1848 – 2001), Carocci
Editore, Roma, 2002
Venturi F., (a cura di), Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, con una raccolta di lettere e documenti
relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, Einaudi, Torino, 1965
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della nazione, cercammo in via provvisoria di temperarne
il rigore con istruzioni ed ordini ai nostri tribunali, e con
particolari editti con i quali vennero abolite le pene di
morte, la tortura e le pene immoderate e non
proporzionate alle trasgressioni ed alle contravvenzioni
alle leggi fiscali finchè non ci fossimo posti in grado,
mediante un serio e maturo esame, e con il soccorso
dell’esperimento di tali nuove disposizioni di riformare
interamente la detta legislazione.
Con la più grande soddisfazione del nostro paterno
cuore abbiamo finalmente riconosciuto che la
mitigazione delle pene, congiunta con la più esatta
vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celerità
dei processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei
veri delinquenti, invece di accrescere il numero dei delitti,
ha considerevolmente diminuito i più comuni, e reso
quasi inauditi i più atroci, siamo quindi giunti alla
decisione di non ritardare oltre la riforma della
legislazione criminale, con la quale, abolita per massima
costante la pena di morte, come non necessaria per il
fine propostosi dalla società nella punizione dei rei,
eliminato affatto l’uso della tortura, la confisca dei beni
dei delinquenti come tendente per la massima parte al
danno delle loro innocenti famiglie che non hanno
complicità nel delitto, e bandita dalla legislazione la
moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di lesa
maestà, con raffinamento di crudeltà inventate in tempi
perversi, e fissando le pene proporzionate ai delitti, ma
inevitabili nei rispettivi casi, ci siamo determinati a
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ordinare con la pienezza della nostra autorità quanto
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.
La riforma affronta il tema della pena di morte.
“Abbiamo visto con orrore con quanta felicità nella
passata legislazione era decretata la pena di morte per
delitti ancor non gravi, ed avendo considerato che
l’oggetto della pena deve essere la soddisfazione al
privato e al pubblico danno, la correzione del reo, figlio
anch’esso della società e dello Stato, della di cui
emenda non può mai disperarsi, la sicurezza, nei rei dei
più gravi ed atroci delitti, che non restino in libertà di
commetterne altri, e finalmente il pubblico esempio che il
governo nella punizione dei delitti, e nel servire agli
oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuto
sempre a valersi dei mezzi più efficaci con il minor male
possibile al reo, che tale efficacia, e moderazione
insieme si ottiene più che con la pena di morte, con la
pena ai lavori pubblici, i quali servono di un esempio
continuato, e non di un momentaneo terrore che spesso
degenera in compassione, e tolgono la possibilità di
commettere nuovi delitti, e non la possibile speranza di
veder tornare alla società un cittadino utile e corretto;
avendo altresì considerato che una ben diversa
legislazione potesse più convenire alla maggior
dolcezza, e docilità di costumi del presente secolo, e
specialmente nel popolo toscano, siamo venuti nella
determinazione di abolire come abbiamo abolito con la
presente legge per sempre la pena di morte contro
Di Renzo Villata G., Giuristi, cultura giuridica e idee di riforma nell’età del Beccaria, in AA.VV., Cesare
Beccaria tra Milano e l’Europa. Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita promosso dal Comune
di Milano, Laterza, Roma – Bari, 1990
segue”36
qualunque reo, sia presente, sia contumace, ed
ancorchè confesso e convinto di qualsivoglia delitto
dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali
tutte vogliamo in questa parte cessate ed abolite.
Resta in conseguenza e tanto più proscritto ed abolito il
barbaro e detestabile abuso della facoltà concessa da
alcuna delle dette leggi a ciascuno di uccidere
impunemente, e con promessa di un premio i banditi in
contumacia per detti capitali delitti; volendo che riguardo
a qualsiasi contumacia si osservi quanto è stato ordinato
di sopra. E dovendo i rei dei capitali e gravi delitti
rimanere in vita per compensare le loro opere malvagie
con delle utili, ordiniamo che all’abolita pena di morte sia
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sostituita come ultimo supplizio per gli uomini la pena dei
lavori pubblici a vita, e per le donne la pena
dell’ergastolo parimenti a vita, abolendo il costume di
accordare ai condannati alla detta pena dei pubblici
lavori a vita, dopo averla sofferta per lo spazio di
trent’anni, di poter supplicare per la loro quasi dovuta
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liberazione”.
Nel 1788, a Firenze, veniva pubblicato l’opuscolo Della
pena di morte. Trattato filosofico-politico del dottore
Camillo Ciaramelli, con il motto “Redeunt Saturnia
Ellero P., Giornale per l’abolizione della pena di morte , voll. I, II e III, Tipografia Redaelli, Milano,
1861;Ferri E., Un secolo di omicidi e suicidi in Europa, Provv. Stato, Roma, 1925 Ferri E., Sociologia
criminale, ristampa a cura di Roberta Bisi, 1a ed., Franco Angeli, 2007; uccisione di vittime: dal che passò
associazione d'idee la Pena di morte, o altro Castigo corporale inflitto ai malfattori dalla giustizia; ovvero cosi
detto perché votava il condannato agli dei mediante preghiere e un sacrifizio, onde lavare il popolo romano
del sangue versato. Il Georges prescindendo da ogni induzione storica deriva da SUPPLICARE nel senso
originario d'inchinarsi^ come avviene tanu per porgere che era sempre accompagnata dalla a significare
anche lo stesso Sacrifizio, e per quando si conduceva a morte un cittadino romano il rex sacrorum o direttore
dei sacrifizi un'umile preghiera, quante per ricevere una punizione.
Ellero P., Della pena capitale, Forni Editore, Venezia, 1859
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Regna” ed una curiosa figura dove si vedeva la giustizia
che calpestava fasci, asce e sciabole cadute e sparse in
terra.
Era dedicato ad Alamanno de’ Pazzi. L’avvocato
Ciaramelli aveva allora ventotto anni. Era stato amico di
Horace Mann, ed aveva tradotto un opera su Federico II.
Buona accoglienza gli facevano le fiorentine “Novelle
letterarie” del 14 maggio 1788 (n. 2, coll. 162 sgg.).
L’argomento non era nuovo, vi si leggeva, ma era
necessario sempre riprenderlo e ridiscuterlo, anche dopo
Beccaria. “Quanto è difficile mutar le pratiche
universalmente ricevute da secoli e secoli! Ci voglion
colpi ripetuti e robusti e ci vuole la potenza del tempo
che porta naturalmente alla persuasione, quando questa
vi ha luogo. Ora il giovane signor Ciaramelli, il quale si
esercita nel foro criminale, annuncia con bella aurora la
felicità della sua carriera, mostrando di sentir più le
regole dell’umanità che quelle del Codice e
condannando come assurda la pena di morte. Con che
viene a fare un bel commentario della legge del Sovrano
di Toscana Pietro Leopoldo, il quale con singolar
esempio ha tolto dai suoi statuti l’orrore dei patiboli e si è
contentato di restituire alla Natura il diritto di morte sugli
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. Ed ecco il pensiero del Ciaramelli esplicato
nel suo “Della pena di morte”.
Maranini G., Storia del potere in Italia, Corbaccio, Milano, 1995
uomini…”68
“Io mi propongo l’esame della più semplice e della più
grande di tutte le pene criminali, vale a dire della pena di
morte: e sebbene questo esame non sia sfuggito alla
vista dei più accorti politici, tuttavia non è stato preso in
tutti gli aspetti possibili; e o sia che gli uomini abbiano
avuto ribrezzo a trattare una simile materia, o che si
siano astenuti dal condurre sino al trono la madre
dell’odio, il soggetto della pena di morte è stato
maneggiato con vergognoso torpore. Oscuro ed inutile
cittadino di un paese che ha per guida il più mansueto
dei principi, quale oggetto può farmi riprodurre una
materia sì tenebrosa? Quello solo appunto di far uso
della propria ragione, onde vedere i motivi che possono
esservi per salvare, o distruggere un uomo. I miei passi
sono incoraggiati abbastanza dalle tracce che segnano
in questo campo le savissime leggi della Toscana, rese
oggetto di meraviglia per le più dotte nazioni. La sola
ricerca del vero è stata dunque la mia causa impulsiva
nella presente impresa, e la verità deve essere
riconosciuta da ogni scrittore, la penna del quale non sia
venduta ad un abbietto interesse. Se tutti coloro che
hanno scritto sulla pena di morte fossero risaliti alle
limpide fonti delle cose, deducendo tutto dai veri principi
di esse, si sarebbero fatti meno schiavi dell’altrui
opinione, che per il solito viene suggerita dall’opportunità
del partito, il quale ci palesa l’inclinazione dominante dei
secoli, ma non la schietta verità. L’uomo si è visto fare a
pezzi e distruggere per mano di un suo simile: non ha
reagito fisicamente e a forza aperta, perché o non voleva
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