Abbiamo preso in esame la Bosnia-Erzegovina date la sue caratteristiche che ne
fanno una “Jugoslavia in piccolo”. Per la diverse componenti nazionali che la
costituiscono e per la mancanza di un gruppo maggioritario, questo territorio
rappresentava il cuore di quello spirito di convivenza che avrebbe dovuto costituire la
Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. Il caso sloveno è utile per la
comprensione della difformità delle anime costituenti la Federazione Jugoslava,
segnata da uno squilibrio regionale in termini di risorse economiche ed una profonda
differenza culturale e politica. Le divergenze tra le posizioni serbe e quelle slovene,
non si rifacevano a contenziosi nazionali antichi come il contrasto serbo-croato, ma la
distanza tra le rispettive aspirazioni politiche, liberale, autonomista e filo occidentale
quella slovena, centralista e conservatrice quella serba andò a bloccare l’intero
apparato governativo federale provocandone inevitabilmente la caduta. Il rapporto
tra popolazione serba e albanese nel Kosovo ha rappresentato uno dei snodi principali
del destino della Repubblica jugoslava. Regione storica della Serbia e culla della sua
tradizione, ma abitato da una larga maggioranza albanese. La delicata convivenza tra
i due popoli ha infuocato il nazionalismo serbo, che mai digerì l’autonomia della
provincia mentre il malcontento degli Albanesi rappresentò nella storia della
Federazione un costante fattore destabilizzante.
4
Tuttavia per spiegare completamente un attecchimento così rapido e violento delle
ideologie nazionaliste è necessario considerare gli effetti che la pesante crisi
economica degli anni 80 produsse sui cittadini jugoslavi. L’insicurezza e la paura
sono da sempre terreno fertile per dottrine scioviniste, soprattutto quando vengono
alimentate dalle stesse dirigenze politiche. Se si unisce all’incertezza che può
provocare ad un lavoratore, un’inflazione del 2500%, il gioco antico della classe
politica di ricercare negli “altri” il capro espiatorio di tale drammatica condizione, la
tragedia che ebbe luogo in Jugoslavia a partire dal 1992 può apparire estremamente
più comprensibile. Non è un caso che, anche fuori dal contesto jugoslavo, le identità
nazionali e con esse le politiche nazionalistiche rifioriscano in un contesto di
disgregazione della cornice statale e sociale. In questi casi, è molto facile che il senso
di appartenenza ad una comunità ben precisa assuma una duplice valenza; da una
parte può servire ad infondere nel cittadino una sicurezza che lo stato non è più in
grado di assicurare
3
e contemporaneamente si può rivelare uno strumento utilissimo
per quella definizione della «comunità degli innocenti» a cui contrapporre i
colpevoli, responsabili della pessime condizioni della comunità.
Per introdurre qualsiasi discorso che verta sull’aspetto multinazionale dello
scomparso Stato unitario jugoslavo, è necessario fare riferimento ad un punto di
partenza obbligato della maggior parte degli studi in materia; il fatto cioè che non ci
si sta pronunciando a proposito di uno Stato nazionale artificiale creato a tavolino:
«La Jugoslavia non fu una creazione dei quattordici punti del Presidente statunitense
Wilson e del processo di pace del 1919-20. La Jugoslavia fu creata nel 1918 e di
nuovo nel 1943-45 dal patriottismo delle popolazioni slave del sud, che crederono
che una forma statale unitaria sarebbe stata preferibile a stati-nazioni separati, piccoli,
deboli ed ancora di carattere multinazionale»
4
. Nel 1918 come mezzo per evitare
nuove dominazioni straniere, Croati, Sloveni, Serbi e le altre popolazioni dell’area
balcanica optarono per una spontanea associazione tra componenti della famiglia
slava; l’invasione nazifascista e la conseguente resistenza rafforzarono la volontà di
“fratellanza e unità” nonostante l’esperimento avvilente della monarchia interbellica
5
.
Da questo punto di vista sembrerebbero fondati i dubbi che Stefano Bianchini mostra
nei confronti degli studi che vedono nella creazione dello Stato slavo un processo
assolutamente esterno alla volontà e all’autodeterminazione dei popoli stessi e la
guerra del 1991 come ripresa naturale delle ostilità dei primi decenni del 900 dopo 46
anni di “glaciazione” comunista.
6
I contrasti nazionali ed ideologici che durante la
seconda guerra mondiale conobbero un ulteriore fase di inasprimento non riuscirono
tuttavia a cancellare la consapevole volontà di convivenza, su cui si baserà la
successiva forma statale della Jugoslavia.
Dai fenomeni politici che il caso jugoslavo pone in questione, è possibile rivivere le
questioni che hanno caratterizzato la storia del XX secolo, la questione nazionale, il
federalismo per esempio, che all’alba del nuovo millennio sono tuttora oggetto di
3
«Il nazionalismo e l’etnicità, per citare quanto scrive Miroslav Hroch in riferimento all’odierna Europa centrale, sono un
surrogato dei fattori d’integrazione in una società in via di disgregazione. Quando vien meno la società, salta fuori in
nazionalismo come estrema garanzia» Eric J. Hobsbawn, “Nazioni e nazionalismi dal 1780”, Einaudi editore, Torino
2002. pag 204
4
Sabrina Ramet, Ljubisa S. Adamovich “Beyond Yugoslavia”,Westview press Boulder, Colorado 1995, p.15
5
Bernard Féron “Yugoslavia, origenes de un conflicto” Le Mond editions 1993, p.24
5
6
Stefano Bianchini, “ Sarajevo, le radici dell’odio” , Editrice internazionale, Roma 2003, p.6
discussione politica alla luce del dibattito sul destino degli stati nazionali che sembra
stiano percorrendo la parabola discendente della propria storia. Gli effetti della
globalizzazione secondo i principi del libero mercato, stanno trasferendo molte
prerogative degli stati nazionali ad istituzioni sovranazionali, mentre le dimensioni
dei traffici economici rendono di fatto imprese multinazionali e con esse l’intero
sviluppo economico, difficilmente limitabili, anche dal punto di vista giuridico, da
confini statali.
Nel corso degli anni 80 la ricerca di uno spazio nazionale proprio ed esclusivo che ha
caratterizzato le politiche delle dirigenze delle varie Repubbliche federate jugoslave,
rende doverose alcune considerazioni preliminari sul termine stesso di «nazione». Il
concetto è fonte di controversie che derivano dall’impossibilità di farne un modello
fisso applicabile uniformemente, ad ogni singolo caso. Su questa linea si pone il
lavoro di Eric Hobsbawn che parte dalla negazione dell’assunto tipicamente
ottocentesco di Bagehot secondo il quale le nazioni sono antiche come la storia. I
criteri di uso comune nel tentativo di imporre uno schema fisso al termine «nazione»,
come lingua, etnia, tradizioni popolari e simili, si perdono con il tentativo di renderlo
valido universalmente. Un approccio oggettivo alla definizione di nazione, come
potrebbe essere quello di Josip Stalin
7
nel suo «Il marxismo e la questione nazionale»
non riesce ad includere il grande numero di eccezioni derivanti dalla stessa
definizione, mentre una descrizione che parta da un’angolazione soggettiva, come
quella di Renan ,che definì la nazione un plebiscito quotidiano di ciascun individuo,
offre il fianco alla chiara impossibilità di usare come metodo di classificazione
universale il sentimento di appartenenza degli individui.
8
un’idea stessa di «nazione» così labile e passibile di interpretazioni differenti, i
principi politici che si basano su una corrispondenza rigorosa tra unità politica e
nazionale, i «nazionalismi»
9
, risultano essi stessi condizionati a monte da
interpretazioni soggettive, lontane da una validità oggettive.
7
«La nazione è una comunità stabile, storicamente formatasi, che ha la sua origine nella comunità di lingua, di territorio, di
vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura» Eric J. Hobsbawn, “Nazioni e
nazionalismi dal 1780”, p.7
8
Ivi, p.9
6
9
Ibidem
Alla base di ogni principio politico nazionalistico vi è il concetto di «identità» ed il
bisogno emotivo di appartenenza in seno agli individui. Lo spirito d’appartenenza
rappresenta una forza storica trainante analoga al bisogno di sicurezza, entrambi
sintomo si malessere della società più che una terapia per la stessa. I nazionalismi di
cui si fa riferimento nell’area della ex-Jugoslavia sono stati sostanzialmente portatori
di spinte separatiste e di divisione in base a gruppi etnici, miranti alla realizzazione
di uno Stato-nazione territorialmente omogeneo sul piano linguistico ed etnico
secondo il modello mazziniano: «uno Stato per ogni nazione ed un unico Stato per
l’intera nazione»
10
. Nell’area balcanica, dato l’intreccio e la secolare convivenza in
spazi comuni dei vari popoli un’ideologia di questo tipo sarebbe potuta divenire realtà
soltanto attraverso metodologie quali la guerra e la pulizia etnica.
L’ex Presidente della Repubblica Bosniaca e poi della Federazione Jugoslava, Raif
Dizdarevic nella testimonianza che da del processo che portò alla dissoluzione del
suo paese mostra un amaro rimpianto per la diffusione di quello che definisce il seme
distruttivo del nazionalismo, delle tendenze grande-nazionali, egemoniche e
separatiste fonte di negazione dei grandi valori di uguaglianza e di dignità umana e
nazionale conquistati con la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, in aperto
contrasto con la visione dominante delle elite nazionalistiche delle Repubbliche,
quella serba o quella slovena per esempio che vedevano invece la Federazione come
una “prigione” per la propria nazione che ne frustrava la ambizioni.
11
.
2-LA REPUBBLICA SOCIALISTA FEDERATIVA DI JUGOSLAVIA
Il 6 aprile del 1941 cambiò radicalmente il destino dei popoli slavi della penisola
balcanica. In quel giorno la Wehrmacht invase il territorio del Regno degli Jugoslavi
completandone la conquista in soli 11 giorni
12
. Il paese venne successivamente
smembrato, il Reich tedesco dichiarò l’annessione diretta del nord della Slovenia e
10
Ivi p200
11
Raif Dizdarevic , “La morte di Tito, la morte della Jugoslavia” ,Longo Editore, Ravenna 2001, p.506
7
12
Mauro Cermel ,”La transizione alla democrazia di Serbia e Montenegro” Marsilio Editori Venezia 2002, p.46
sottopose ad amministrazione il Banato ed il territorio della Vojvodina caratterizzato
dalla presenza di una minoranza di lingua tedesca, mentre all’Italia fascista spettò la
Slovenia meridionale, la Dalmazia, il Montenegro, il Kosovo e la Macedonia
occidentale. Gli ungheresi, alleati dell’asse occuparono la parte restante della
Vojvodina, popolata da una larga minoranza magiara. La Serbia occupata nell’agosto
del 1941, fu affidata al generale Milan Nedic che accettò l’incarico di creare una
gendarmeria sottoposta all’occupante tedesco per combattere la stoica resistenza
serba. I territori rimanenti, il resto della Croazia, la Bosnia Erzegovina e la Sirmia
furono organizzati nella Nezavisna drzava Hrvtske (Stato indipendente croato), alla
guida della quale fu posto il leader del sanguinario movimento paramilitare Ustsaša,
Ante Pavelic
13
.
Gli anni dell’occupazione nazista rappresentarono una delle epoche più drammatiche
della storia dei popoli slavi meridionali. I nazisti nell’applicazione delle proprie
pratiche di pulizia etnica, si mostrarono particolarmente zelanti con la popolazione di
etnia slava ed il regime nazifascista di Ante Pavelic non si distinse dalla brutalità
nazista per quanto riguarda la repressione che scatenò contro gli oppositori, le
minoranze etniche e religiose presenti nel territorio amministrato dagli Ustsaša.
Ma la guerra contro l’invasore rappresentò allo stesso tempo l’occasione che il capo
del Partito comunista Jugoslavo e leader della resistenza partigiana, Josip Broz detto
“Tito” stava aspettando da tempo. Di padre croato e madre slovena, da sergente
combatté durante la prima guerra mondiale nell’esercito austriaco sul fronte russo.
Dopo aver vissuto in Unione sovietica per 5 anni, tornato in Croazia iniziò la sua
militanza nel partito comunista clandestino nel 1923, si guadagnò la notorietà dopo
un arresto nel 1928 per possesso illegale di armi a coronamento di un quinquennio di
militanza attiva nel territorio croato. Fu richiamato in URSS come rappresentante
jugoslavo al Comintern. La sua lucidità e l’abilità con cui riuscì ad interpretare la
pesante aria che tirava nell’assemblea dell’Internazionale comunista negli anni dal 35
al 37, gli valsero la fiducia del NKVD e di Stalin, che si rivelò indispensabile per la
sua sopravvivenza. Tito tornato in patria, entrò in contatto con giovani comunisti che
avrebbero formato la cerchia dei suoi più stretti collaboratori nella dirigenza della
futura Jugoslavia socialista: Milovan Gilas, Alexander Rankovic e Edvard Kardelj in
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