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valore aggiunto, e per questo formazione e istruzione debbono essere considerate a
tutti gli effetti antidoti efficaci alla disoccupazione giovanile.
Il contesto è quello dell’economia globalizzata, dove al mutare delle più comuni
forme giuridiche dei rapporti di lavoro, deve corrispondere una valorizzazione del
capitale umano, con l’obbiettivo di “imparare a imparare per tutto il corso della vita”.
A tal fine la necessità di riorganizzare gli ambiti formativi, ed in particolar modo
l’università.
Con la Dichiarazione della Sorbona queste linee guida dovrebbero diventare realtà di
mutazione e cambiamento degli ordinamenti vigenti. Gli intenti in tal senso vengono
dichiarati chiaramente:
“Stiamo andando incontro ad un periodo di grandi cambiamenti nel campo
dell’istruzione e delle condizioni di lavoro, ad una diversificazione dei percorsi delle
carriere professionali; la formazione e l’istruzione lungo l’arco della vita chiaramente
imponendosi come un obbligo. Noi dobbiamo ai nostri studenti ed alle nostre società
in generale un sistema di istruzione superiore nel quale a ciascuno siano offerte le
migliori opportunità per individuare il proprio campo di eccellenza.”
1.3 - Il “tre+due” e il fenomeno dell’abbandono
Si concretizza così la riforma del “tre+due”, che offre un primo ciclo universitario
breve, e che dovrebbe consentire ai giovani di affacciarsi al mondo del lavoro già
verso i 22\23 anni, con un titolo riconosciuto a livello europeo. In alternativa lo
studente potrà scegliere di frequentare un master di I° livello, o affrontare la laurea
specialistica biennale. Gli stadi successivi previsti sono un master di II° livello, il
dottorato di ricerca, la scuola di specializzazione.
Oltre alla omologazione europea del titolo di studio l’altra principale finalità
dichiarata è quella di ridurre il fenomeno dell’abbandono.
Le percentuali degli studenti che rinunciano a concludere il ciclo di studi senza
giungere alla laurea sono molto alte. Si tratta di un fenomeno che in un qualche modo
è inteso come endemico alla organizzazione universitaria. Si è di fronte ad una
consuetudine che di fatto non viene contrastata e che si innesta su diversi fattori, di
natura sia economica che sociale. In primis, nonostante la liberalizzazione degli
accessi ai diversi corsi di studio, sancita alla fine degli anni ’90 continua a permanere
una visione elitaria del modello formativo universitario. Perciò ben venga
l’abbandono, che sembra stare a confermare che quel percorso non è per tutti. Poi a
consolidare gli alti tassi di abbandono concorrono le logiche economiche. Le
università vivono in buona parte di finanziamenti pubblici, ricevuti in funzione del
numero degli studenti iscritti. Ogni iscritto che non affronta esami o non frequenta,
rappresenta di fatto un bonus per gli atenei; ricevono contribuzioni senza erogare
servizi e prestazioni, e paradossalmente possono mantenere alta, dove questa è
presente, la fama di corso di laurea “difficile” e selezionante.
In effetti è Luigi Berlinguer a ridosso della Dichiarazione della Sorbona ad indicare
tra le priorità, in una prima nota d’indirizzo, la necessità di aumentare l’efficienza
didattica, e di ridurre conseguentemente il numero degli abbandoni.
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1.4 - La lettura dei dati
Mutano contemporaneamente le modalità di rilevazione. Non si tratta più di
rapportare il numero degli iscritti al numero dei laureati, ma si inizia a cercare di
capire e di quantificare quale è il livello di soddisfazione degli utenti-clienti, nuovo
modo di intendere gli studenti. Fino a quel momento, e a dire il vero anche nel
seguente futuro, non è e non sarà possibile conoscere quali reali mutamenti siano
avvenuti, dopo la frequentazione di un corso universitario, nell’ambito delle
competenze acquisite. Di certo c’è soltanto che nel 1997 il tasso di abbandono
proprio delle università italiane ha il primato del 61%, mentre in Giappone e in Gran
Bretagna è rispettivamente dell’11 e del 19%. E’ altresì vero, che con l’adozione
della riforma “tre + due” quei tassi caleranno repentinamente, ma è pur vero che
rilevante sarà il contributo dato da quegli studenti del vecchio ordinamento che
sceglieranno di acquisire una laurea breve, accelerando così i tempi della loro uscita
dalle università.
Va anche rilevato come i dati sopra citati, ed in generale quelli prodotti in quel
periodo possono essere considerati attendibili ma non validi. Intendere come studente
iscritto colui che versa la prima rata di tasse, spesso concorre ad amplificare un dato,
che più correttamente va invece riportato in riferimento a quei soggetti in regola con i
pagamenti, non già a ottobre, ma a luglio dell’anno accademico.
Osservando i dati, a partire dagli anni ’50 e giungendo fino al 2001 si coglie almeno
un paradosso. A seguito della liberalizzazione degli accessi degli anni, coincide una
esplosione del tasso di abbandono. Curiosamente, verrebbe da dire, nonostante le
aperture legislative verso una invocata istruzione superiore di massa, il tasso di
rinuncia invece di diminuire aumenta. Verrebbe da dire che non basta il desiderio per
raggiungere l’emancipazione sociale. Le cause di questa sorta di impotenza verso la
pariteticità sono diverse. In estrema sintesi, oltre le motivazioni individuali, che
danno allo studente la consapevolezza di un investimento verso se stesso, restano per
dirla con Bourdieu, tutte intere le problematiche legate all’habitus.
1.5 - Habitus e drop - out
In ogni caso l’abbandono continua a presentarsi come una costante in crescita, che
accompagna il fenomeno della liberalizzazione degli ingressi. Dall’elitè alla massa si
conferma quella ipotesi di influenza dell’habitus, individuata da Bourdieu.
E’ possibile addirittura individuare una stretta relazione tra l’incremento del drop-out
e il lievitare degli ingressi. Ancora a conferma dell’ipotesi formulata dal sociologo
francese, il maggior numero dei protagonisti del drop-out appartiene ai ceti deboli, o
economicamente meno abbienti che dovevano essere i maggiori beneficiari della
riforma.
Il fenomeno, almeno fino a pochi anni dopo l’attuazione della riforma degli accessi
del 1969, vive nell’indifferenza generale, ed in questo modo sembra diventare parte
strutturale della prassi universitaria.
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“E’ possibile ipotizzare l’esistenza di un “grado di compatibilità dell’abbandono con
alcune regole di funzionamento del sistema universitario ante-riforma. Alcune
caratteristiche strutturali, come le modalità di finanziamento… avrebbero contribuito
a limitare l’attenzione su un fenomeno dalle dimensioni rilevanti, rendendolo
tollerabile – e quasi desiderabile nel corso del tempo” (Ceccacci 2008).
La vocazione elitaria dell’università italiana permane nonostante la legge del 1969,
che in soli due articoli liberalizza l’accesso in funzione dei curricula. La legge è la
risultante del clima politico, ma chi la saluta come una vittoria pecca di ingenuità. Le
discrasie endemiche al sistema universitario rimangono tutte, a partire dalla realtà che
ogni laurea non è uguale all’altra, bensì ha peso specifico diverso, in funzione sia
della natura intrinseca che dell’ateneo dove è stata conseguita. Non c’è parità tra
Medicina e Scienze Politiche; così come tra una Laurea in Medicina conseguita
nell’ateneo A e un’altra discussa nell’ateneo B.
Risulta per questo di maggior appeal, per chi può permetterselo, l’università più
difficile, quella più dura e ostica, ma che a fronte dell’applicazione di una sorta di
codice interno originale, consente una investitura meglio spendibile in ambito
lavorativo e sociale.
Il dato da evidenziare, nell’ambito più stretto del nostro discorso, sta però nel fatto
che le università migliori (le più difficili) sono quelle che hanno il più basso tasso di
produttività, ovvero il più alto tasso di drop out.
Non è una iperbole a questo punto equiparare quella impropria funzione selettiva al
drop out, e comprendere come alla base della selezione universitaria permanessero
anche cause legate alla stratificazione sociale esistente a monte dei cambiamenti
dell’epoca.
1.6 - Nuove prospettive di valutazione
Sarà la riforma del “3+2” ad introdurre una nuova prospettiva nella valutazione
dell’abbandono, equiparandolo a “indicatore di inefficacia e inefficienza del sistema
universitario” (Ceccacci 2008).
La maggior parte dei fondi che afferiscono alle università sono statali, e fino a prima
della riforma venivano erogati in base al dimensionamento delle strutture didattiche,
e alle capacità contrattuali e politiche di ogni singolo ateneo. Di fatto il fenomeno
dell’abbandono faceva gioco ad un sistema, dove il lievitare del numero degli iscritti
era funzionale ad un incremento delle risorse a disposizione senza nessuna
valutazione sulla produttività e di conseguenza sull’efficienza didattica.
Già prima della riforma del 1999, con la legge n. 537 del 24 dicembre 1993, veniva
introdotto un nuovo modello di riferimento per l’erogazione delle risorse agli atenei,
obbligandoli a prendere in considerazione il drop-out come fenomeno negativo e da
contrastare.
Di fatto i finanziamenti fanno capo a tre grandi macro-aree di spesa o fondi:
-fondo per il finanziamento ordinario (Ffo);
-fondo per l’edilizia universitaria e la grande attrezzatura scientifica;
-fondo per la programmazione dello sviluppo del sistema universitario (L. 537\1993).