3
INTRODUZIONE
Nel territorio provinciale di Ferrara, più precisamente nella periferia sud-est della città, si trova un
sito molto particolare, conosciuto per lo più dagli studenti delle scuole secondarie e dagli
universitari della zona, che talvolta ne hanno fatto la mèta di “pellegrinaggi dell’orrore”.
Si tratta delle rovine di un ex Istituto Medico Pedagogico, una sorta di manicomio minorile gestito
dalla sezione ferrarese della Croce Rossa, e attivo per un quindicennio, tra gli anni Sessanta e gli
anni Settanta.
Sul luogo circolano svariate dicerie, concordi nel denunciare che nel sito si sarebbe dipanata una
storia di dolore, emarginazione e violenze.
Scegliendo di “vedere” l’Istituto in questione sotto la lente della Pedagogia Sociale e della
Marginalità, si è tentato di svolgere una ricerca di etnografia pedagogica, mediante la quale
ricostruire la “vera” storia dell’Organizzazione, valutare criticamente la fondatezza o meno delle
voci circolanti su di essa, e proporre alcune riflessioni di carattere pedagogico ed antropologico.
Il primo capitolo introduce l’argomento mediante la presentazione del lessico e della semantica
della marginalità; si vedrà in particolare quale dovette essere il modello concettuale sottostante alla
realizzazione ed alla conduzione di un I.M.P.P. come quello in esame.
Nel secondo capitolo, anche attraverso l’ausilio di un’opera pittorica di Caspar David Friedrich,
autore del Romanticismo tedesco (celebre per i numerosi paesaggi espressivi dell’elemento del
“sublime” romantico), adottando la prospettiva teorica di Gregory Bateson si illustrerà come la
relazione tra l’inquietante visione frontale degli attuali ruderi del Pedagogico e le caratteristiche
dell’istituzione totale che in esso fu ospitato possa risultare densa di significati.
Il capitolo successivo raccoglie tutte le voci sul sito in questione, reperite in particolare in due
mezzi di comunicazione di massa: internet e la televisione. Riguardo a quest’ultima, si porranno in
luce le caratteristiche di un servizio andato in onda nella trasmissione “Mistero” su Italia 1, a
proposito dell’immobile lì definito come “l’inferno di Aguscello”.
Il quarto capitolo costituisce il cuore dell’elaborato, in quanto presenta una dettagliata ricostruzione
della storia dell’Istitito Medico Pedagogico di Aguscello basata su diverse fonti d’archivio.
Nel quinto capitolo, infine, si propongono alcune riflessioni sul fenomeno studiato. Nella prima
parte, utilizzando una relazione pubblicata nell’ottobre del 1971 dall’équipe dell’I.M.P.P., si
illustrerà come la proposta “medico-pedagogica” di un’istituzione di questo tipo non possa che
risultare, dalla prospettiva della Scienza dell’Educazione, asfittica, unilaterale ed assai carente.
Nella seconda parte, adottando la “lente” dell’Antropologia Culturale e della Storia delle Religioni,
si proporrà un’ipotesi che ci aiuti ad interpretare il “movimento” creatosi attorno ai ruderi di
Aguscello.
4
I
EPISTEMOLOGIA DELLA MARGINALITA’
Il lessico della marginalità
I Ruderi dell’ex istituto pedagogico infantile CRI si trovano in via del Parco al civico 33, all’esterno
del paese di Aguscello, che, a sua volta, è situato nella cintura periferica più esterna della città di
Ferrara. All’esterno, dunque; o, meglio: ai margini.
Le prime testimonianze documentali sullo stabile risalgono agli anni Sessanta del XIX sec; esso
rientrava tra le proprietà del Seminario Arcivescovile, che in Aguscello aveva la propria sede
estiva
1
. Una marginalità che, agli albori, aveva un carattere positivo, dal momento che significava la
possibilità, per i superiori ed i seminaristi, di trascorrere i roventi mesi estivi in un ambiente più
favorevole rispetto all’allora sede di via Cairoli
2
.
Una marginalità che mantenne anche in seguito questa prerogativa, quando lo stabile di via del
Parco fu trasformato nel 1932 in clinica per i malati di tubercolosi
3
.
Una marginalità che parrebbe riduttivo veder motivata esclusivamente da esigenze geografiche o
climatiche quando la Croce Rossa acquisterà l’immobile nel 1961 dopo averlo già adibito due anni
prima, ad istituto medico pedagogico per malati psichici
4
.
All’epoca, un articolo de “Il Resto del Carlino”
5
sembra condensare l’atteggiamento culturale della
“Normalità” nei confronti della “Non-normalità” mediante l’utilizzo di una terminologia e di un
frasario alquanto significativi; già l’occhiello risulta alquanto emblematico: “L’assistenza ai
bambini subnormali”. L’articolo, nel descrivere le caratteristiche dell’istituto di Aguscello, si
riferisce ai piccoli ospiti definendoli “giovani minorati psichici”, “bimbi minorati”, “fanciulli
purtroppo mai completamente recuperabili”, “bimbi subnormali […] che […] vivono attualmente
una vita assai labile”, “sfortunati ragazzi”, “bambini sfortunati”. Inoltre, in un passaggio, l’istituto è
chiamato “Centro di assistenza per subnormali”. Là dove il giornalista passa a descrivere il legame
tra il Pedagogico di Aguscello e la scuola speciale “Merletti” di Ferrara (dove gli alunni venivano
quotidianamente condotti in ambulanza), si elogia il lavoro delle “14 insegnanti specializzate”, le
quali “sembrano […] dirigere i ragazzi in un gioco continuo, senza affaticare le deboli menti,
1
Harteros M., Arveda P., Ex istituto pedagogico infantile di Aguscello. Ipotesi di riuso, Ferrara, Università degli Studi
di Ferrara – Facoltà di Architettura, 2006, p. 4; Archivio storico del Seminario, Villa della Misericordia, scatola 381;
Archivio storico del Seminario, Aguscello 1857-72, scatola 382; Archivio storico del Seminario, Pianta della
possessione in Aguscello (1866), scatola 221.
2
Cfr. la pagina web “Breve storia” sul sito http://www.cittadelragazzo.it
3
Harteros M., Arveda P., op. cit., p.6.
4
Ibidem.
5
L’istituto medico pedagogico CRI: un centro che deve essere potenziato, ne Il Resto del Carlino, 17/05/1967, p. 5.
5
favoriscono la iniziativa personale, non mortificano la vivacità irrefrenabile di questi bambini, e
ottengono risultati insperati”. Infine il cronista, intervistando il presidente provinciale della CRI a
proposito dei progetti relativi all’istituto di via del Parco, registra come nell’intento della Direzione
vi sia l’ipotesi della costruzione di una piscina, di altri impianti sportivi e di alcuni “laboratori per
dare la possibilità ai giovani ricoverati di apprendere un mestiere e di porsi in grado di guadagnarsi
la vita”.
L’articolo de “Il Resto del Carlino”, dunque, nel parlare degli alunni del Pedagogico, è tutto un
susseguirsi di particelle privative, di prefissi poco edificanti e aggettivi diretti a circoscrivere la loro
condizione come assai distante dalla rassicurante normalità. Una condizione relativa ad un mondo-
“altro” che ben poco può e deve aver a che fare con il mondo-“questo”. Un mondo altro, ancora,
che deve essere chiaramente circoscritto, controllato e presieduto dall’abile regia dell’associazione
assistenzialistica di turno.
Ciò che si è detto sinora dell’istituto di Aguscello, permette di ripercorrere le peculiarità
fondamentali del grande tema della marginalità in chiave pedagogica.
Carlo Pancera
6
, all’interno di un percorso in cui sono concentrate le icone storiche
dell’emarginazione estrema, distilla la fraseologia e la nomenclatura che, nel corso del tempo,
hanno siglato i soggetti “ai margini”. Lo studioso, partendo dall’evocazione del deforme gettato
dalla rupe Tarpea e dallo storpio-maledetto del medioevo, sottolinea come la diversità sia sempre
stata associata all’idea di margine, portando il “diverso” ad essere, se non “emarginato”, quanto
meno “marginale”. Storicamente sono stati avvertiti come “diversi” ad extra gli appartenenti ad
altre culture (i pagani delle terre barbariche) o ad altre religioni (come gli infedeli dei paesi
mussulmani), mentre come “diversi” ad intra i relegati su frontiere interne (fuorilegge, perseguitati,
eremiti, santoni, briganti, eretici, streghe, adepti di sette clandestine…).
Un altro campo dell’emarginazione riguarda la difformità-deformità: mentre nel tardo medioevo gli
individui malformati erano ritenuti il frutto di rapporti peccaminosi, e dunque la loro condizione
doveva essere il segno di una riprovazione divina, nel Cinque e Seicento si riteneva inammissibile
pensare che l’opera del Creatore, sana e perfetta nella sua logica, potesse dare origine alla
deformità; in tal modo i deformi erano considerati come un’aberrante ed imbarazzante eccezione da
censurare. Il Settecento, poi, è il secolo in cui nasce e si sviluppa la “teratologia”, scienza deputata
allo studio ed alla classificazione dei “mostri”. Nella stessa epoca, poi, si assiste alla notevole
espansione del fenomeno dell’istituzionalizzazione, con la diffusione di ospizi e ghetti sociali di
diverso tipo.
6
Gramigna A., Righetti M, Pedagogia solidale. La formazione nell’emarginazione, Milano, Unicopli, 2006, pp. 21-60.
6
L’emarginazione “di fatto” è sempre stata accompagnata da una violenta “emarginazione di nome”;
raccogliendo i passaggi più forti di Pancera, coloro che risultavano alla vista “diversi” venivano
bollati come maledetti, scemi del villaggio, dementi, deformi, sbagli della Natura, deficienti,
anormali, folli, ciechi, malati, non adulti, non sani, inutili, menomati, pericolosi, disturbati,
imbecilli.
Quanto posto in evidenza illustra da una parte l’esistenza di una società lecitamente abilitata a
vivere “alla luce del sole”, dall’altra la sub-esistenza di “scarti umani”
7
da porre in ambienti protetti
o, in ogni caso, sotto controllo.
Marco Righetti
8
sistematizza il mondo della marginalità in quattro grandi gruppi: vi sarebbero
marginali per forza (lo schiavo, il contadino-bracciante), marginali per definizione (il barbaro, il
pagano, il selvaggio, il vagabondo, il miserabile, il malato di mente, l’handicappato fisico, ma anche
l’operaio, il nuovo emarginato della modernità), marginali per natura (il disabile, il bambino nei
confronti dell’età adulta, la donna discriminata da tempo immemorabile per la differenza sessuale
rispetto al fallogocentrismo, l’anziano) e infine marginali per protesta (i barboni, gli eretici, gli
omosessuali…).
Il modello sottostante a questo tipo di mentalità è costituito da un etnocentrismo culturale
fortemente resistente, che distribuisce manicheamente l’umanità tra “centro” e “margine”
9
: il centro
sarebbe il regno della normalità, della libertà, dei diritti, della cultura “vera”, mentre il margine
sarebbe la zona in cui tutto questo sfuma progressivamente verso un’umanità diversa, dimessa,
bollata permanentemente dai prefissi a-, sub- ed extra-.
A questo modello fanno capo presunti valori quali il colonialismo culturale, la sudditanza
psicologico-culturale, la propaganda dell’uniformità, l’omologazione, l’unilateralità
10
, ed il
tentativo di attuare una rassicurante normalizzazione (come inizialmente praticato dal dottor Itard
nei confronti del piccolo Victor, il selvaggio dell’Aveyron
11
).
7
Cfr. Baumann Z., Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza 2005.
8
Cfr. Gramigna A., Righetti M., …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità,
Bologna, CLUEB, 2001, pp. 35-57.
9 Ibidem, p.7; cfr. anche Gramigna A., L’organizzazione della conoscenza. Mappe cognitive per la formazione nel
sociale, Ferrara, Este Edition, 2011, pp. 57-58.
10
Cfr. Righetti M., Organizzazione e progettazione formativa, Milano, Franco Angeli, 2007, pp.46-48.
11
Cfr. Gramigna A., Righetti M., …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità,
Bologna, CLUEB, 2001, pp. 21-25.
7
Per questo modello, quindi, la difformità rispetto al “centro” deve essere destinataria di un’opera di
ri-educazione, con-versione e normalizzazione, all’interno di un circuito intellettuale che ritiene il
margine privo di senso e di dignità auto, nomi
12
.
Risulta abbastanza evidente, a questo punto, come il Pedagogico di Aguscello e la scuola speciale
Merletti di Ferrara corrispondessero a questa prospettiva, proponendo, a fronte del problema della
“diversità” dei minori ferraresi, una risposta a carattere reclusivo-segregativo.
La semantica della marginalità
Nel dibattito contemporaneo (vedi Bibliografia), la pedagogia sociale propone un’impostazione
decisamente diversa rispetto al modello sopra illustrato, talmente diversa da risultare rivoluzionaria,
opposta: essa infatti, a partire dalla de-costruzione della dimensione ideologica dei “margini” e dei
“centri”, giunge a negarne l’esistenza
13
.
In tal modo, sovvertendo il comune etnocentrismo, la pedagogia può tradursi in una pedagogia di
confine
14
, che focalizza la propria attenzione sull’arbitrarietà e sulla relatività dei punti di vista
centro-margine, si dipana sui binari di un’ermeneutica decostruttrice
15
indicando come necessaria la
permanenza del processo del disapprendimento
16
, e proprio collocando la conoscenza in una
dimensione meta (conoscenza della conoscenza), riesce a scrutare l’emarginazione in un’ottica
sistemica, nella quale il marginale ed il contesto si trovano in un rapporto complesso
17
.
È uno sguardo particolare e dinamico quello che viene suggerito da questa prospettiva, “uno
sguardo che non esclude, che valorizza le differenze come segni irripetibili e autentici, che è in
grado di raccogliere i significati nella differenza rispetto alla propria identità culturale, etica,
sociale. Si tratta di un orientamento dell’osservazione che non parte dal proprio punto di vista come
esclusivo, o come detentore del massimo significato, ma anzi che può spostare il fascio di luce di
tale direzionalità alla ricerca di significati altri che la possano arricchire”
18
.
L’impostazione della pedagogia sociale è strutturata attorno ad alcuni nuclei concettuali fondanti; il
primo di questi è dato dalla “differenza”.
12
Cfr. Gramigna A., Righetti M, Pedagogia solidale. La formazione nell’emarginazione, Milano, Unicopli, 2006, pp.
86-93.
13
Cfr. Gramigna A., Righetti M., …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità,
Bologna, CLUEB, 2001, p. 121.
14
Cfr. ibidem, p. 8.
15
Cfr. Gramigna A., Righetti M, Pedagogia solidale. La formazione nell’emarginazione, Milano, Unicopli, 2006, p.83.
16
Cfr. Righetti M., Organizzazione e progettazione formativa, Milano, Franco Angeli, 2007, p 26.
17
Cfr. Gramigna A., L’organizzazione della conoscenza. Mappe cognitive per la formazione nel sociale, Ferrara, Este
Edition, 2011, p. 55.
18
Gramigna A., Righetti M, Pedagogia solidale. La formazione nell’emarginazione, Milano, Unicopli, 2006, pp. 82-83.
8
Si è già sottolineato come, in un’ottica etnocentrica, questa rivesta una connotazione negativa, dal
momento che “differenza” già demarca una geografia ben precisa, nella quale la diversità può
sfociare nell’alterità, l’alterità nella devianza, la devianza nell’estraneità, l’estraneità nel margine
19
.
Secondo il modello pedagogico, invece, la “differenza” rappresenta un diritto
20
da tutelare
21
in
quanto potenziale ricchezza per tutti i soggetti in gioco, tanto i “centrali” quanto i “periferici”.
In una lezione del corso di Didattica e Pedagogia Speciale svoltasi durante l’Anno Accademico
2010/2011 nell’Ateneo ferrarese, il prof. Giovanni Genovesi, a partire dall’esempio storico
dell’impero romano, trattò il tema della differenza nei suoi due possibili e opposti esiti della
multietnicità e dell’intercultura. Più nel dettaglio, fu illustrato come l’impero romano fosse un
“calderone” contenente diverse culture giustapposte ed obbligate a considerare Roma il centro di
riferimento (da tutti i punti di vista, compreso quello amministrativo e culturale). Con la
multietnicità, dunque, si prende atto delle differenze, ma solo per stabilire una gerarchia di valori di
riferimento a cui polarizzarsi, in un’ottica omologante ed uni-versale/uni-direzionale.
Al contrario, il modello dell’interculturalità riconosce le differenze come ricchezze da porre in un
sistema dialogico multi-direzionale, nel quale ciascun membro od ente gode di pari dignità.
Il richiamo a quella lezione universitaria pone in ulteriore risalto quale sia l’atteggiamento della
pedagogia nei confronti della differenza.
Si tocca così il secondo nucleo concettuale che fonda la pedagogia sociale: il multiversum
22
.
Questo, indicando la grettezza di certo etnocentrismo basato su di un universum, ne smantella
l’inamovibile unilateralità, l’elefantiaca gerarchia e l’immutabile assetto, proponendo la pluralità (di
punti di vista, di scambi direzionali, di pensieri, di ideali) come valore fondamentale
23
.
Strettamente legato al concetto di multiversum vi è quello di policentrismo
24
: se nell’ottica della
pedagogia sociale non ha più senso l’esistenza di “centri” e di “margini”, dal momento che tutti i
soggetti chiamati in causa nel sistema-società possiedono pari diritto di cittadinanza, di senso e di
dignità, allora ogni soggetto rappresenta un centro in rete con gli altri centri, all’interno di una
relazione osmotica e pluridirezionale.
19
Cfr. ibidem, p. 71.
20
Cfr. Gramigna A., Righetti M, Diritti Umani. Interventi formativi nella scuola e nel sociale, Pisa, ETS, 2005, p. 161
sgg.
21
Cfr. Righetti M., Organizzazione e progettazione formativa, Milano, Franco Angeli, 2007, p 52.
22
Cfr. Gramigna A., Righetti M, Diritti Umani. Interventi formativi nella scuola e nel sociale, Pisa, ETS, 2005, pp17-
18.
23
Cfr. Righetti M., Organizzazione e progettazione formativa, Milano, Franco Angeli, 2007, p 29.
24
Cfr. Gramigna A., Righetti M, Diritti Umani. Interventi formativi nella scuola e nel sociale, Pisa, ETS, 2005, p. 39.
9
L’opera di diafanizzazione operata dalla pedagogia sociale arriva quindi ad indicare nella
complessità la categoria fondamentale del multiversum che abitiamo e che ci co-costruisce
25
; non
più, quindi, linearità, gerarchia, univocità, uni direzionalità e semplicità.
All’interno di un sistema così disegnato, assume un ruolo di prim’ordine il dialogo
26
: questo, a
differenza dell’univocità della fonte e della direzione data dal monologo, parte dal presupposto che
ciascun soggetto dialogante sia sorgente di significato e co-costruttore di processi di conoscenza,
all’interno di un cantiere nel quale l’interscambio delle diverse soggettività rappresenta la fucina di
ricchezze sempre nuove. Il pensiero che scaturisce dal dialogo così inteso non può che essere
“aperto, plurale, errante”
27
.
È a questo punto che va sottolineato il ruolo assunto nella pedagogia sociale dall’errore
28
. Se dal
punto di vista etimologico “errare” possiede il duplice significato di sbagliare e di esplorare, si può
intuire il perché tale concetto rappresenti una delle grandi parole chiavi della pedagogia sociale. Un
pensiero erratico rifiuta copioni, programmi e dogmi; valorizza la ricerca; persegue una continua
trasformazione; sa ri-adattarsi incessantemente a camminare su percorsi altri; adotta un metodo che
impara strada facendo; trae la propria forza da due avverbi: “oltre” ed “altrove”; è permanentemente
dis-adattato, se ciò coincide con l’accezione più feconda e positiva di “anticonformismo”; non teme
di accettare la sfida di approfondire la dimensione generativa data dal caos del margine.
L’ultimo grande tema fondativo per la pedagogia sociale è quello della democrazia cognitiva
29
.
Abbracciando in pienezza l’ideale pansofico di Comenio
30
, il modello pedagogico propone una
piena ed autentica democraticità educativa, dal momento che l’educazione non è tale se dimentica
un settore della società. In tal modo assume un ruolo centrale l’interrelazione del soggetto col
mondo, con tutto il mondo, anche con quello che appare ai margini. La conoscenza che scaturisce
da questa prospettiva sistemica è di tipo complesso (essendo il soggetto incluso nel contesto che è
oggetto della sua analisi) e responsabilizzante (dato che stimola ad elaborare atti e cognizioni di
responsabilità, legando l’azione al contesto).
La pedagogia sociale, quindi, prendendo atto dei prodotti storici dell’etnocentrismo autoreferenziale
(e in particolare la tendenza a segregare in “presepi” istituzionali i dis-integrati di turno), propone
un’opera di progressiva diafanizzazione ideologica, il progetto di smantellamento delle retoriche
25
Ibidem, p.19.
26
Cfr. Gramigna A., Righetti M., …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità,
Bologna, CLUEB, 2001, p. 122; cfr. anche Gramigna A., Righetti M, Diritti Umani. Interventi formativi nella scuola e
nel sociale, Pisa, ETS, 2005, pp75-76.
27
Ibidem, p. 93.
28
Cfr. ibidem, p. 64; cfr. anche Gramigna A., L’organizzazione della conoscenza. Mappe cognitive per la formazione
nel sociale, Ferrara, Este Edition, 2011, pp. 123-132.
29
Cfr. ibidem, pp.37-40.
30
Cfr. Gramigna A., Righetti M., …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità,
Bologna, CLUEB, 2001, pp. 119-120.
10
sottostanti, e l’impegno alla ricerca per edificare un mondo più abitabile, per tutti e nel pieno
rispetto della dignità-libertà-responsabilità di ciascuno.
L’Istituto Medico Pedagogico di Aguscello e la Scuola Speciale “Merletti”, pur nella lodevole
intenzione della sezione ferrarese della CRI di fronteggiare la condizione di disagio di molti
bambini, accolsero ed incarnarono il modello reclusivo-segregativo allora così diffuso, provvedendo
a sottrarre dalla società (per quanto temporaneamente) elementi imbarazzanti, non conformi ai
canoni convenzionali di “normalità” e prossimità al “centro”, per poi tentare di formarli e cesellarli
nella direzione di un recupero di una forma ritenuta “accettabile” e più “convenzionale”, a discapito
di un più marcato e rispettoso riconoscimento della responsabilità, dell’autonomia e della libertà
personali.