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A questa prima fase ne segue una seconda tra gli anni ’50 e ’70. Si
trattava sempre di cinesi ma che stavolta si avviarono verso un altro
mestiere, quello della lavorazione della finta pelle, lo skai. Nascono così i
primi quartieri cinesi. Il rapporto con la scuola italiana, anche se
problematico, viene già da allora affrontato in un’ottica multiculturale
attraverso corsi di insegnamento della lingua madre (Layard, Blanchard,
Dornbusch, Krugman, 1994).
Molto significativo per l’Italia è il periodo che va dal 1985 al 1994,
quando la popolazione straniera aumenta con un ritmo di 100.000 unità
all’anno. Tale aumento dipende da diverse variabili come l’esplosione
demografica dei paesi del Terzo Mondo; la crisi economica che ha colpito
moltissimi paesi in via di sviluppo negli anni ’70 e negli anni ’80; la crisi
economica ma anche politica dei paesi dell’Est tra gli anni ’80 e ’90, ecc…
Un momento significativo è rappresentato, nel 1993, dalla
costituzione della Comunità Europea. A partire da tale data la popolazione
di stranieri (gli extracomunitari) è aumentata ogni anno di circa 500.000
unità (Layard, Blanchard, Dornbusch, Krugman, 1994).
Le migrazioni dai Paesi terzi negli Stati dell’Unione Europea sono
tra i fenomeni sociali più difficili da affrontare. Lo sviluppo economico dei
paesi ricchi, legato alla crescita intensiva delle nuove tecnologie ed a quel
complesso processo definito di globalizzazione, ha ulteriormente aggravato
gli squilibri con i paesi in via di sviluppo, creando le premesse per
l’accentuarsi dei flussi migratori. Ma questa non è l’unica ragione alla base
di questo fenomeno, spesso i motivi sono legati anche ai conflitti etnici e
regionali, alle persecuzioni politiche e, più in generale, a condizioni che
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non solo non garantiscono una buona qualità della vita, ma spesso neanche
una soglia minima vitale.
I fattori di spinta ( push-factor) e i fattori di attrazione (pull-factor)
sono quindi determinati da fenomeni macrosociali che influenzano i legami
tra le diverse aree del mondo (D’Alessandro, Sciarra, 2005). In particolare
le spinte espulsive sono costituite da situazioni economiche e sociale
precarie, in alcuni casi aggravate da conflitti bellici o da regimi governativi
dittatoriali. A questo si aggiunge la forte pressione demografica che si è
verificata nella seconda metà degli anni ’90. Basta pensare che tra il 1950 e
il 1990 la popolazione mondiale è quasi raddoppiata (Caritas, 2004) e che
tale aumento, là dove non è stato compensato da un corrispondente
sviluppo economico, ha determinato un incremento del livello di povertà.
E’ interessante sottolineare come già dieci anni fa Layard (1994)
avesse pronosticato la migrazione dell’Est verso l’Ovest, migrazione a suo
avviso dovuta alla differenza dei salari tra queste due aree: “Il flusso
migratorio sarà direttamente proporzionale alla differenza di reddito e
inversamente proporzionata alla resistenza” (Layard, 1994).
Le opportunità di lavoro, soprattutto nel settore terziario e le
differenze retributive delle società occidentali costituiscono le spinte
attrattive del processo migratorio. In ultima analisi il comportamento
migratorio scaturisce da un confronto fra le condizioni di partenza rispetto
a quelle d’arrivo.
Il fenomeno dell’immigrazione si delinea come eterogeneo. Si assiste
infatti ad una differenziazione sempre maggiore per quanto concerne non
solo l’origine culturale, ma anche il livello sociale e il genere degli
immigrati. Rispetto a questo ultimo aspetto, è interessante notare che negli
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anni passati ad emigrare era sempre l’uomo, oggi invece c’è una tendenza
alla “femminilizzazione” del fenomeno, attestata dal numero sempre
maggiore di presenze femminili straniere sul nostro territorio. L’aumento
della componente femminile al interno dei flussi migratori è dovuta
principalmente a due processi: da una parte abbiamo la strada che è stata
aperta con i ricongiungimenti famigliari, e dall’altra troviamo le scelte di
emigrare effettuate in prima persona (D’Alessandro, Sciarra, 2005).
Accanto alla differenziazione di genere dei flussi migratori e
all’allargamento dello spazio geografico dovuto alla globalizzazione, si
evidenzia in parallelo una diversificazione della durata della permanenza.
Aumenta notevolmente l’emigrazione di tipo stabile, famiglie intere che
decidono di fermarsi in Italia per un tempo indeterminato, che hanno
progetti molto ben definiti per il futuro.
Accanto a questa realtà, troviamo le esperienze di soggiorno
transitorio; si tratta di immigrati che soggiornano per pochi mesi in
occasione di lavori stagionali, il cui obbiettivo e quello di integrare il
reddito famigliare. Un’ulteriore realtà è quella che riguarda gli immigrati
irregolari, che, nella maggior parte dei casi hanno un lavoro ma non
trovano possibilità di regolarizzazione della propria situazione al interno
delle quote d’ingresso decise dalla legge Bossi-Fini dell’2002 (legge n.
1989/2002).
Progettare un viaggio oltre i confini nazionali ha un costo molto alto
in termini economici, cognitivi e affettivi. Prima di partire si fa sempre un
bilancio dei costi e dei benefici, ma non si sa mai a cosa veramente si va
incontro. Lontani dalla famiglia e dagli amici, sradicati da ogni tradizione,
in un paese che a volte sembra accettarti solamente come forza lavoro, gli
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immigrati si trovano ad affrontare condizioni difficili di vita che spesso li
porta ad un profondo senso di disperazione. Tante sono le difficoltà che
essi devono affrontare, dalle discriminazioni quotidiane (D’Alessandro,
Sciarra, 2005), esplicitate con frasi del tipo: “perché non sei rimasto a
casa tua?”, “sei venuto a rubare il lavoro degli italiani?”, alle difficili
condizioni di lavoro spesso precarie e mal pagate, fino all’impossibilità di
accedere ai concorsi pubblici, alla vita politica, ecc.
Ma la peggiore miseria è quella della solitudine, quel senso di
estraneità che può nella migliore delle ipotesi trasformarsi in malinconia.
Lo spaesamento, la debole progettualità, la disaffezione per la politica, la
scarsa partecipazione sociale, l’enfasi sui consumi come mezzo di
espressione della propria identità sono tutti elementi che contribuiscono
alla formazione del sentimento della solitudine (Cologna, Mazzetti,
Bassetti, 2004). Si può innescare così un processo di estraniazione
(Brunori, Tombolini, 2001) che può fare dell’immigrato un “non essere”,
sospeso tra due mondi (Diasio, 1995). Questo aumenta una fragilità
identitaria che può sfociare in psicopatologia. Un sentimento che
caratterizza in toni più o meno forti tutta la popolazione migrante è la
nostalgia, un sentimento che ha un gradiente troppo elevato, può essere
sintomo e causa del fallimento nell’impresa d’integrazione.
L’inserimento di una persona, in un paese diverso da quello di
origine, può essere agevolato o inasprito sia dalla flessibilità o dalla
rigidità del paese ospitante, che dalla propria realtà interiore. La questione
fondamentale è la riuscita del progetto migratorio (Brunori, Tombolini
2001): pur tra precarietà economiche, difficoltà e incertezze, se si riesce ad
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soddisfare le aspettative che si sono coltivate prima di partire, si può
sperare che la salute psichica sia garantita.
Oggi gli stranieri che soggiornano regolarmente in Italia sono 2
milioni e 800 mila (Caritas, 2005), e rappresentano un incidenza media
sulla popolazione del 4,8%. I motivi alla base del soggiorno confermano
un netto desiderio di inserimento stabile: 9 immigrati su 10 sono in Italia
per lavoro o per ricongiungimento famigliare.
Una novità in questo fenomeno migratorio è rappresentato proprio
dai ricongiungimenti famigliari, che vedono saldamente in testa gli
immigrati dal Marocco e dall’Albania (ciascuno con 13.000 visti), seguiti a
quelli provenienti dalla Romania (8.000 visti), Cina (7.000 visti) e, infine,
(3.000 visti), dall’India, dall’Ucraina, dalla Serbia-Montenegro, dal
Bangladesh e dalla Macedonia (Caritas, 2005).
La legge Bossi- Fini, l’ultima sanatoria avvenuta nell’2002 (legge n.
1989/2002), ha giocato un ruolo importante nel favorire il
ricongiungimento degli immigrati con i loro figli, nella maggioranza
minori, comportando di conseguenza il problema del loro inserimento nel
sistema scolastico italiano.
Molto efficacemente, l’Italia ha preso in carico questo recente
fenomeno migratorio, che configura un nuovo bisogno sociale e necessita
di nuovi progetti e di nuovi strumenti di intervento. L’Italia ha scelto la
piena integrazione di tutti nella scuola e, con una circolare, ( la C.M.
22/7/1990, n. 205), relativa a “La scuola d’obbligo e gli alunni stranieri.
L’educazione interculturale”, ha introdotto per la prima volta il concetto di
educazione interculturale (M.I.U.R., 2004/2005).
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In seguito con la legge n. 40/ 1998, ha posto particolare attenzione
sugli aspetti organizzativi della scuola, in particolare relativi
all’insegnamento dell’italiano come lingua seconda, sulla formazione dei
docenti e sul mantenimento della lingua e cultura d’origine (Euridice,
2004).
La realtà scolastica italiana è molto eterogenea e, come vedremo, le
risposte fornite a questo problema si sono articolate a partire dallo specifico
bisogno del territorio. Nelle grandi città, dove il numero di minori stranieri
è consistente, sono già stati avviati diversi progetti all’interno del sistema
scolastico, mentre nelle piccole realtà provinciali si respira ancora un’aria
di preoccupazione dovuta al fatto di non saper come affrontare queste
nuove esigenze.
Ma come avvengono questi nuovi arrivi? Le tipologie dei percorsi
che portano i minori stranieri ad arrivare nel nostro paese sono diverse, e
dietro ad ogni percorso si celano realtà differenti in termini di bisogni e
problemi da affrontare.
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2. Nuova immigrazione
2.1. Minori in viaggio
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un aumento costante e
progressivo del numero di immigrati, tra quali una buona parte è composta
da adolescenti e ragazzi dalle molteplici provenienze.
A questo proposito, dal XV rapporto sull’immigrazione redatto dalla
Caritas (2005), risulta che all’inizio del 2005 i minori presenti in Italia
erano 491.000, e rappresentavano il 17,6% della popolazione straniera
complessiva. Si tratta di un’incidenza superiore di due punti percentuali
rispetto a quella del 2003 (15,6%) che rende conto della crescita di questo
fenomeno. Una nuova età quindi, che fa la sua comparsa all’improvviso,
mettendo gli operatori e i servizi del nostro paese nella condizione di
dover trovare in un tempo limite, soluzioni adeguate.
Il fenomeno dell’immigrazione è ormai un dato consolidato nel
nostro paese, ma è la presenza estremamente elevata dei minori,
soprattutto nelle grandi città, che disegnano un nuovo quadro della
situazione.
La realtà dei minori immigrati non è omogenea, al suo interno
possiamo trovare varie tipologie di soggetti con storie e biografie molto
diverse tra loro, che giungono in Italia per motivi e attraverso percorsi
differenti (Demetrio, Favaro, (1997). All’interno di questo gruppo
eterogeneo possiamo distinguere diverse categorie.
La prima riguarda i ragazzi che si sono ricongiunti con la famiglia in
seguito alla legge Bossi- Fini (legge n. 1989/2002), ultima sanatoria del
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2002. Tali soggetti vengono definiti “ generazione uno e mezzo” (Portes,
Rumbrart, 2001), termine che ben dipinge la condizione di una vita sospesa
tra diversi riferimenti, a metà strada fra il contesto d’origine e il luogo di
accoglienza.
Questi adolescenti hanno vissuto in prima persona il viaggio di
migrazione, portando con sé memorie e nostalgie. In questa situazione un
elemento importante da prendere in considerazione è la distanza temporale
tra la migrazione dei genitori e quella dei figli: se la distanza nel tempo è
minima non si crea una situazione di particolare disagio, soprattutto se la
separazione è avvenuta da un solo genitore, mentre l’altro ha continuato a
fornire un senso di continuità alla vita famigliare. Difficile è invece la
situazione in cui i ragazzi rimangono per un lungo periodo insieme ai
nonni, che diventano i “genitori affettivi”, per poi essere sottratti
improvvisamente e portati via dai genitori naturali. Tale situazione è ancora
più problematica nei casi in cui l’allontanamento dei genitori sia avvenuto
nei primi mesi di vita del bambino. Questi ragazzi infatti subiscono un
trauma iniziale difficilmente quantificabile, (Caprara, Fonzi, 2000), in un
momento evolutivo in cui si dovrebbe costruire una efficacia relazione con
la figura di attaccamento (Bowlby, 1969).
A questo primo strappo se ne aggiunge un secondo, questa volta
dalla famiglia che li ha cresciuti. “L’adozione” da parte dei genitori
biologici può infatti costituire un ulteriore esperienza traumatica, che però,
sul piano affettivo, possono essere definiti come dei perfetti sconosciuti, e
come se tutto questo non fosse abbastanza, a tutte le difficili richieste di
adattamento alla nuova vita famigliare e al nuovo contesto sociale, si
aggiunge anche la necessità di adattarsi ad un nuovo sistema scolastico.
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Una quantità spropositata di richieste in un momento di così difficile
riorganizzazione su diversi piani, affettivo, cognitivo e sociale.
Si tratta di una situazione che comporta una condizione di altissimo
rischio per lo sviluppo e quasi tutti i bambini che vivono una tale
esperienza vanno incontro a una profonda sofferenza ed ad un conseguente
disagio psicologico. E’ evidente che il miglior intervento a cui si potrebbe
auspicare è rappresentato dalla prevenzione di questa separazione, ma si
tratta di un obiettivo utopico, per nulla facile da raggiungere. Quello che
invece si può fare è strutturare un intervento di tipo sociale, rivolto sia ai
genitori che alla scuola, finalizzato a sostenere il minore in questa difficile
fase di adattamento.
Una seconda categoria comprende i ragazzi nati in Italia da genitori
stranieri, si tratta della cosiddetta “seconda generazione”. Da un punto di
vista quantitativo questo gruppo ha dimensioni ridotte, vista la stabilità
piuttosto recente degli immigrati nel nostro paese. Si tratta di ragazzi che
dal punto di vista giuridico sono stranieri fino alla maggiore età , ma di
fatto sono italiani, dal momento che il loro percorso di crescita e di
socializzazione, di acquisizione linguistica e di acculturazione avviene
dentro gli spazi educativi del paese di accoglienza. Questi ragazzi non
hanno vissuto direttamente la migrazione, il viaggio e la fase di
sradicamento e di successivo ri-orientamento nel nuovo contesto; alcuni di
loro hanno fatto raramente conoscenza del loro paese d’origine e dei
contesti di provenienza della famiglia. Questo è senz’altro una condizione
più favorevole, rispetto alla precedente. Questi adolescenti infatti non
hanno subito traumi di separazione e di dislocazione spaziale, ma,
nonostante questo, soffrono di “ discontinuità culturale” (Brunori,
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Tombolini, 2001), in quanto sono “diversi”, sia nel contesto famigliare che
in quello scolastico e sociale, in quanto ricevono indicazioni, regole e
valori contrastanti. Questi ragazzi diventano, spesso, di fatto, dei veri
mediatori culturali e linguistici tra la famiglia che mantiene ancora le
tradizioni e i valori culturali del paese d’origine, e la cultura del paese
d’accoglienza che il ragazzo fa sua. Si tratta di un compito non facile da
gestire, visto l’asimmetria nella relazione tra il ragazzo e i suoi genitori.
All’interno della famiglia si possono così determinare una serie di
dinamiche interattive assai complesse dove le asimmetrie possono anche
evolversi in direzione inversa rispetto a quella originaria. I genitori, i quali
hanno più difficoltà ad adattasi al nuovo ambiente e ad imparare la nuova
lingua, si trovano ad apprendere e ad essere corretti dai loro figli,
ricevendo da questi degli insegnamenti che possono riguardare appunto la
lingua, gli usi e i costumi della nuova comunità che gli accoglie. Molti
genitori impediscono ai loro figli di evolvere in questa asimmetria
relazionale perché non sono in grado di “mettere in crisi” le loro certezze e
vivono questa “differenza” con i loro figli come una frattura, una perdita
dei valori del proprio paese (Iori, 1998).
Una terza categoria è quella che dei minori stranieri non
accompagnati, fenomeno che solo recentemente ha ricevuto attenzione in
ambito scientifico (Valeri, 2000), e che è in costante aumento, non solo in
Italia, ma in tutta l’Europa. Si tratta di minori che arrivano da soli, privi del
sostegno di figure genitoriali, oppure di adulti che possano fare le veci dei
genitori. La situazione italiana si differenzia da quella degli altri paesi
europei per il fatto che i minori richiedenti asilo o per i quali sono previste
misure di protezione temporanea sono pochi, mentre prevale quella realtà
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più problematica che coinvolge i ragazzi maschi con un età superiore ai 14
anni, che arrivano per mezzo della malavita organizzata (Silva, Campani,
2004). Sono i più segnati da esperienze dolorose, da traumi, da sofferenze
quotidiane che nella maggior parte dei casi si trovano costretti a mendicare,
a spacciare droga a prostituirsi o a essere coinvolti nella criminalità (Segre,
1993).
Il sistema di accoglienza dei bambini non accompagnati nel nostro
paese è molto fragile, come ben mette in luce Giovanna Campani (Silva,
Campani, 2004). E’ una realtà che per essere affrontata in maniera efficace
necessita di una sinergia tra diverse istituzioni che concorrono al medesimo
obiettivo di tutela del minore (Tribunale dei minori, Servizi Sociali, Scuole
e centri di Formazione professionale, ecc), operando un intervento
articolato su più fronti: sociale, giuridico, formativo ma anche psicologico,
che possa rispondere ai bisogni di accoglienza e di tutela di questi bambini.
Dalle indagini svolte ( Campani, Lapov, Carchedi, 2002) emerge anche una
grossa difficoltà di far coniugare efficacemente le esigenze di formazione
scolastica, come impone l’obbligo formativo, con l’aspirazione di
autonomia economica di questi ragazzi. Infatti, a differenza di quanto si
potrebbe pensare, questi ragazzi sono già portatori di un progetto di vita,
che permette loro, malgrado le grandi sofferenze provate, di andare avanti,
di sperare in una nuova vita. Vogliono crescere in fretta per poter entrare
subito nel mondo del lavoro, sperando così di uscire dalla gravosa
situazione in cui si trovano. Si sentono già grandi, in quanto troppo spesso
se la sono dovuta cavare da soli, non trovano utile studiare, vogliono subito
lavorare e realizzarsi come i grandi, anche se, a tutti gli effetti, sono poco
più che bambini. Per garantire un loro pieno inserimento nella realtà
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sociale e lavorativa, le risposte istituzionali dovrebbero tener conto di
queste aspettative e costruire insieme ai ragazzi percorsi educativi e
formativi.
Un’ultima categoria, infine riguarda i figli delle coppie miste,
ovvero quelli facenti parte delle famiglie formate da persone straniere che
si sposano o convivono con cittadini italiani. Si tratta in questo caso di
minori provenienti da una situazione famigliare problematica
(monoparentale, oppure segnata da una separazione fra i genitori), che
conoscono un “prima”, rappresentato da un percorso doloroso segnato da
separazioni sia dalle persone care che dal contesto in cui sono cresciuti, e
un “dopo”, dove, oltre alle problematiche connesse all’inserimento sociale
e scolastico devono affrontare anche le difficoltà che scaturiscono dalle
dinamiche inerenti la ricostruzione famigliare. Famiglie miste (Silva,
Campani, 2004) quindi, con situazioni complesse, modelli famigliari
diversi che a volte si trovano in grande contrasto e tensioni, in cui il minore
si trova spesso a vivere con grande disagio.
Oltre a quelle sopra descritte, esistono altre due tipologie di minori
stranieri che giungono in Italia, di cui spesso non ci si preoccupa perché
vengono immediatamente considerati italiani, anche se di fatto non lo
sono. Questi bambini vivono problematiche non dissimili a quelle dei figli
di immigrati.
La prima di queste tipologie comprende i ragazzi che arrivano in
Italia per adozione internazionale, portatori di una sofferenza psichica di
notevole entità, legata alla loro precedente storia di vita e alle condizioni
che hanno portato al loro stato di adottabilità.