8
9
1) Cenni sulla procedura fallimentare: le storiche esigenze di
regolazione della crisi di impresa e di soddisfacimento dei creditori
La crisi dell’impresa è una situazione più o meno contingente legata principalmente ad
una perdita di capacità reddituale dell’impresa medesima; tuttavia, anche quando questa
situazione dovesse essere non del tutto transitoria, l’imprenditore persona fisica/persona
giuridica può essere comunque in grado di adempiere le proprie obbligazioni (si pensi a
risorse extra aziendali, a mezzi propri non ancora ricondotti alle perdite o accantonati, a
conferimenti in proprio dei soci, etc.): se tale fosse la situazione, la produzione di
perdite sarebbe riconducibile ad un problema di carattere gestionale in capo
all’imprenditore o ai soci della società imprenditrice; problema che sarebbe risolvibile
con la liquidazione dell’impresa o con il tentativo di recuperare capacità reddituale
attraverso logiche manageriali e non certo giudiziarie. Pertanto, in tale ipotesi non esiste
la necessità di regolare la crisi dell’impresa attraverso una procedura concorsuale.
Necessità che, invece, si manifesta quando la crisi sfocia all’esterno dell’impresa in una
carenza di mezzi necessari a far fronte alle obbligazioni contratte, cioè sfocia nel cd.
stato di insolvenza. La prosecuzione incontrollata dell’attività di impresa, infatti,
rappresenta un grave pericolo per coloro che vengono a contatto con l’imprenditore,
spesso determinando la stessa insolvenza di coloro i quali non riescono ad incassare i
crediti vantati nei confronti dell’insolvente originario. E’ a tal punto che nasce l’assoluta
necessità di porre una regolamentazione legislativa a tali situazioni; il regio decreto
num. 267/1942 e successive modificazioni, meglio conosciuto come Legge
Fallimentare (LF d’ora in poi), soddisfa, all’interno del nostro ordinamento giuridico,
tale necessità.
In tale ottica, la LF, insieme ad un’altra ipotesi di regolazione della crisi di impresa che
si vedrà più avanti, disegna una procedura concorsuale liquidativa (comunemente detta
“procedura fallimentare” o, banalmente, “fallimento”), ad iniziativa dei creditori, del
Pubblico Ministero o, residualmente, dell’imprenditore insolvente stesso.
Dunque, le alternative per la regolazione della crisi di impresa sono sostanzialmente
due: l’accordo (privatistico/extragiudiziale) con i creditori o la procedura
fallimentare (pubblica/giudiziale)
2
.
2
L. Guglielmucci, Diritto Fallimentare: la nuova disciplina delle procedure concorsuali giudiziali,
Torino, Giapichelli editore, 2007, pag. 9.
10
Spesso la soluzione privatistica pura, consistente in un “semplice” accordo debitore-
creditore/i viene preferita dalle aziende per via degli elevati costi della procedura
concorsuale e per via del danno che la procedura medesima arrecherebbe all’immagine
dell’impresa; ma, soprattutto, viene preferita per via della maggiore snellezza e
flessibilità dell’iter che coinvolge solamente l’imprenditore ed i suoi interlocutori.
Tuttavia, essendo tale pratica riconducibile esclusivamente a logiche privatistiche e,
conseguentemente, risultando vincolante solo per coloro che vi aderiscono, si deve
registrare che:
a) È necessaria un’adesione dei creditori molto maggiore rispetto alla via
concorsuale, ove vige il criterio di maggioranza.
b) Le azioni (esecutive, costitutive di ipoteche giudiziali, etc.) messe in atto durante
la procedura stragiudiziale, da coloro che in gergo sono definiti free riders,
devono essere composte necessariamente con il reperimento di risorse atte al
soddisfacimento integrale delle pretese creditorie, a causa della mancanza di una
struttura pubblica garantista.
In ogni caso, la Legge Fallimentare, nella formulazione attuale dell’articolo 67, terzo
comma, lett. d) risponde all’esigenza di favorire le composizioni extragiudiziali
prevedendo che: “Gli atti, i pagamenti, e le garanzie concesse su beni del debitore in
esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione
debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria, la
cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori
contabili e che abbia i requisiti previsti dall’art. 28, lett. a) e b)[...]”, non sono soggetti
all’azione revocatoria (fallimentare), ovvero a quell’azione, posta in essere dal curatore,
rivolta alla reintegrazione all’interno della massa fallimentare delle attività
indebitamente uscite da esso.
Altra modalità di accordo coi creditori (parzialmente) privato, è il cd. accordo di
ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis, LF), che è sottoposto ad approvazione del
Tribunale e intende, in primo luogo, proteggere il patrimonio del debitore dalle
aggressioni di terzi estranei all’accordo per un certo periodo di tempo, e, in secondo
luogo, una volta omologato, esentare da revocatoria atti, pagamenti e garanzie concesse
sui beni del debitore in esecuzione dell’accordo; quest’ultimo è prenegoziato in via
privata con i creditori, e può anche essere depositato come corollario alla domanda di
ammissione al concordato preventivo. Se l’accordo con la maggioranza (almeno il 60%
11
dei crediti) si forma stragiudizialmente, tutto il percorso che eventualmente sfocerà poi
nell’omologazione da parte del Tribunale segue evidentemente logiche pubblicistiche.
La terza via di accordo con i creditori è, invece, interamente pubblica ed è rappresentata
dal concordato preventivo (160 LF); l’accordo, infatti, raggiunto nelle more della
procedura concorsuale e protetto dai meccanismi di garanzia del patrimonio innescatisi
con la stessa ammissione alla procedura, ha l’obbiettivo di ricercare una soluzione che
soddisfi (seppur parzialmente) le pretese creditorie. Tuttavia, anche in tale fattispecie,
viene valorizzata l’autonomia privata, nel senso che è attribuita ai soli creditori la
valutazione, a maggioranza, della convenienza e della fattibilità della proposta
concordataria del debitore; ciò implica, necessariamente, un ridimensionamento del
ruolo degli organi fallimentari convenuti in tale situazione, chiamati perlopiù ad un
controllo di legittimità (salva l’esigenza di una valutazione di merito in casi di
controversie sulla valutazione delle classi dei creditori dissenzienti circa l’accordo).
Quando l’accordo con i creditori non viene ricercato o non viene raggiunto, la
regolazione della crisi di impresa deve necessariamente avvenire attraverso la
procedura di fallimento; fermo restando che la competenza su quest’ultima spetti
all’autorità giudiziaria, esistono due casi specifici in cui la gestione della crisi è affidata
all’autorità amministrativa. Ciò avviene:
a) Per le imprese soggette a controllo pubblico (banche, assicurazioni, etc.) che
sono assoggettate alla cd. liquidazione coatta amministrativa (procedura
simile a quella fallimentare)
b) Per le imprese di grandi dimensioni (in particolare si fa riferimento al numero di
dipendenti), il fallimento non è escluso a priori ma viene preceduto da un
periodo di osservazione sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, diretto a
verificare se esistono prospettive di recupero dell’equilibrio
economico/finanziario, in presenza delle quali non viene aperta la procedura
fallimentare in sé ma una procedura amministrativa di amministrazione
straordinaria, volta alla conservazione del patrimonio dell’impresa, nella quale
la gestione è affidata al Ministero delle attività produttive.
Da queste due considerazioni consegue che la vera e propria procedura fallimentare sia
una prassi più comune alle imprese che da un punto di vista economico e occupazionale
abbiano dimensioni medio/piccole, anche se non mancano eccezioni.
12
Qualunque sia l’alternativa prescelta, gli esiti della regolazione della crisi sono
alternativamente tre: il risanamento, la cessione dell’azienda o dei complessi aziendali,
la liquidazione.
La liquidazione costituisce l’alternativa più frequente, ma, da un punto di vista
qualitativo, la peggiore: infatti, le frequenti difficoltà di realizzo storicamente registrate
nei fallimenti portano molto spesso ad una composizione squilibrata degli interessi
coinvolti nella procedura.
La cessione dell’azienda costituisce l’ipotesi “estrema” di liquidazione, ma, a
differenza di quest’ultima, spesso consente una composizione migliore degli interessi
coinvolti nella procedura; si pensi, ad esempio, all’interesse dei dipendenti alla
conservazione del posto di lavoro, a quello dei fornitori a mantenere i rapporti di
fornitura, etc.
Il risanamento, o ristrutturazione dei debiti, è l’alternativa che comporta le maggiori
difficoltà di realizzazione; è assai arduo, infatti, addivenire ad un risanamento che non
comporti sacrifici significativi per molti creditori. Tant’è vero che a quanto è risultato
da un’indagine effettuata da parte de Il sole24ore nel febbraio 2005, su 39 società
ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria (disciplinata dal D.Lgs.
270/99, che all’art. 27, 2° comma, prevede la possibilità per l’impresa di scegliere fra il
risanamento e la cessione dei complessi aziendali) una solamente ha optato per la
ristrutturazione dei debiti
3
.
Proseguendo nell’analisi della procedura fallimentare, è ora giunto il momento di
occuparsi di un argomento lungamente dibattuto: il soddisfacimento dei creditori ed il
relativo principio della par condicio creditorum. Secondo l’intelaiatura legislativa
originaria, le procedure concorsuali, fallimento in primis, sarebbero rivolte ad assicurare
il soddisfacimento dei creditori nel rispetto del suddetto principio, intendendo per
soddisfacimento un pagamento perlomeno parziale. Le correnti dottrinali più
“moderne”, al contrario, fanno risalire la funzione della procedura fallimentare
“essenzialmente alla regolazione della crisi d’impresa, e questa regolazione,
evidentemente, prevede anche un qualche meccanismo di soddisfacimento delle pretese
creditorie”
4
. Ora, al di là delle opinioni personali, l’idea secondo cui la par condicio
consista nell’attribuzione al creditore di una somma di denaro proporzionata al ricavato
3
Amministrazione straordinaria/Cosa fanno i commissari/Tutte le vendite della “Prodi”, in Il sole24ore,
26 febbraio 2005.
4
L. Guglielmucci, ivi, pag. 14-15.
13
della liquidazione del patrimonio del debitore sembra essere superata; nelle soluzioni sia
concordatarie che giudiziali è lecito proporre ai creditori diverse forme di
soddisfacimento: la cessione di beni, l’attribuzione di azioni, quote, obbligazioni, etc. e
la valutazione circa l’accettabilità o meno di tali forme è rimessa ai creditori stessi, in
una logica di ampliamento dell’autonomia privata. Logica che, d’altro canto, implica un
ridimensionamento della valenza della par condicio nelle pattuizioni concordatarie.
In realtà, “l’espressione par condicio è impropria”
5
; il principio sotteso da tale
espressione è sancito dall’art. 2741 c.c., 1° comma, secondo cui “i creditori hanno
uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore”; in realtà, la riserva
immediatamente successiva (“salve le cause legittime di prelazione”) evidenzia che il
principio in questione ha carattere residuale: è applicato, cioè, in ciascuna categoria
omogenea di creditori (privilegiati di diversi gradi, chirografari). Perciò, nel confronto
fra diverse categorie di creditori, sarebbe più corretto parlare di “principio di
preferenza”, o di “graduazione dei crediti”.
Esaurite dunque le debite premesse, è giunto il momento di affrontare dettagliatamente i
temi attorno cui ruota questa trattazione: l’azione revocatoria fallimentare e le
operazioni bancarie, cui sono dedicati i tre capitoli portanti.
5
L. Guglielmucci, ivi, pag. 15.
14
15
2) Introduzione alla disciplina: l’azione revocatoria fallimentare pre-
riforma del 2005
2.1) Definizione normativa ed inquadramento generale
La mini-riforma introdotta dal D.L. 35/2005, convertito con la legge 80/2005, ha
sensibilmente ridotto gli effetti della tradizionale revocatoria fallimentare, così come
prevista dall’originario art. 67 LF, prevedendo una cospicua schiera di atti non soggetti
a revocatoria e prevedendo il dimezzamento dei diversi periodi sospetti legali; tale
normativa si applica per i fallimenti dichiarati dal 17 marzo 2005 in poi, mentre per i
fallimenti dichiarati prima di questa data e conseguentemente con l’azione legale che
può iniziare sino al 15 marzo 2010, restano applicabili le regole del “vecchio” disposto
normativo dell’art. 67 LF.
Per tale evenienza, e per via del fatto che la riforma non ne ha comunque intaccato la
struttura fondamentale ed i principi ispiratori, è necessario approfondire il tema circa
l’intelaiatura originaria dell’azione revocatoria, così come disegnata dal legislatore del
1942.
In prima analisi, per sgombrare sin da subito il campo da possibili fraintendimenti, è
importante sottolineare il fatto che l’azione revocatoria fallimentare in sé e per sé,
ovvero quella subordinata a pronuncia giudiziale di revoca, è quella disciplinata dall’art.
67 LF. Questa trattazione si occuperà principalmente di tale istituto, lasciando in
secondo piano i disposti degli artt. 64 e 65 LF circa l’inefficacia (automatica) di taluni
atti con la dichiarazione di fallimento e il disposto dell’art. 66 LF che legittima il
curatore fallimentare a proporre azioni revocatorie ordinarie dinanzi al Tribunale
Fallimentare, secondo le norme del codice civile (artt. 2901 ss. c.c.).
Orbene, come anticipato, la revocatoria fallimentare è disciplinata dall’art 67 LF, e
nonostante le recenti e corpose modificazioni, dal 1942 conserva la medesima struttura
ed i principi ispiratori sono rimasti sostanzialmente immutati.
Principi che vengono storicamente tracciati dal Codice Civile, che delineando i cardini
della revocatoria ordinaria ha permesso al legislatore del ’42 di imperniarvi quelli della
revocatoria fallimentare. Nello specifico, per comprendere a pieno il significato, la
16
ratio, dell’azione revocatoria, bisogna tener presente che il patrimonio del fallimento
comprende beni e diritti del debitore (fallito), ma anche beni e diritti usciti dal suddetto,
in ragione di atti pregiudizievoli nei confronti della massa dei creditori del fallito. Tali
beni e diritti sono recuperabili non tanto al patrimonio del debitore, ma piuttosto alla
garanzia patrimoniale dei creditori, in vista della loro soddisfazione (generalmente
parziale) tramite la ripartizione della massa fallimentare “ricostruita” dal Curatore così
com’era appena prima della dichiarazione di fallimento (cd. principio di
cristallizzazione del patrimonio del fallito).
Strumento di reintegrazione della garanzia è l’inefficacia dell’atto nei confronti dei
creditori, che opera talora automaticamente per effetto della dichiarazione di fallimento
(artt. 64 e 65 LF), talora a seguito di pronuncia giudiziale di revoca (revocatoria
fallimentare art. 67 LF ma anche artt. 66, 68 e 69 LF).
Esaurito questo necessario preambolo, si può passare all’esame vero e proprio della
struttura dell’azione revocatoria fallimentare e dei principi ad essa sottesi; partendo da
una prima lettura del disposto dell’art 67 LF, gli aspetti di maggior interesse sono i
seguenti
6
:
a) La revocatoria fallimentare prende in considerazione solo gli atti a titolo
oneroso, posti in essere dal debitore e dal terzo contraente in pregiudizio agli
interessi creditori, essendo la disciplina di quelli a titolo gratuito prevista
nell’art. 64 LF.
b) La norma non prevede nulla circa l’atteggiamento psicologico del debitore,
mentre, per quel che riguarda il terzo contraente richiede solo che al momento
dell’atto medesimo fosse a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore:
onere probatorio che ricade sul terzo per gli atti di cui al primo comma (cd. atti
anormali o anomali, sintomatici dell’insolvenza) mentre ricade sul curatore per
gli atti di cui al secondo comma (cd. atti normali, asintomatici dell’insolvenza).
c) L’art. 67 LF non parla in alcun passaggio del “pregiudizio” che l’atto ha
arrecato alle ragioni creditorie, perlomeno a livello letterale; requisito che,
invece, è molto importante nell’ambito della revocatoria ordinaria.
6
G. Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, CEDAM, 2001, pag. 44.
17
d) L’esperibilità della revocatoria fallimentare, a differenza dell’ordinaria, è
subordinata al compimento dell’atto in un determinato periodo antecedente alla
dichiarazione di fallimento, comunemente denominato periodo sospetto legale
(dimezzato dalla riforma).
e) Originariamente il “vecchio” disposto normativo non prevedeva nulla né circa la
prescrizione dell’azione (oggi sancita dall’art 69 LF, secondo cui l’azione è
esperibile entro 3 anni dalla dichiarazione di fallimento o comunque entro 5 anni
dal compimento dell’atto) né circa la presunzione secondo cui le garanzie sono
considerate a titolo oneroso se prestate consensualmente al credito garantito.
Questo è quanto emerge da una prima analisi dell’art. 67 LF, ma “le molte lacune (o
presunte tali) presenti nella norma fallimentare, hanno fatto, pertanto, sorgere il
problema del se e in che termini sia possibile ricorrere all’interpretazione analogica
delle disposizioni previste nel cod. civ.”
7
. Lacune ed analogie da considerarsi, a parere
di chi scrive, superate ben prima della riforma del 2005. Tale tesi sarà automaticamente
dimostrata analizzando nel dettaglio i 3 pilastri su cui poggia la struttura della
revocatoria fallimentare: il presupposto oggettivo, il presupposto soggettivo,
l’oggetto della revocatoria.
2.2) Il presupposto oggettivo
All’interno della disciplina della revocatoria ordinaria, il danno, comunemente
denominato in ambiti civilistici “presupposto oggettivo”, è uno degli elementi che
l’attore deve provare per far si che venga accolta la domanda di revoca. Tale elemento si
desume, perciò, dal pregiudizio che l’atto deve arrecare alle ragioni dei creditori.
Nella revocatoria fallimentare, invece, perlomeno stando ad un’analisi letterale della
norma, il termine “pregiudizio” non è presente, e, dunque, non c’è alcun richiamo al
danno subito dai creditori. Tale differenza normativa è stata il catalizzatore di una delle
più grandi dispute interpretative fra gli studiosi della revocatoria fallimentare.
Si sono formate così due scuole di pensiero: una (cd. teoria indennitaria) che propende
per un’interpretazione analogica fra le due tipologie di revocatoria e quindi considera il
7
G. Rago, ivi, pag. 44.
18
danno come un presupposto anche della revocatoria fallimentare, un’altra (cd. teoria
antiindennitaria) che nega tale analogia e conseguentemente nega anche che la
revocatoria fallimentare presupponga il danno
8
.
Posto questo, è evidente che lo sforzo maggiore per sistematizzare la propria tesi sia
ricaduto sui sostenitori della cd. teoria indennitaria. Tali sforzi si sono susseguiti sin
dalla metà del secolo scorso, ma vale la pena, in questa sede, rammentare solo gli
sviluppi più “moderni” della teoria, lasciando ad ambiti più qualificati approfondite
ricostruzioni storiche; e, quindi, le considerazioni più significative circa la tesi
indennitaria possono essere schematizzate nel modo seguente
9
:
a) Il presupposto oggettivo della revocatoria è costituito dall’idoneità dell’atto di
arrecare danno ai creditori (cd. pregiudizio astratto).
b) Dato che la norma, comunque, mira ad imporre delle regole di condotta, il
discrimen fra atti pregiudizievoli e non coincide con la distinzione tra atti di
gestione che modificano l’assetto dei rapporti e atti di gestione che conservano il
patrimonio.
c) La “dannosità” dell’atto deve essere valutata ex ante e non in base agli effetti
realmente prodotti.
d) L’atto deve essere idoneo ad arrecare pregiudizio alla massa dei creditori.
e) Per valutare l’effettiva dannosità di un atto occorre indagare il vero contenuto
economico dell’operazione in analisi.
Per quel che concerne, invece, la cd. teoria antiindennitaria, lo sforzo interpretativo
sembra più agevole, non foss’altro perché la realtà dei fatti ha, negli ultimi anni,
dimostrato come questa tesi sia decisamente più affidabile dal punto di vista
interpretativo: “Dell’esigenza dell’eventus damni non vi è traccia alcuna negli artt. 64,
65 e 67 della LF, sicché il richiamo a tale elemento può essere fatto solo prescindendo
dalle norme specifiche ed attraverso elaborazioni interpretative, più o meno
giustificate[...]Il principio fondamentale della revocatoria fallimentare è lo stesso che
ispira, in altri ordinamenti, la retrodatazione del fallimento al manifestarsi
dell’insolvenza; l’esigenza di tutelare i terzi di buona fede condiziona poi l’inefficacia
dell’atto alla conoscenza da parte del terzo dello stato d’insolvenza. In tali prospettive è
8
G. Rago, ivi, pag. 49.
9
G. Terranova, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Commentario Scialoja-
Branca alla legge fallimentare a cura di F.Bricola e F.Galgano, Bologna, Zanichelli editore, 1993, pag.
127 ss., 136 ss., 159 ss, I.
19
ovvio come tanto la frode quanto l’“eventus damni” sono elementi del tutto inconferenti
per la revocatoria fallimentare, sicché anche il sostenere che essi sono presunti “iuris et
de iure” o “iuris tantum” significa solamente voler ad ogni costo introdurre, per male
argomentate analogie, elementi che non s’inquadrano in alcun modo con l’istituto,
anche se i risultati possono essere parzialmente gli stessi. Di conseguenza, anche
qualora sia possibile al terzo dimostrare l’inesistenza della frode e del pregiudizio per la
massa, l’atto è revocabile, perché il fondamento della revocatoria fallimentare non è
nella frode e nell’“eventus damni”, bensì nella violazione del principio della “par
condicio”, che, al primo manifestarsi dell’insolvenza, provoca quell’indisponibilità
relativa del patrimonio del debitore di cui parla la dottrina[...]”
10
.
Dal canto suo, la giurisprudenza, ha storicamente offerto un panorama non sempre
coerente sul punto: infatti, si deve registrare il susseguirsi a livello cronologico di
continue oscillazioni fra la tesi indennitaria
11
e quella antiindennitaria
12
.
Traendo le necessarie conclusioni dalle teorie esposte ed analizzate, si può
pacificamente affermare che “fra le due azioni vi sia un rapporto di specialità, nel senso
che, essendo la revocatoria fallimentare inserita in una legge speciale rispetto a quella
ordinaria, necessariamente deve essere considerato un istituto di natura speciale con sue
regole e peculiarità”
13
. Ciò non toglie che sia legittimo ricorrere alle norme della
revocatoria ordinaria nel momento in cui siano carenti od assenti in ambito fallimentare.
Il punto, perciò, sarà capire se davvero esiste o meno la lacuna legis. Venendo
all’attualità di questo discorso, ci si deve domandare se il fatto che l’art. 67 LF non
menzioni il pregiudizio sia una lacuna o sia un’evenienza funzionale alle finalità della
revocatoria fallimentare.
Confrontando l’art. 67 LF e l’art. 2901 c.c., le differenze, quanto all’elemento oggettivo,
sono evidenti. L’art. 2901 c.c. prende in considerazione il singolo atto e prescrive che
10
G. Rossi, La revocatoria fallimentare delle ipoteche, in Riv. Dir. Civ., Padova, CEDAM, 1963, pag.
511 ss, I.
11
Cass. 642/1962, statuisce l’irrevocabilità dell’atto che “non abbia determinato nel patrimonio del
debitore una situazione sfavorevole per i creditori o si sia risolto addirittura in un vantaggio[...]”.
12
Cass. 10570/1992, secondo cui “[...]il presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare deve
informarsi non alla nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell’ordinamento, ma alla
specialità tipica del sistema fallimentare e, come tale, uniformandosi al criterio della par condicio
creditorum, il danno consiste nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio[...]”.
13
G. Rago, ivi, pag. 64.
20
deve essere il creditore che agisce in revocatoria a provare che quell’atto ha provocato
“un pregiudizio alle sue ragioni”; l’art. 67 LF, invece, non menziona il termine
“pregiudizio” e assume la revocabilità non di un singolo e determinato atto, ma di intere
categorie di atti e cioè gli atti a titolo oneroso, i pagamenti e le garanzie. Sembra,
dunque, quantomeno legittimo ipotizzare che sia stato lo stesso legislatore, a monte, a
stabilire che tutta una serie di atti “tipizzati”, se messi in atto nel periodo sospetto
legale, devono ritenersi pregiudizievoli ai creditori e sono revocati, come dispone in
modo lapidario l’incipit dell’art. 67 LF. Si deve, perciò, concordare “con quella parte di
dottrina che sostiene la diversità strutturale delle due revocatorie, per il semplice fatto
che quella fallimentare è in re ipsa, ovvero colpisce una serie di atti grazie al
meccanismo della retrodatazione del periodo sospetto, completamente sconosciuto alla
revocatoria ordinaria”
14
, il che significa che il terzo “ulteriore” (ad es., il nuovo
cessionario del bene ceduto originariamente dal debitore durante il periodo sospetto),
può sfuggire all’azione solo provando la sua buona fede.
In ultima istanza, si pensi ad un semplicissimo esempio per confortare questa tesi
15
: si
assuma per ipotesi una massa fallimentare attiva di 1000, costituita da vari beni di cui
uno del valore di 300, frutto di una permuta. Si ipotizzi, altresì, che venga promossa
l’azione revocatoria nei confronti del terzo che ha dato in permuta il bene; dunque, a
seguito di ciò, si ponga che la massa si incrementi di 400. Ora, se si consentisse al terzo
di subire la revocatoria nei limiti del danno (e cioè 100, la differenza fra i due beni) la
massa non sarebbe più di 1400 ma di 1100: ma tale risultato non potrà mai essere
conseguito per via del già citato principio della cristallizzazione del patrimonio del
fallito, in base a cui la massa può incrementarsi ma mai da essa possono uscire beni a
favore di terzi che non ne hanno titolo.
Anche grazie a questo semplice esempio si arriva facilmente a dimostrare che la
mancanza del danno non è frutto di una dimenticanza del legislatore che occorre
colmare con l’analogia, ma è una lucida e consapevole scelta derivante sia dalla
struttura dell’istituto che dalle regole della legge fallimentare.
Conseguentemente, si deve ritenere che gli articoli della LF preposti alla strutturazione
della revocatoria statuiscano scientemente che presupposti oggettivi della medesima
14
G. Rago, ivi, pag. 67.
15
G. Rago, ivi, pag. 69.
21
siano per lo più il compimento dell’atto nel periodo sospetto legale e, secondo alcune
interpretazioni
16
, la conseguente lesione della par condicio creditorum.
2.3) Il presupposto soggettivo
Nella revocatoria ordinaria il presupposto soggettivo, ossia l’atteggiamento psicologico
del terzo, è enormemente importante ai fini della revoca, ed è variamente configurato.
Nella LF, invece, la situazione è notevolmente semplificata: l’art. 67 LF non menziona
l’elemento psicologico, richiedendo tuttavia, che, per poter revocare l’atto, nel terzo
contraente vi sia la consapevolezza dello stato di insolvenza del debitore. Dunque, nella
revocatoria fallimentare è necessario provare solo l’elemento psicologico del terzo e
l’onere probatorio è diversamente articolato a seconda che si chieda la revoca ex primo
comma (atti cd. anormali) o secondo comma (atti cd. normali). Nella prima ipotesi, è il
terzo che deve provare la sua inscientia decoctionis (e cioè che non conosceva lo stato
di insolvenza del debitore); nella seconda ipotesi, invece, spetta al curatore provare la
scientia decoctionis (ovvero che il terzo conosceva lo stato di insolvenza del debitore).
Si devono considerare però alcune precisazioni:
a) La conoscenza dello stato di insolvenza va messa in relazione al preciso
momento in cui l’atto è stato compiuto: scientia o inscientia che il terzo aveva di
accadimenti antecedenti al negozio, e sintomatici dell’insolvenza, servono al più
ad colorandum, come ulteriori elementi indiziari.
b) La conoscenza (o l’inscientia) è un elemento psicologico che è da riferire al
terzo che (materialmente e giuridicamente) ha compiuto l’atto: questo implica
che se l’atto è stato compiuto dal rappresentante si deve tenere conto dello stato
psicologico di quest’ultimo; mentre se l’atto è stato compiuto dal mandatario
senza rappresentanza la disciplina è addivenuta alla conclusione secondo cui, “il
mandante, qualora si sia avvalso della collaborazione del terzo per sfruttarne la
buona fede, deve subire gli effetti della revoca come se avesse compiuto
direttamente l’atto; viceversa, se la scelta del mandatario è stata autonoma, la
sua eventuale ignoranza dello stato di decozione del fallito salva anche il
“dominus” ”
17
.
16
Ad esempio, Cass. 10570/1992.
17
G. Terranova, ivi, pag. 117.