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Introduzione
Da quando il Messico ha deciso di adottare la strategia di apertura commerciale,
a fine anni Ottanta, è stato oggetto di un’innumerevole quantità di investigazioni
economiche, interessate a valutare gli effetti prodotti dal piano riformatore. Dopo vari
decenni di politiche di sviluppo basate sulla Sostituzione di Importazioni, e un periodo
transitorio conseguente alla Crisi del Debito del 1982, il mercato emergente messicano
decideva di intraprendere la via della liberalizzazione commerciale. Diversi altri Paesi
dell’America Latina, contemporaneamente o più tardi rispetto al Messico, compivano
lo stesso passo. Per molti Paesi in via di sviluppo, il passaggio ad un sistema di
mercato veniva accompagnato da promesse di un miglioramento delle condizioni
generali dell’economia, che avrebbe garantito una crescita più stabile e sostenuta e un
contesto più favorevole per i lavoratori. I settori economici più esposti al commercio
internazionale, avrebbero potuto specializzarsi nella produzione di beni su cui il Paese
possedeva un vantaggio comparato rispetto all’estero; si prospettava che i benefici
derivati da questo processo si sarebbero tradotti in una maggiore capacità di assorbire
la crescente forza lavoro e in un miglioramento delle remunerazioni.
Il Messico rappresenta un caso di particolare interesse per svariate ragioni.
Innanzitutto, come detto, si tratta di uno dei primi Paesi latinoamericani ad aver
sperimentato la transizione verso un modello di sviluppo integrato con il mercato
globale. Nel 1986 il Paese entrò a far parte del GATT, e già dalla fine degli anni
Ottanta divenne destinatario di un significativo flusso di investimenti dall’estero. Al
momento delle trattative sulla firma del NAFTA, nei primi anni Novanta, il Messico
aveva già compiuto uno sforzo importante per ridurre le tariffe e quote dall’estero che
caratterizzavano il sistema protezionistico dei decenni precedenti.
In secondo luogo, l’attrattiva dell’esperienza messicana deriva dal fatto che lo
stimolo verso l’orientazione esterna dell’economia è stato compiuto con straordinario
successo, specialmente per quel che riguarda le esportazioni manifatturiere, che erano
state messe al centro del piano di sviluppo. Il Messico infatti, è stato l’unico Paese
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latinoamericano a raggiungere la capacità esportatrice manifatturiera delle economie
del sud est asiatico. Negli ultimi quindici anni l’export industriale è stato superiore
all’80% del totale.
Infine, la vicinanza geografica con il mercato più ampio al mondo, e più ambito
dai Paesi in via di sviluppo come recettore di prodotti esportati, quello degli Stati
Uniti, ha rappresentato un’opportunità importante di partnership economica. In effetti,
come dimostra la firma del Trattato di Libero Commercio del Nordamerica nel 1994,
da quando si è aperto al commercio internazionale il Messico ha trovato nel mercato
statunitense un importante destinatario di prodotti da esportazione, riuscendo a
rinsaldare il proprio legame commerciale con i due Paesi del Nord del continente. Il
crescente flusso di commercio estero ha fatto in modo di concretizzare l’auspicata
integrazione economica regionale, soprattutto attraverso la creazione di catene di
produzione verticalmente integrate.
Queste particolarità, insomma, spingono a prestare attenzione all’evoluzione
economica dello Stato messicano degli ultimi anni, indagando gli elementi di successo
e insuccesso della politica riformatrice adottata. Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi,
le misure di apertura commerciale sono state applicate con consistente coerenza dal
governo e dal Banco de México, secondo una strategia che ha avuto poche variazioni
sostanziali nel corso del periodo. Da quando si è deciso di intraprendere la via della
liberalizzazione, le linee guida della politica governativa sono state concentrate
anzitutto sulla ricerca di stabilità macroeconomica a livello nazionale, che la Banca
Centrale ha inteso sostanzialmente come il controllo del tasso di inflazione e il
contenimento del deficit pubblico. La stabilizzazione del sistema economico è stata
considerata il presupposto fondamentale per favorire l’attrazione di investimenti diretti
esteri. Le misure deflazionistiche sono state accompagnate da piani di privatizzazione
delle imprese di Stato, e dalla progressiva riduzione delle barriere di commercio
estero. Per lungo tempo, le amministrazioni messicane hanno deciso di insistere su
misure “orizzontali”, orientate all’intera economia piuttosto che a segmenti o settori
specifici. Solo negli ultimi anni si è cercato di introdurre un cambio di tendenza in
questo senso, che è stato però più nelle parole che nei fatti, visto che concretamente le
misure attuate non si sono distinte di molto da quelle degli anni Novanta.
A fronte di una politica economica messicana regolata secondo linee guida
costanti nel tempo, nell’ultimo decennio c’è stato un cambiamento importante del
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contesto economico internazionale in cui il mercato messicano è inserito. La buona
crescita degli USA negli ultimi anni del secolo scorso è rallentata ad inizio Duemila, e
ciò ha impattato fortemente anche sulla prestazione generale dell’economia messicana.
Inoltre, l’inserzione di nuovi attori nella globalizzazione, e specialmente la crescita
imponente dell’economia cinese, stanno modificando le gerarchie che il NAFTA
aveva avuto il merito di rafforzare. Per questa ragione, il Messico si trova in questi
anni davanti ad un bivio fondamentale: continuare ad insistere su una strategia che
faccia riferimento al basso costo della propria manodopera, o rivedere la propria
posizione nel contesto globale cercando, ad esempio, di puntare sulla realizzazione di
prodotti con una più alta componente tecnologica e di valore aggiunto.
In questo lavoro, si è tentato di offrire una valutazione dei risultati generali fatti
segnare dall’economia messicana durante il suo percorso di liberalizzazione
commerciale. Nella prima parte del primo capitolo sono stati discussi il fondamento e
le caratteristiche dei due modelli di sviluppo contrapposti adottati dal Messico (e in
America Latina), ovvero la Sostituzione di Importazioni e l’apertura commerciale.
Quindi, abbiamo tentato di delineare la ratio che ha spinto le istituzioni politico-
economiche messicane a propendere verso l’adozione del sistema di mercato,
abbandonando il modello autarchico che pure aveva garantito una crescita sostenuta
durante gli anni del “miracolo economico”. Un’ultima sezione del capitolo è dedicata
all’evoluzione storica delle imprese maquiladoras, delle aziende nate grazie ad un
piano di incentivi fiscali promosso dallo Stato messicano, volti a favorire le grandi
multinazionali estere che realizzavano in Messico l’assemblaggio dei propri prodotti.
Nel secondo capitolo è stata effettuata una prima analisi delle riforme, sul piano
macroeconomico. Lo svolgimento del tema è stato suddiviso in due sezioni, la prima
riguardante le variabili su cui le riforme hanno avuto l’impatto sperato, e una seconda
che analizza quelle su cui gli esiti sono stati deludenti, con particolare attenzione alla
crescita economica. Si è cercato di valutare la politica monetaria adottata per il
contenimento dell’inflazione, e le conseguenze che questa ha provocato anche sulla
struttura del commercio estero messicano. Infatti, la tendenza all’apprezzamento della
valuta nazionale scaturita dalla politica antinflazionistica, ha abbassato il prezzo dei
beni di importazioni, aumentando nel tempo il deficit di commercio estero. Questa
situazione ha generato un vincolo rispetto alla crescita del Prodotto interno lordo, che
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ha mantenuto la produzione a livelli inferiori rispetto a quanto si poteva auspicare, e
ha reso impossibile ridurre il gap di sviluppo economico che distanzia il Messico dagli
Stati Uniti. Il capitolo si chiude esaminando il contesto sociale e del lavoro, toccando
tre temi: per primo, si analizza la questione del lavoro irregolare, fenomeno
diffusissimo anche per l’inesistenza di sussidi di disoccupazione; in secondo luogo si
osserva l’andamento dei salari minimi reali dal 1980 ad oggi e per ultimo si valuta la
variazione della diseguaglianza di reddito tra cittadini ricchi e poveri.
Il terzo ed ultimo capitolo è dedicato all’impatto della liberalizzazione sul
mercato del lavoro manifatturiero. Prendendo a riferimento la letteratura
sull’argomento, è stato osservato il modo in cui salari reali e occupazione hanno
risposto al processo di riforma negli ultimi decenni. Per ottenere dei risultati più
affidabili, si è deciso di distinguere l’industria manifatturiera secondo il ramo
“classico” e quello delle imprese maquiladoras. La particolarità di queste imprese
rende ragionevole trattarle separatamente rispetto al resto della manifattura, nonostante
che, per effetto di nuovi programmi promossi dallo Stato, il loro stile di produzione si
stia progressivamente espandendo a tutta la manifattura.
Dopo aver trattato la questione del commercio estero dell’industria della
trasformazione, è stato approfondito lo studio dei due rami manifatturieri (maquila e
non-maquila), attraverso l’inclusione di un’indagine empirica disaggregata per settore
industriale. Secondo quanto evidenziato, le riforme sono molto lontane dal soddisfare
efficacemente la grande offerta di lavoro che fornisce il mercato messicano. Se nella
manifattura tradizionale l’apertura commerciale non sembra aver funzionato da
stimolo adeguato per la crescita del personale occupato, con un trend discendente dal
1987 ad oggi, nelle maquiladoras alla tendenza positiva fino al 2001 ha fatto seguito
un significativo rallentamento. L’analisi mostra che la liberalizzazione ha avuto
l’effetto di aumentare l’elasticità della domanda di lavoro al salario, rendendo meno
stabili le condizioni dei lavoratori messicani. Per quanto riguarda le retribuzioni dei
lavoratori, anche in questo caso abbiamo potuto osservare un andamento
insoddisfacente. I salari reali manifatturieri (specialmente nel segmento non-
maquiladoras) hanno seguito i cicli dell’economia messicana, ma con scarsa capacità
di recupero dai periodi di recessione, tanto che oggi corrispondono a malapena al loro
valore precedente alla crisi del 1982. Nelle imprese da assemblaggio per
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l’esportazione, solo recentemente si è potuto notare un incremento salariale, comunque
incerto, dopo una stagnazione ventennale. Negli ultimi anni però, si sta riducendo il
legame tra produttività del lavoro e remunerazioni, rendendo più difficile per i
lavoratori beneficiare, in termini di remunerazioni, dei miglioramenti di efficienza.
Nella manifattura classica, invece, il rapporto tra produttività e salari è sempre stato
molto basso, e nell’ultimo periodo del campione si evidenzia un ulteriore
indebolimento della relazione tra queste due variabili.
Le conclusioni riassumono quanto è stato osservato all’interno del lavoro, e
introducono possibili risposte politiche ed economiche ai problemi evidenziati.
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Capitolo 1: Il dibattito sullo sviluppo economico e l’evoluzione del Messico da un
sistema autarchico alla liberalizzazione commerciale
I. Diversi sistemi per lo sviluppo economico: il passaggio da Import-Substitution
a Export-Orientation
Per cominciare la nostra analisi del processo di sviluppo messicano, è doveroso
in primo luogo soffermarsi ad analizzare le diverse strategie di crescita che nel secolo
scorso sono state promosse in varie aree sottosviluppate del mondo. Ci soffermeremo
quindi a discutere e ad esaminare diverse correnti di pensiero, che hanno influenzato la
storia economica recente di diversi Paesi, Messico incluso. In effetti, l’evoluzione
economica di molte Nazioni è stata profondamente segnata dal dibattito sulla crescita,
e intere aree geografiche hanno dovuto verificare sulla propria pelle pregi e difetti
delle metodologie promosse. Il principale “laboratorio”, in questo senso, è stato
indubbiamente l’America Latina: anche per questo motivo risulta significativo
riepilogare l’evoluzione e le controversie legate al dibattito sullo sviluppo, con un
occhio di riguardo a quanto è accaduto nella regione latinoamericana. L’obiettivo sarà
quello di studiare le ragioni per le quali le diverse strategie venivano rilanciate dai loro
promotori, e lo scopo per cui erano proposte. Una volta completato tale discorso,
diverrà più chiaro il motivo per cui un Paese come il Messico ha recentemente deciso
di intraprendere la strada della liberalizzazione commerciale.
Lo scopo di questa parte introduttiva è perciò quello di distinguere i diversi
sistemi economici, ragionando sui loro effetti nella promozione dello sviluppo.
Durante questa prima analisi, si farà riferimento all’eterna dualità tra preponderanza
dello Stato e del Mercato come motore della crescita economica. La storia dello
sviluppo economico è stata storicamente sempre caratterizzata da questo dualismo, sin
dagli anni in cui Adam Smith scrisse “La ricchezza delle Nazioni” (1776) dando vita
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alla Scuola Classica inglese. Il grado di importanza dello Stato come regolatore della
crescita economica è uno degli elementi principali che distingue un sistema dall’altro.
Il primo serio confronto tra diverse metodologie di sviluppo ebbe luogo nel XIX
secolo, quando i Paesi europei di tardiva industrializzazione si stavano impegnando a
raggiungere il livello di avanzamento economico della Gran Bretagna. Così, quando
l’economista prussiano Friedrich List pubblicò “Sistema Nazionale di Politica
Economica” (1841), si consumò la prima vera rottura tra difensori del libero mercato e
fautori di un importante intervento pubblico nell’economia.
List era convinto che l’industria nascente di una Nazione avesse bisogno di
protezione rispetto alla concorrenza di mercati più sviluppati, e che dunque fossero
necessarie misure protezionistiche fino a quando l’economia non fosse pervenuta ad
una piena industrializzazione. Solo allora sarebbe risultata opportuna l’apertura al
commercio internazionale. Tale teoria confliggeva con quella dell’economista inglese
David Ricardo, che nel 1817 aveva presentato il sistema teorico del vantaggio
comparato. Secondo questa impostazione, il libero scambio di beni tra economie a due
stadi diversi di avanzamento industriale avrebbe garantito dei vantaggi evidenti per
entrambe
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. Diversamente, secondo List era desiderabile e necessario che lo Stato
imponesse delle protezioni al mercato nazionale, per mezzo di tariffe, sussidi e
attraverso il finanziamento di imprese strategiche per la crescita, nello specifico
evitando che i settori più svantaggiosi per la nascente industria tedesca fossero
occupati dai prodotti di fabbricazione inglese. Il ricavato delle misure protezionistiche,
secondo questa visione, avrebbe dovuto essere impiegato per la realizzazione di
public goods come infrastrutture e ricerca a supporto dell’industrializzazione (Hayami
e Godo, 2005).
Intorno alla metà del Novecento, a diversi decenni di distanza dal successo
dell’economia nazionalista tedesca, una ricetta di crescita che faceva riferimento ad
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Riassumiamo in maniera rapida e semplificata il modello Ricardo. Due Nazioni con differente capacità produttiva
per due beni differenti (A e B), avranno un vantaggio nello specializzarsi nella produzione del bene, tra i due, che
comporta per quella Nazione un costo produttivo inferiore. Una delle due Nazioni ha capacità produttive migliori
per il bene A, l’altra per il bene B. Una volta specializzatesi, le due Nazioni commerceranno tra loro, e il risultato
sarà una capacità produttiva globale superiore rispetto a quando le due Nazioni non si specializzavano. Questo
sistema funziona anche se una delle due Nazioni ha un vantaggio assoluto nella produzione di entrambi i beni,
ovvero se le sue capacità produttive sono migliori dell’altra Nazione sia per il bene A che per il bene B (Ricardo
1817).
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uno Stato interventista venne rilanciata con forza per i Paesi in via di sviluppo,
economicamente arretrati rispetto agli avanzati mercati occidentali. In particolare in
America Latina, il cosiddetto sistema di industrializzazione di Sostituzione di
Importazioni (Import-Substitution Industrialization, ISI) venne applicato su larga scala
dalle Nazioni che puntavano a proteggere la propria industria nazionale dalla
competizione internazionale. Uno Stato forte avrebbe dovuto consentire la
specializzazione nell’industria manifatturiera, vero motore della crescita (Prebisch,
1950). Tuttavia, nonostante alcuni evidenti successi del sistema ISI, nel lungo periodo
i paesi latinoamericani incorsero in vari problemi, come un alto livello di inflazione e
l’incapacità di gestire le grandi imprese pubbliche create. Il sistema di Sostituzione di
Importazioni dovette lasciare il passo alla “rinascita” della ricetta di sviluppo basata
sull’economia di mercato, con la Export-Oriented Industrialization (EOI), sulla spinta
della politica di sviluppo promossa dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la
Banca Mondiale (WB). La risposta dell’America Latina alla decada perdida (ovvero
gli anni Ottanta, decennio in cui la crescita della regione risultò stagnante) fu dunque il
ricorso a un modello di apertura commerciale, riducendo progressivamente il sistema
tariffario e procedendo a mettere in pratica un vasto programma di privatizzazioni.
E’ importante quindi ripercorrere le ragioni ispiratrici dei due modelli di
sviluppo adottati in America Latina nel secolo scorso (ISI e EOI), comprendendo le
motivazioni che hanno portato i policy makers locali al passaggio da un sistema a
mercato chiuso ad uno che punta alla crescita attraverso il libero scambio
internazionale.
1.1 La corrente desarrollista e il sistema di Import-Substitution Industrialization
Gli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione del 1929, furono in
America Latina un periodo transitorio caratterizzato da tensioni politiche e sociali.
Solamente a partire dagli anni Quaranta, mentre andava emergendo il modello politico
populista in diversi Paesi, si tentò di mettere a punto un efficace piano di rilancio delle
economie locali. Si realizzò in effetti un consenso tra le oligarchie, le associazioni
sindacali e la classe imprenditoriale dei maggiori Stati della regione su un programma
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di riforme che faceva riferimento alla filosofia dello sviluppo “strutturalista”, il cui
padre nobile era Raúl Prebisch
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, noto economista argentino.
La visione di Prebisch puntava alla risoluzione dei problemi endemici delle
economie latinoamericane, e si proponeva in generale come una formula di crescita da
applicare ai paesi a sviluppo ritardato. Le ragioni dell’arretratezza della regione erano
legate alla maniera in cui era strutturato il contesto economico internazionale basato
sul libero scambio. La causa del rapporto economico svantaggioso dei Paesi in via di
sviluppo rispetto a quelli più avanzati si fondava, secondo Prebisch, sul declino
progressivo delle ragioni di scambio delle materie prime in rapporto ai prodotti
manifatturieri: egli era convinto che la domanda mondiale fosse inelastica rispetto al
prezzo delle materie prime, tale da costringere i Paesi latinoamericani ad acquistare
beni dall’estero ad un prezzo relativo sempre più sconveniente. Lo sforzo degli Stati di
acquisire competitività internazionale era dunque limitato, a causa della riduzione dei
prezzi dell’export (soprattutto materie prime) in rapporto all’import (soprattutto
prodotti manifatturieri), con l’effetto di generare dei crescenti deficit di conto corrente
nei bilanci di commercio estero. Il sistema di libero scambio internazionale, secondo la
sua visione, funzionava come meccanismo di trasferimento del reddito dalla periferia
sottosviluppata al centro più avanzato (Prebisch, 1950).
La soluzione di politica economica offerta dallo strutturalismo “sviluppista” (o
“desarrollista”), prevedeva un ruolo fondamentale dello Stato per risolvere questo
rapporto diseguale di commercio internazionale, attraverso il rilancio di un piano di
industrializzazione fondato sulla creazione di una nuova industria manifatturiera. I
sostenitori della strategia di Sostituzione di Importazioni credevano in una
specializzazione manifatturiera interna protetta dall’aggressiva concorrenza dei
prodotti provenienti dai Paesi più sviluppati, mediante un sistema di tariffe, sussidi e
quote di importazione (Prebisch, 1959). A livello nazionale, l’avanzamento
dell’industrializzazione sarebbe dovuto servire al superamento delle concentrazioni del
potere economico e politico derivante dall’eredità del sistema proprietario latifondista.
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Prebisch ricoprì ruoli di primo piano in più istituzioni internazionali, da cui poté diffondere le proprie idee
economiche. Nel 1950 venne eletto direttore della neonata CEPAL (Comisión Económica para América Latina y el
Caribe), organo dell’ONU, e vi rimase fino al 1963. Fu poi tra i fondatori dell’UNCTAD (United Nations Conference
on Trade and Development), divenendone il primo segretario generale. In carica dal 1964 al 1969, si batté per
promuovere l’autosufficienza economica dei Paesi in via di sviluppo, e criticò l’evoluzione che avevano preso le
politiche di ISI.
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Le gravi diseguaglianze dovute alla concentrazione della terra erano uno dei problemi
cruciali del sottosviluppo latinoamericano, secondo la visione strutturalista. La
promozione dello sviluppo industriale sarebbe stata l’alternativa necessaria per
superare il grave stallo esistente, che per anni era stato causa di instabilità politica e
sociale.
Secondo lo schema di sviluppo desarrollista, dunque, in un primo momento il
Paese avrebbe dovuto promuovere la produzione di beni di consumo (sottraendosi
all’importazione di tali prodotti dall’estero), creando opportunità di investimento per
l’imprenditoria nazionale: attraverso l’intervento dello Stato nell’economia, sarebbe
stata stimolata la domanda aggregata di prodotti intermedi. Solo allora il sistema di
protezione doganale si sarebbe allargato includendo restrizioni sulle importazioni di
questi ultimi beni (intermedi), garantendo uno stadio successivo nel processo di
industrializzazione. Alle misure protezionistiche di quote e tariffe di frontiera veniva
accompagnato, almeno inizialmente, un tasso di cambio sopravvalutato della moneta
nazionale, che garantisse ai produttori interni di acquistare a prezzo vantaggioso i beni
di capitale ed intermedi, necessari per dare il via al processo di industrializzazione
(Prebisch, 1959).
La politica economica dello strutturalismo puntava dunque ad una progressiva
accumulazione di capitale attraverso gli investimenti privati e pubblici, rimanendo
sensibile all’obiettivo del risparmio privato e del buon utilizzo degli investimenti
diretti esteri (Prebisch, 1950). In ultima analisi, come ricorda Grilli (2005), è
importante mettere l’accento sul fatto che il vero obiettivo degli strutturalisti non era
quello di una crescita fine a se stessa, ma era piuttosto quello di uno sviluppo che fosse
in grado di modificare la configurazione politica e sociale dell’intera regione
latinoamericana, risolvendone una volta per tutte le spinose questioni legate alle
profonde disparità di reddito esistenti.
Nonostante i successi del modello ISI in termini di crescita del prodotto
nazionale, nel caso latinoamericano si verificarono alcuni dei problemi di government
failure che possono interessare i casi di sistemi economici fondati sulla preponderanza
statale. Una volta definito un preciso apparato di allocazione di risorse per la crescita,
risulta complicato modificare tale struttura secondo lo specifico bisogno sociale del
momento. Le istituzioni create grazie ai fondi pubblici possono impiegare una parte