renze tali da permetterci di distinguere effetti sonori “vecchi” da ef-
fetti sonori “nuovi” e di individuare nella loro evoluzione la forma-
zione di un linguaggio.
Il linguaggio degli effetti sonori testimonierebbe la multiforme na-
tura della musica elettroacustica, non più facilmente identificabile
come linguaggio a se stante ma forma madre dei nuovi linguaggi “so-
nori” del Novecento.
Gli strumenti d’analisi degli effetti sonori sono forniti dalla teoria
della musica elettroacustica che ha un testo capitale nel Traité des
objets musicaux di Pierre Schaeffer. Integreremo nel nostro scritto la
teoria della musica elettroacustica con i concetti elaborati da Michel
Chion, l’unico teorico del cinema che si è avventurato nello studio si-
stematico degli effetti sonori producendo un importante contributo te-
orico.
I risultati della nostra ricerca saranno riportati su una serie di schede
da noi elaborate per la valutazione delle caratteristiche degli effetti so-
nori nei film.
Il risvolto metodologico e didattico di questo scritto è nella proce-
dura d’analisi degli effetti sonori che qui proponiamo. Studieremo, in-
fatti, gli effetti sonori nei film attraverso un approccio psico-percet-
tivo, che assegna all’ascolto un valore primario nella comprensione
dei suoni.
VI
A Laura e Valeria
VII
Capitolo I
Una materia sfuggevole e polimorfa: gli effetti sonori nel
cinema. Definizione e proposta d’analisi
I.1 Alla ricerca del rumore perduto… nella teoria del
cinema
[…] i rumori, questi oscuri fantaccini, sono stati disprezzati dalla teoria, che finora ha
accordato loro soltanto un valore puramente utilitario e figurativo, in tal modo trascurandoli
1
.
Poche e incisive parole con cui Michel Chion, compositore di musica
elettroacustica, critico cinematografico e regista di film e video, dise-
gna, all’inizio degli anni Novanta, un quadro di come la componente
elettroacustica degli audiovisivi fosse trascurata dai teorici del cinema.
Ci è piaciuto cominciare con questa sorta di epigrafe, perché ci sem-
bra che a distanza di quindici anni non sia cambiato molto nel settore
dell’analisi del cinema: a fronte di migliaia di studi sulla musica, di
numerosi lavori sui dialoghi e di alcuni saggi sulla voce i rumori
mantengono ancora lo status di reietti del cinema.
Le motivazioni di questa inadeguata considerazione dei rumori in
sede analitica sono molteplici.
Innanzi tutto nel passato, dagli anni Trenta del cinema classico, vi
erano forti limiti per l’acquisizione e l’elaborazione del suono, dovuti
a strumentazioni che impedivano di ottenere una qualità sonora soddi-
sfacente a un uso efficace del rumore. I rumori
1
Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990 (trad. it.
L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2001, p.124).
1
non suonavano bene con le vecchie tecnologie e disturbavano con la loro semplice
presenza la comprensione dei dialoghi. Si preferì dunque cancellarli o sostituirli con
sonorizzazioni stilizzate.
2
Esistono poi motivazioni culturali che annegano nel pregiudizio ogni
tentativo di valorizzare la dimensione sonoriale del rumore e di consi-
derarla alla pari degli altri codici linguistici come la parola e come la
musica:
il rumore è un elemento del mondo sensibile totalmente svalutato sul piano estetico; è
sufficiente considerare i sarcasmi e le resistenze che scatena ancora oggi, anche presso persone
colte, l’idea che con il rumore si possa fare musica.
3
I vincoli dovuti alle tecnologie sono ormai superati, e oggi si dispone
di mezzi che rendono il rumore, registrato ed elaborato, estremamente
fedele all’immagine sonora che si ha in mente di ricostruire.
Non solo, ma l’utilizzo del rumore è fortemente ricercato dai registi
odierni per la dimensione spettacolare di cui si arricchisce il film:
l’altissima definizione del suono, il moltiplicarsi del numero degli al-
toparlanti in sala e la loro potenza dinamica fanno sì che il suono as-
suma una materia e una presenza sempre maggiori.
Perché allora il rumore è considerato ancora oggi come un riempi-
mento sonoro, come un corredo intercambiabile e indifferente, o poco
interferente, con l’imponente, ipercodificato e iperstilizzato mondo
della colonna sonora?
Siamo convinti che se le sorti del rumore non siano cambiate di
molto dagli anni Novanta delle riflessioni di Chion, ciò è dovuto a una
diffusa confusione dei teorici del cinema riguardo alla questione del
rumore. L’imbarazzo nei confronti di una sostanza così sfuggevole e
così carica di pregiudizi, spesso diffusi dagli stessi musicisti, ha tro-
vato scampo solo nelle dense nebbie innalzate dalla proliferazione e
dalla sovrapposizione di definizioni che hanno smembrato la già esile
2
ibid., p.124.
3
ibid., p.124.
2
consistenza della costituzione del concetto di rumore. Così ridotto il
rumore, benché ineliminabile, almeno non può nuocere più di tanto.
Un esempio lampante e “commerciale” di questa confusione è for-
nito dalle categorie dei premi Oscar dove il rumore ritrova il proprio
statuto all’interno di almeno tre categorie: colonna sonora, montaggio
sonoro e effetti speciali.
Per chiarirci un po’ le idee in termini di definizioni, proviamo a con-
sultare qualche dizionario del cinema. Innanzitutto notiamo che in
nessun dizionario da noi consultato appare la voce “effetti sonori” né
quella “rumori”. Allora proviamo a cercare la voce “effetti speciali” e
ritroviamo le seguenti definizioni:
1) Noti anche come SPFX dall’avvento dell’elettronica prima e del digitale poi, gli effetti
speciali hanno progressivamente cambiato buona parte del panorama produttivo del
cinema (in particolare quello angloamericano), modificando l’iconografia, accentuando la
capacità di penetrazione sul mercato di alcuni generi (fantastico, fantascienza, horror e
film d’animazione in primis), creandone di nuovi e spostando oltre misura le frontiere
della visualizzazione della fantasia per rendere «visibile» e verosimile anche
l’impossibile e l’irreale […]
4
.
2) Nei crediti dei film si suole distinguere: effetti speciali visivi ed effetti speciali sonori. Ma
gli effetti speciali propriamente detti sono quelli visivi. […]
5
.
3) Pour le son, tous les effets résultant de la reconstitution, de l’enregistrement, du filtrage,
de la déformation, de la postsynchronisation et du mixage. […]
6
.
Solo il Dictionnaire théorique et critique du cinéma contempla il
caso del suono, in quanto effetto sonoro, e ne dà una breve casistica di
applicazioni; i due dizionari italiani che abbiamo consultato o trascu-
rano completamente gli effetti sonori, definizione 1), o li nominano
solo di sfuggita, poiché spesso appaiono nei crediti dei film, defini-
zione 2).
4
Gianni Canova (a cura di), Le garzatine. Cinema, Milano, Garzanti, 2002, pp.336-338. La
definizione continua per altre tre colonne riportando vari esempi sull’evoluzione degli effetti visivi
nella storia del cinema.
5
Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1985, vol. 2,
p.16. La definizione continua per circa altre due mezze colonne descrivendo l’evoluzione degli
effetti visivi nella storia del cinema.
6
Jacques Aumont, Michel Marie, Dictionnaire théorique et critique du cinéma, Paris, Nathan,
2001, p.66 «In riferimento al suono, tutti gli effetti risultanti dalla ricostruzione, dalla
registrazione, dal filtraggio, dalla deformazione, dalla post-sincronizzazione e dal missaggio. […]»
[trad. nostra].
3
Proviamo allora a controllare se i dizionari italiani contemplano
l’esistenza dei rumori nella definizione di “colonna sonora”.
Su Le garzatine. Cinema possiamo leggere sotto “colonna sonora”:
[…] Risultato del missaggio di più colonne separate (dialoghi, musiche, rumori), distinta
in fase di ripresa dalla colonna visiva […]
7
.
Dunque in questo dizionario si prevede l’esistenza di una “colonna
rumori”, ma non vengono contemplate le voci: “rumori” o “colonna
rumori”.
Il Dizionario universale del cinema riporta come definizione di co-
lonna sonora una spiegazione tecnica dei formati in cui essa si distin-
gue: ottico e magnetico.
Tuttavia esso fornisce una definizione per ogni tipo di colonna di cui
si compone il sonoro del cinema, e distingue così i seguenti casi: “co-
lonna dialoghi”, “colonna effetti”, “colonna internazionale”
8
,
“colonna musica”, “colonna speaker”
9
.
Notiamo che la definizione di “colonna effetti” risulta più o meno
simile a quella che il Dictionnaire théorique et critique du cinéma ri-
porta per “effets spéciaux”, e cioè per “effetti speciali”, anche se in
questo caso l’autore italiano distingue ulteriormente la “colonna ef-
fetti” dalla “colonna effetti speciali”. Non solo, ma egli distingue per-
sino i “rumori” dagli “effetti sonori”, senza fornire successivamente
una definizione per ciascuno di questi termini. Dunque per la voce
“colonna effetti” scrive Di Giammatteo:
Colonna sonora magnetica (35 o 16 mm) sulla quale si registrano tutti i rumori e gli effetti
sonori del film (prodotti ‘dal vivo’ o ‘confezionati’ in post-sincronizzazione, […]). La colonna
effetti è affiancata in qualche caso da una colonna effetti speciali (accade per certi film di alta o
7
Gianni Canova (a cura di), op. cit., p.229.
8
Il Dizionario universale del cinema riporta la seguente definizione per colonna internazionale:
«Colonna sonora magnetica (35 o 16 mm) contenente tutti i suoni del film, esclusi i dialoghi
(ossia rumori, effetti, musica). Trova impiego nelle pratiche del doppiaggio. Il produttore straniero
fornisce separate la colonna dialoghi e la colonna internazionale per consentire il doppiaggio degli
attori senza che vadano perduti gli effetti e le musiche originali.[…]».
9
Il Dizionario universale del cinema riporta la seguente definizione per colonna speaker:
«Colonna sonora magnetica (35 o 16 mm) su cui si registra la voce (o le voci) cui è affidato il
commento di un documentario o, in genere, di un film non di finzione. Talvolta anche un film di
finzione può ricorrere a uno (o più) speaker, che in tal caso funge (fungono) da voce guida.».
4
intensa spettacolarità; da quelli catastrofici ai gialli ai kolossal). Missata con la musica,
contribuisce alla realizzazione della colonna internazionale.
10
Bastano questi pochi esempi per avere la dimostrazione concreta del
marasma di definizioni e sottodefinizioni, e della conseguente confu-
sione, a livello semantico, degli autori di testi sul cinema, che si ac-
cingono a cercare una collocazione per la categoria dei rumori.
Per non aggiungere a queste definizioni di rumore un’ulteriore defi-
nizione, e per non abbracciare nessuna delle definizioni, secondo noi
parziali, assegnate a questa importante componente dello scheletro so-
noro di un audiovisivo, abbiamo deciso di proporre la traduzione lette-
rale del termine utilizzato nella letteratura anglo-americana sul cinema
“sound effect” o “sound fx” in “effetto sonoro”.
Quando parliamo di effetto sonoro parliamo allora del suono, regi-
strato ed elaborato elettroacusticamente, e poi montato insieme a un
video. Gli effetti sonori nei film sono innanzitutto rumori, presi dal
mondo reale o generati da oscillatori elettronici ed elaborati poi al
computer per mezzo di programmi di editing e di missaggio. Gli ef-
fetti sonori appartengono all’ambiente sonoro rappresentato nel film,
vale a dire che sono interni alla diegesi filmica, fanno parte della fin-
zione di un film. La realizzazione degli effetti sonori non sempre è
esclusiva dei rumori. Nel caso specifico dei cartoni animati
11
accade
che la musica può essere usata per creare effetti sonori. La musica, in-
fatti, diviene effetto sonoro se è usata per riprodurre, con gli strumenti
musicali, i suoni dei personaggi, degli oggetti e delle azioni che imi-
tano per analogia il rumore che i personaggi, gli oggetti e le azioni
rappresentate produrrebbero realisticamente. Nel corso del presente
capitolo, e del successivo, esamineremo in dettaglio gli effetti sonori,
sia dal punto di vista compositivo che dal punto di vista percettivo,
quindi col procedere delle nostre argomentazioni diverrà sempre più
chiara la definizione di effetto sonoro.
10
Fernaldo Di Giammatteo, op. cit., p.10.
11
cfr. Capitolo II, § II.5.2 "Il caso speciale della musica nei cartoni animati: suono isomorfico e
suono iconico".
5
I.2 La musica elettroacustica: un’arte figurativa?
Le perplessità, espresse anche dalle persone colte, nei confronti dei
“rumori utilizzati come musica”, molto probabilmente hanno a che
fare con le peculiarità della forma d’espressione che ne fa uso, la co-
siddetta musica elettroacustica
12
. Nata dalle sperimentazioni composi-
tive del primo Novecento la musica elettroacustica senz’altro coglie,
dalle altre avanguardie musicali, il nuovo rapporto che si stabilisce
con la struttura, l’iperdeterminazione di tutti i parametri del suono o,
di contro, l’atteggiamento minimalista della ripetitività fino all’alea.
Fin qui “il curriculum” di questa espressione musicale non sembre-
rebbe essere così insolito da motivare l’esiguità dello spazio riservato
ai rumori nell’ambito della teoria del cinema, in confronto alla vasta
letteratura dedicata alla musica nei film.
Ciò che rende la musica elettroacustica, e quindi i rumori con i quali
si fa musica, così difficile da accettare e da studiare è che l’altra sua
anima si nutre di un’estetica assimilabile alle arti pittoriche e visive.
Quando il compositore e teorico di musica elettroacustica Denis
Smalley introduce nella sua “spettromorfologia” le categorie analiti-
che basilari di “gesto” e “tessitura”
13
, e le loro relative sottocategorie
“gesto-portato”, “gesto-cornice”, “tessitura-portato”, “tessitura-
assetto”, sembra quasi naturale pensare la musica per quadri visivi,
una sorta di “performing art” non così lontana dalla “dripping art” di
Jackson Pollock, o dalle sperimentazioni sulle figure in movimento di
un Hans Richter o di un Marcel Duchamp. Questo solo per fare un
esempio. Sui concetti di “gesto” e “tessitura”, che Smalley definisce
12
Si è scelto di utilizzare il termine “musica elettroacustica” e non il termine “musica elettronica”
perché con quest’ultimo si è soliti indicare l’esperienza compositiva legata allo studio di musica
elettronica del WDR di Colonia fondato nel 1953. Per maggiori informazioni sulla storia della
musica elettroacustica: Fred K. Prieberg, Musica ex machina. Über das Verhältnis von Musik und
Technik, Verlag Ullstein, Berlin-Frankfurt-Wien, 1960 (trad. it. Musica ex machina, Torino, Giulio
Einaudi editore, 1963).
13
Denis Smalley, “La spettromorfologia: una spiegazione delle forme del suono (I)”,
Musica/Realtà, 50, 1996, pp.136-137.
6
quali i principi formanti del linguaggio musicale elettroacustico
14
,
ritorneremo dopo
15
, nel Capitolo II, per una spiegazione e un
approfondimento che serviranno da premessa all’analisi che inten-
diamo effettuare.
Tre sono gli aspetti della musica elettroacustica che si scontrano con
la musica “tradizionale”:
il primo è che “il compositore di musica elettronica vuole e crea i
suoi suoni”
16
prendendo in considerazione tutti gli aspetti dello spazio
acustico e musicale, suoni che quindi saranno unici per quasi ognuna
delle opere dello stesso autore;
il secondo aspetto è l’impossibilità di una notazione per la musica
elettroacustica, proprio per la specificità dei suoni di cui è costituita
ogni opera e per l’impossibilità di ricavare parametri di riferimento
comuni e condivisi, come potrebbero essere l’altezza dei suoni o la
loro durata;
infine il terzo aspetto discriminante della musica elettroacustica è la
mancanza di un’intelaiatura metrico-ritmica uniforme. Questa musica
non è dotata di una scansione ritmica e ciò crea un senso di smarri-
mento della temporalità. Le sue pulsazioni sono perlopiù riconducibili
a una temporalità di natura psicologica, quasi onirica.
È interessante comparare due scritti di Luciano Berio e verificare
come nel corso di venti anni gli entusiasmi e i fervori pionieristici, nei
confronti della nuova linfa apportata al sapere e alla creatività musi-
cale dalle ricerche in campo elettroacustico, siano stati quasi estinti da
una diffusa indifferenza, ma anche e soprattutto dalla difficoltà di ri-
conoscere la musica elettroacustica quale tessuto connettivo dei nuovi
canali di comunicazione mass-mediale.
14
Denis Smalley, “La spettromorfologia: una spiegazione delle forme del suono (II)”,
Musica/Realtà, 51, 1996, p.87.
15
cfr. Capitolo II, § II.3.3 "I gesti e le tessiture della musica elettroacustica"
16
Luciano Berio, “Prospettive nella musica”, Elettronica, 3, 1956, p.108.
7
Scrive Berio nel 1956, una data significativa perché segna la nascita
dello Studio di Fonologia Musicale della RAI di Milano, centro pro-
pulsivo della musica elettroacustica in Italia:
Oggi però è lecito pensare che definizioni quali «musica concreta» e «musica elettronica»
[…] possono venire assimilate al concetto generale di musica; quella musica, cioè, che sembra
realizzarsi compiutamente sempre e solo attraverso una interiore ed infaticabile condizione
artigiana.
17
Venti anni dopo, nel 1976, la fiducia di Berio nelle capacità della
musica elettroacustica di allargare il sapere e la sensibilità musicale
non è svanita, ma le sue parole hanno il sapore amaro della presa di
coscienza che si tratta di una forma di espressione destinata a pochi
coraggiosi e appassionati musicisti:
Da alcuni anni la musica elettronica fa meno rumore, se ne parla sempre meno ed è raro
incontrare musicisti e pubblicisti che ne parlino ancora col vocabolario avveniristico e ottimista
degli anni Cinquanta […] Non solo è difficile trovare chi ancora cerca di difendere e descrivere le
infinite possibilità della musica elettronica e il lascivo corpo a corpo del musicista con la materia
sonora: è diventato addirittura difficile usare e precisare il termine stesso di musica elettronica.
[…] La musica elettronica in un certo senso “non esiste” più perché è dappertutto e fa parte del
pensare musicale di tutti i giorni.
18
17
ibid., p.108.
18
Luciano Berio (prefazione di) in AA.VV., La musica elettronica, Milano, Feltrinelli Editore,
1976, p.VII.
8
I.3 “Effetti sonori” e “oggetti sonori”
Abbiamo scritto all’inizio del vuoto teorico che accompagna i rumori
creati per il cinema, e abbiamo chiamato questi rumori effetti sonori.
La scarsa bibliografia sull’argomento è ingiustificata, almeno nei ri-
guardi delle opere cinematografiche degli ultimi anni, in cui gli effetti
sonori hanno assunto un ruolo sempre più preponderante, un’autono-
mia e un protagonismo che li rende ben riconoscibili e ormai indispen-
sabili in un film che voglia definirsi coinvolgente.
Abbiamo poi visto che questi effetti sonori non sono altro che il pro-
dotto degli sforzi dell’arte-artigianato musicale del Novecento e con-
tribuiscono a elevare il numero dei suoni a disposizione dei musicisti e
degli ascoltatori a quello delle singole personalità creative che con
questi suoni si cimentano. Assistiamo nel Novecento a un allarga-
mento semantico del concetto di suono che non è più riducibile
all’insieme dei suoni prodotti dagli strumenti musicali o dalle voci
umane, ma diventa “materia sonora” ottenibile in maniera naturale o
artificiale grazie all’apporto di potenti elaboratori e di sofisticati pro-
grammi di calcolo.
Abbiamo così accomunato i rumori nati per il cinema con i rumori
nati per fare musica, comprendendoli tutti nella controversa branca
della musica del Novecento che è stata, ed è, la musica elettroacustica.
Il perché di tale accorpamento dei rumori in un unico insieme è moti-
vato dal fatto che chi fabbrica i rumori per lo schermo e chi crea i ru-
mori per le sale da concerto coincidono con la stessa persona:
l’esperto di manipolazione o di acquisizione del suono, una figura pro-
fessionale le cui competenze abbracciano l’informatica, l’ingegneria
dei suoni e la composizione musicale.
È necessario distinguere i rumori fatti per essere suonati da soli, dai
rumori creati per essere diffusi insieme alla visione di immagini. In-
fatti, il risultato percettivo dei rumori può cambiare notevolmente a
seconda che essi siano diffusi con o senza immagine. Accade così che
9
insieme con l’immagine i rumori diventino “effetti sonori” e invece i
rumori nati solo per l’ascolto diventino “oggetti sonori”, così come
amava definirli Pierre Schaeffer, che nel 1948 propose il termine “mu-
sica concreta” per marcare un’inversione di senso nella composizione
musicale legata al Groupe de Recherches Musicales:
Par objet sonore nous désignons ici le son lui-même, considéré dans sa nature sonore, et
non pas l’objet matériel (instrument ou dispositif quelconque) dont il provient.
19
È utile riportare l’intero passo, a proposito della musica concreta, dal
Traité des objets musicaux di Schaeffer, testo di capitale importanza
perché propone uno dei tentativi più completi e scientificamente rigo-
rosi di classificazione dei suoni della musica elettroacustica: la cosid-
detta “tipo-morfologia”
20
. In questo passaggio abbiamo modo di ve-
dere condiviso il nostro paragone con le arti figurative, quando scrive-
vamo dell’anima della musica elettroacustica la cui estetica, ed ora
leggeremo anche la cui poetica, sono molto più vicine alle arti pittori-
che e visive:
Lorsqu’en 1948, j’ai proposé le terme de “musique concrète”, j’entendais, par cet adjectif,
marquer une inversion dans le sens du travail musical. Au lieu de noter des idées musicales par les
symboles du solfège, et de confier leur réalisation concrète à des instruments connus, il s’agissait
de recueillir le concret sonore, d’où qu’il vienne, et d’en abstraire les valeurs musicales qu’il
contenait en puissance. […] De là à imaginer une réciprocité entre peinture et musique, il n’y avait
qu’un pas, vite franchi par de gens épris de symétrie. Ils disaient: la peinture figurative prend ses
modèles dans le monde extérieur, dans le donné visible, tandis que la peinture non figurative
s’appuie sur des valeurs picturales forcément abstraites; inversement, la musique s’est d’abord
élaborée sans modèle extérieur, ne renvoyant qu’à des “valeurs” musicales abstraites, et devient
“concrète”, “figurative” pourrait-on dire, lorsqu’elle utilise des “objets sonores” puisés
directement dans le “monde extérieur” des sons naturels et des bruits donnés.
21
19
Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Paris, Éditions du Seuil, 1966, p.23 nota 3 «Per
oggetto sonoro designiamo qui il suono stesso, considerato nella sua natura sonora e non l’oggetto
materiale (strumento o qualunque dispositivo) da cui esso proviene.» [trad. nostra].
20
cfr. Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Paris, Éditions du Seuil, 1966, pp.389-472 e
pp. 584-587 (tabella generale).
21
ibid., p.23 «Quando nel 1948 ho proposto il termine di “musica concreta”, intendevo, con questo
aggettivo, indicare un’inversione nel concetto di lavoro musicale. Anziché annotare delle idee
musicali attraverso i simboli del solfeggio, e affidare la loro concreta realizzazione a strumenti
noti, si trattava di raccogliere il concreto sonoro, ovunque esso provenga, e astrarne i valori
musicali che esso conteneva potenzialmente. […] Da lì ad immaginare una reciprocità tra pittura e
musica ci mancava poco, presto fatto da persone amanti della simmetria che dicevano: la pittura
figurativa prende i suoi modelli nel mondo esterno, nella percezione visibile della realtà, mentre la
pittura non figurativa si appoggia a valori pittorici necessariamente astratti; inversamente, la
musica si è costituita dapprima senza modello esterno, rinviando solo a “valori” musicali astratti e
10
Ritorneremo più approfonditamente sui concetti del Traité
schaefferiano
22
perché faremo uso di alcune categorie classificatorie
della tipo-morfologia per condurre la nostra analisi sui suoni del ci-
nema e compilare nel modo più idoneo delle tabelle relative alle ca-
ratteristiche dei suoni che prenderemo in considerazione.
diviene “concreta”, “figurativa” si potrebbe dire, allorché si serve di “oggetti sonori” tratti
direttamente dal “mondo esterno” dei suoni naturali e dei rumori percepiti.» [trad. nostra].
22
cfr. Capitolo II, § II.1.3 "La tipo-morfologia di Pierre Schaeffer".
11
I.4 Ambiguità nell’uso del termine “colonna audio”
Ma riprendiamo la questione del rapporto suono-immagine.
Dobbiamo tener presente che nella combinazione audiovisiva inter-
viene una specifica percezione che tiene conto unitamente dei due ca-
nali comunicativi: quello sonoro e quello visivo.
Scrive Chion: non si «vede» la stessa cosa quando si sente; non si
«sente» la stessa cosa quando si vede.
23
Questa simbiosi dei due canali comunicativi che caratterizzano
l’audiovisione è poi ribadita nel momento in cui Chion afferma che
“la colonna audio non esiste” perché
i suoni del film non formano, considerati separatamente dall’immagine, un complesso in
sé dotato di un’unità interna che dovrebbe confrontarsi globalmente con ciò che si chiama la
colonna immagine. […] ogni elemento sonoro allaccia con gli elementi narrativi contenuti
nell’immagine – personaggi, azioni –, così come con gli elementi visivi compositivi e scenografici,
rapporti verticali simultanei ben più diretti, forti e pregnanti di quelli che questo stesso elemento
sonoro può allacciare parallelamente con gli altri suoni, o che i suoni allacciano gli uni con gli altri
nella loro successione. […] Nel cinema, dunque, non vi sono una colonna immagine e una colonna
audio, ma vi è un luogo di immagine e di suoni.
24
Nonostante condividiamo il concetto di percezione composita che
Chion ci vuole suggerire in relazione alla “audiovisione” di un film,
notiamo tuttavia che l’inciso “i suoni del film” è poco chiaro: l’autore
fa riferimento alla musica? Ai rumori? A entrambi? L’ambiguità au-
menta quando Chion distingue il concetto di “colonna immagine” da
quello di “colonna audio”, anche se lo fa in negativo, affermando che
non possono esistere separatamente. Ci si chiede, infatti, se per
l’autore de L’audiovisione il concetto di colonna audio possa leggersi
anche in alternativa di “colonna musica”, oppure se esso fa sicura-
mente riferimento alla colonna musica più gli effetti sonori più i dia-
loghi.
Nel caso in cui i termini colonna audio e colonna musica fossero so-
stituibili, si potrebbe pensare che Chion si riferisca alla musica scritta
23
Michel Chion, op. cit., p.7.
24
ibid., pp.40-41.
12