2
I.1 Premessa
Secondo recenti studi, appare inflazionata e generalizzante la definizione
classica della “musica” come arte di comporre i suoni secondo determinate leggi e
convenzioni costituenti un codice normativo
1
. Tramite analisi ed esperimenti più o
meno scientifici, nuove idee e approcci hanno contribuito a saldare i legami che
intercorrono come una ragnatela tra suono, sviluppo dell'intelligenza e linguaggio.
Queste ricerche porterebbero a pensare che la musica sia un vero e proprio
“linguaggio” e che accrescerebbe notevolmente lo sviluppo del cervello già nello
stadio prenatale dell'essere umano.
Ma come può la musica essere considerata un linguaggio? È vero che musica e
intelligenza hanno un legame ben definito? E infine ci si potrebbe chiedere quanto
essa riflette la nostra esistenza, se ne abbiamo davvero bisogno oppure è solo un lusso,
un mero surplus di informazioni che in realtà rende semplicemente più piacevole le
nostre vite e ci aiuta a far passare il tempo.
G. Rossini disse a tal proposito che “quello che è l’amore per l’anima è l’appetito per
il corpo. Lo stomaco è il maestro che dirige la grande orchestra delle nostre passioni.
Mangiare, amare, cantare, digerire sono i quattro atti di quell’opera
comica che è la vita
2
”.
Egli, con questa frase riesce a far intendere che la musica fa parte della vita
quanto le mani o la testa fanno parte del corpo umano.
F. Nietzsche si espresse sull’argomento dicendo genuinamente che “la vita senza
musica sarebbe un errore, uno strapazzo, un esilio” evidenziando il legame vita –
musica.
Compie un “salto ontologico”: la musica non fa parte della vita, essa è vita, e vivere
senza suoni equivarrebbe a non aver mai vissuto.
1 L'Universale Enciclopedia Generale, vol II, Milano, Garzanti Libri, 2003, p.1018.
2 Fonte da http://heinrichvontrotta.blogspot.com/2009/03/puccini-e-la-ripetizione.html.
3
I.2 Musica e linguaggio
Ho preso come esempio per il primo quesito due autori, le cui opinioni
risultano discordanti tra loro: John A. Sloboda e S. Langer.
Il cognitivista John A. Sloboda specifica che:
1. sia la musica che il linguaggio sono sistemi di comunicazione universali fra gli
uomini;
2. entrambi i linguaggi usano, fondamentalmente, lo stesso canale uditivo vocale;
3. ambedue possono produrre un numero illimitato di frasi;
4. i bambini imparano tutti e due i linguaggi, esponendosi agli esempi prodotti
dagli adulti;
5. esiste una forma scritta;
6. in entrambi i linguaggi è possibile distinguere una fonologia (componenti del
linguaggio), una sintassi (le regole per combinare fra loro le componenti) e
una semantica (attribuzione di significato ai prodotti del linguaggio);
7. il legame perpetuo tra musica e linguaggio può essere suggerito da un’analisi
della suddivisione del cervello: il piano temporale, situata nel lobo temporale
della corteccia cerebrale è l’area del cervello che sembra essere associata
all’elaborazione del linguaggio e sembra anche che “classifichi i suoni”
3
.
La teoria di Sloboda, in specifico sull'ultima asserzione, ha avuto
successivamente conferme nel mondo scientifico: nello studio delle aree del cervello,
si è scoperto che la sezione che si occupa della musica va a sovrapporsi in parte alla
sezione del linguaggio (corteccia frontale, sede anche del movimento).
D'altra parte, c'è chi afferma il contrario.
S. Langer, per esempio, nega alla musica la definizione di linguaggio, in quanto non è
possibile costruire un vocabolario musicale, quindi la musica non ha un significato
3 F. Emer, Le basi teoriche della musica, inedito, p.13.
4
convenzionale. È espressione di un mondo emotivo, ma il suo significato non è
traducibile.
La musica non possiede una grammatica, una sintassi e per questo motivo,
quando si paragonano i suoni della scala musicale alle parole, si fa soltanto uso di
allegorie. Il suono, isolato dal contesto musicale a cui apparteneva, non possiede
significato. Per questo motivo, il simbolo musicale non può essere tradotto; il simbolo
discorsivo sì
4
.
Altri autori hanno contribuito ad elaborare teorie e considerazioni in favore
della tesi o dell'antitesi.
Essenzialmente si può ritenere che la verità sia nel mezzo (perlomeno fin quando
solide basi scientifiche non garantiscano una definitiva conclusione): la musica, a
prescindere dal suo essere o meno un linguaggio, resta comunque una forma molto
ampia di comunicazione, di certo non quella primaria.
Essa veicola idee, sentimenti e sensazioni in modo diverso ma non dissimile dalla
parola. In alcuni villaggi africani si è soliti imitare con i tamburi veri e propri
“messaggi verbali” o, senza andar troppo lontano dall'Italia, qualcuno in Svizzera
sfrutta ancora l'uso della tecnica di canto jodel (utile segnale atto a richiamare
l'attenzione di altri pastori nelle vallate in caso di pericolo, benché oggi prevalga
maggiormente in forma artistica). Altri spunti interessanti ci derivano dal panorama
musicale delle origini, il quale fu molto vario: ogni regione ebbe un suo repertorio di
melodie per le diverse occasioni, tramandato oralmente di generazione in
generazione. Solo in seguito le melodie più significative e più apprezzate furono
portate fuori dai luoghi di origine per opera di musici che “diedero loro un nome”,
così che ciascuna fosse riconoscibile nella sua individualità da parte di tutti i Greci,
dei quali divennero patrimonio comune. Queste linee melodiche furono denominate
nomoi, con lo stesso termine che significava le leggi. Si trattava di strutture
melodiche definite, ciascuna delle quali doveva servire per una particolare occasione
4 Idem, p.7.
5
rituale: ogni nomos ricordava nel titolo il luogo di origine, come ad esempio i nomoi
Beotico ed Eolico, o le caratteristiche formali, come i nomoi Otthio, Trocaico e Acuto
(nei quali la denominazione fa riferimento alla forma ritmica o all'estensione tonale)
o la destinazione sacrale, come il nomos Pitico, il nomos di Zeus, di Atena, di Apollo.
La normalizzazione e la definizione dei caratteri dei nomoi possono essere
considerate il primo intervento personale di un compositore sul materiale melodico
tradizionale: Plutarco ne attribuisce il merito in primo luogo a Terpandro (VIII-VII
secolo a.C.), un musico di Antissa nell'isola di Lesbo che, trasferitesi a Sparta, vi
istituì una scuola musicale
5
.
I greci dunque, impiegavano le specie tonali in occasioni ben determinate,
ritenendo in questo modo di farsi comprendere dal pubblico. Come si è potuto
osservare, si utilizzava ad esempio il modo dorico per le situazioni severe e serie, il
modo eolico per i canti d'amore; la nostra tonalità maggiore, equivalente alla varietà
lidia era utilizzata per dimostrare tristezza e malinconia
6
.
I.3 Musica e intelligenza.
Per rispondere al secondo quesito, vorrei far riferimento agli studi dello
psicologo H. Gardner.
Egli distingue ben nove tipi d'intelligenza, situati in varie zone dell'encefalo, che si
suddividono in intelligenza linguistica, spaziale, intrapersonale, esistenziale,
naturalista, logico-matematica, corporeo-cinestesica, interpersonale (o sociale) e
musicale. Non una quindi, bensì diverse intelligenze che possono essere più o meno
sviluppate secondo l'esercizio o la naturale predisposizione (più precisamente,
Chomsky afferma che le abilità musicali si acquisiscono tramite l’interazione con
5 F. Emer, La musica nella cultura greca, inedito, p.8.
6 G . Révész, Psicologia della Musica, Firenze, Giunti Barbera, 1954, p.121.
6
l'ambiente musicale e sulla base di capacità e tendenze innate).
In particolare, l'intelligenza musicale ha a che fare con i principali elementi costitutivi
della musica, vale a dire il tono (o melodia) e il ritmo. Inoltre consiste in una raffinata
competenza nel distinguere il timbro, cioè la qualità caratteristica di un suono. Il
senso dell'udito è cruciale a ogni partecipazione musicale, ma almeno un aspetto
centrale della musica - l'organizzazione ritmica - può esistere a prescindere da ogni
percezione uditiva. L'organizzazione della musica è in parte orizzontale - perché i
rapporti fra suoni quali si dispiegano nel tempo - e in parte verticale - perché due o
più suoni possono essere emessi nello stesso tempo dando origine a un suono
armonico o a un suono dissonante
7
.
V orrei porre però in rilievo l'ipotesi di Shenker sull'importanza che ha
l'orecchio nello studio della musica e nell'apprendimento di una qualsiasi lingua,
compresa la lingua-madre:in fondo, il sentire suoni ha messo in moto i principi della
comunicazione, ha creato i linguaggi. Secondo questo autore la nostra società si
preoccupa troppo dell’intelligenza: esami di ammissione all’Università, colloqui di
lavoro privilegiano il pensiero lineare dell’emisfero sinistro; tali abilità sono
essenziali, ma possono non essere così basilari come la capacità di ascoltare e di
parlare
8
.
L'orecchio, fondamentale anche per capire l'evoluzione dell'uomo, ha una
sensibilità tale che un suo ulteriore sviluppo sarebbe eccessivo.
Per farsi un'idea della sensibilità dell'orecchio verso gli stimoli fisici, può
valere il seguente esempio: il lavoro necessario per sollevare di un centimetro un
milligrammo corrisponde a quello che nel sistema fisico di misura vien detto un
“erg”; si è potuto determinare che il più piccolo stimolo percepito dall'orecchio come
suono, espresso in valori di energia, rappresenta appena la bilionesima parte di
7 Fonte da www.wikipedia.it.
8 F. Emer, Le basi teoriche della musica, inedito, p.35.
7
questo erg
9
.
Viene dunque riconosciuta, almeno in un ramo della psicologia, la musicalità
come “atto d'intelligenza”, ma il punto è se questo tipo di intelligenza, il rapportarsi
ad uno strumento, al canto o ascoltare determinata musica possano toccare anche le
“altre” intelligenze.
Z. Kodaly, compositore ungherese famoso tra l'altro per aver elaborato un metodo
didattico che porta il suo nome, ritiene essenziale lo studio della musica in quanto il
suo effetto influenza positivamente l'intera personalità.
Determinata musica può migliorare la capacità del cervello di percepire il
mondo fisico, formare immagini mentali e osservare i cambiamenti negli oggetti.
Quindi, la musica può influire sul modo in cui percepiamo lo spazio intorno a noi
10
.
Ancora Sloboda, accettando la teoria di Gardner, ritiene che l’intelligenza
musicale (intelligenza intesa come “abilità di adattamento”) sia responsabile delle
coordinazioni nervose responsabili dell'invio e della ricezione dell'informazione
musicale
11
.
Werner nel 1917, e successivamente Schunemann tredici anni dopo, sviluppano una
teoria basata sulla sperimentazione pragmatica, secondo la quale l'infanzia veniva
suddivisa in “stadi di sviluppo” del senso musicale.
Essi non attribuiscono valore al primo anno di vita: in questo periodo il bambino è
affascinato dal rumore e spesso cerca stimoli acustici, tuttavia ciò non ha nulla a che
vedere con la comprensione musicale.
Già a partire dal secondo anno fino al quinto circa, si nota un maggior contatto tra
bambino e musica, essenzialmente tramite il movimento e il gioco, quindi il ritmo, il
quale viene “assimilato” prima della melodia. Quest'ultima nasce qualche tempo dopo
9 G . Révész, Psicologia della Musica, Firenze, Giunti Barbera, 1954, p.17.
10 F. Emer, Le basi teoriche della musica, inedito, p.36.
11 Idem, p.37.
8
il periodo della lallazione, e l'infante crea una sorta di blando “legame” tra testo e
musica.
Ma è dal sesto anno in poi che la musica esplode nel mondo del fanciullo:
Schunemann notò il loro stato attentivo durante una esecuzione al pianoforte, l'esser
presenti ovunque vi sia musica.
Rilevante è anche l'evoluzione del canto: il bambino acquisisce in questa età una
consapevolezza tale da poter cantare melodie con fermezza e controllo e, se
opportunamente stimolato, tenta addirittura di migliorarsi.
L'entrare in un coro in questo stadio, l'approcciarsi ad un qualsiasi strumento per
creare “musica d'insieme”, spingono all'empatia e vanno a stimolare innanzitutto
l'intelligenza interpersonale, ma anche quella intrapersonale, migliorando la capacità
d'introspezione e generando motivazione e fiducia in se stessi.
Diminuisce la tendenza alla violenza, soprattutto perché suonare, come lo sport, è una
grossa valvola di sfogo, e aiuta ad essere collaborativi. Non meno importante è il
cosiddetto “effetto transfert”. I piccoli che suonano trasferiscono questa esperienza ad
altri ambiti cognitivi ed ecco perché essi dimostrano migliori capacita' nella
matematica, nella logica, nello stabilire rapporti interpersonali e nella maggiore
creatività e sensibilità.
Sembra proprio che l'esercizio musicale faccia bene al cervello, rendendolo più
veloce, efficiente e preciso, ma anche allo “stile di vita” dell'essere umano,
spingendolo all'empatia e alla collaborazione sociale.
I.4 Musica e vita.
Dopo questa panoramica che mette in correlazione “musica – intelligenza –
linguaggio”, c'è da chiedersi quanto la musica sia “interiore” all'essere umano, quanto
gli sia intrinseca, cioè se esista una “base biologica” per le origini della musica, come
se questa fosse nata insieme a noi.
9
Compito non facile è stato quello degli studiosi del settore, anche perché la
“semplice” capacità di insegnare ad un bambino ad ascoltare (non solo musica...) è
stata pressoché trascurata dalla società moderna
12
.
La mia riflessione parte dal concetto del cosiddetto “talento musicale”.
Si deve innanzitutto distinguere cosa sia il talento da cosa sia la disposizione.
Mentre “disposizione” significa prontezza di prestazione, il termine “talento”
indica delle capacità di prestazioni sopranormali, ben mature, in un particolare
settore dell'attività
13
.
Il talentuoso ha dunque una istintiva predisposizione musicale già nella prima
infanzia. Molti geni della musica hanno cominciato prestissimo le loro composizioni:
Mozart è un esempio fra tutti, ma anche Shubert, Hydn, Chopin, Haendel.
Non bisogna però trascurare che le loro fossero per lo più opere “tecniche” piuttosto
che “creative”: il genio di questi artisti sarebbe emerso solo anni dopo.
Haendel scrisse il Radamisto a 35 anni; Haydn le prime sinfonie a 20 anni; Mozart
raggiunse il genio operistico all'età di 24 anni con l' Idomeneo; Beethoven tra i 25 e i
30 compose i 3 Trio per pianoforte op.1 e le 3 Sonate per pianoforte op.2 e in ultimo
la sua prima Sinfonia.
Il talento non può, secondo ciò che è stato appena asserito, derivare solo
dall'ambiente, il quale contribuisce positivamente come stimolo.
Altro discorso merita l'ereditarietà musicale, sulla quale sono state fatte molte
riflessioni.
Riporto qui in basso l'albero genealogico della famiglia Bach:
12 Idem, p.27.
13 G . Révész, Psicologia della Musica, Firenze, Giunti Barbera, 1954, pp.152-155.
10
La grande famiglia di Bach vale come paradigma dell’ereditarietà del talento
musicale;
In essa probabilmente ci fu chi scelse di fare il musicista a causa dell'ambiente, o per
tradizione familiare, o semplicemente per il successo di uno dei suoi membri.
Ma le predisposizioni congenite hanno bisogno di un ambiente favorevole e consono
per potersi sviluppare al massimo. Il celebre W.A. Mozart, con elevate probabilità,
non sarebbe stato lo stesso se non avesse avuto vicino figure formative come quella
del padre, o se non avesse vissuto il legame con la sorella maggiore, anch'essa
considerata un pregevole esempio di precoce talento.
Eppure da un genitore non viene ereditato il talento ma solo la potenzialità, e questo
potenziale si potrà sviluppare solo tramite il lavoro, lo studio, l’educazione e
l’interesse personale.
11
Passiamo ora dall'approccio dell'evoluzione personale a quello antropologico.
Si sono notate somiglianze musicali in diverse culture che non sono venute in contatto
tra loro. Esse riguardano gli elementi musicali di altezza e qualità (il timbro del suono,
cioè “l’impronta digitale” di uno strumento che fa sì che sia riconoscibile da un
qualsiasi altro mentre si emette la stessa nota) , quindi la “sensazione sonora”.
In molte culture, benché ci siano sempre intervalli diversi per raggiungere l'ottava,
appaiono sempre la quarta e la quinta, oltre alla particolare asimmetria tipica
dell'ottava tonale.
Questo perché la terza, la quarta, la quinta e l'ottava, se suonate insieme in varie
combinazioni, creano la cosiddetta “consonanza”, cioè creano piacere all'ascolto
generando un suono di per sé non “aspro” e contrastante come invece accade per la
“dissonanza”.
Ciò non è solo una sensazione umana, ma è documentato da studi sulla fisica acustica
i quali hanno portato alla “teoria degli armonici”.
In breve, questa teoria mette in evidenza la natura dei suoni e le relazioni che hanno
con altri suoni.
Lo studio delle forme d'onda dei vari strumenti ha rivelato che ogni genere di
suono generato da uno strumento musicale è costituito da una serie ben determinata
di suoni più semplici con frequenze diverse che suonano simultaneamente: la
cosiddetta serie degli armonici. Questi suoni sono molto numerosi e diventano sempre
più acuti e deboli man mano che si procede lungo la serie, i primi tra essi sono: 8^,
5^, 8^, 3^ maggiore, 5^, 7^ minore.
Essi spiegano perché due suoni che distano questi precisi intervalli risultino
“omogenei” al nostro orecchio: essi sono proprio i suoni che noi chiamiamo
“consonanti”.
Prendiamo ad esempio la nota Do. I primi sei armonici che incontreremo sono:
Do, Sol, Do, Mi, Sol, Sib, disposti in diverse ottave. Se allineiamo questi tre suoni in
un'unica ottava otteniamo quattro note a distanza di una terza:
12
FIG . 1.
Di questi quattro suoni, i primi tre sono i più importanti: la terza e la quinta
della nota di partenza sono i nostri principali intervalli consonanti. Se rivoltiamo
queste tre note a partire dalla seconda nota otteniamo:
FIG . 2.
In quest'ultima figura prendiamo le stesse note ma le abbiamo rivoltate per
mettere in evidenza gli intervalli di quarta e di sesta che si formano tra i diversi gradi,
che sono gli altri due intervalli considerati consonanti se non formano intervallo di
seconda con un'altra nota.
Per questi motivi due note che distino un intervallo di terza sono considerate
consonanti tra loro e viene chiamato “accordo” la sovrapposizione di più note
disposte per terze
14
.
Tuttavia Revesz preferisce chiamare la dissonanza “consonanza di diversa
specie”, perché le vere dissonanze non esistono: cambiando il sistema musicale di
riferimento (per esempio passando dal sistema “tonale” a quello “dodecafonico”) la
dissonanza non può più essere considerata tale.
Si parlerà allora di “tensione”: se la tensione dell'intervallo è bassa (per esempio, se
l'intervallo è una “quinta giusta”, oppure un'ottava) allora si potrà dire,
14 Fonte da http://www.theguitarwizard.com/teoria_armonici.html.
13
generalizzando, che è consonante; se la tensione è alta (come avviene per il “tritono”
o per un grado congiunto), si sentirà una dissonanza.
Sulla questione ancora aperta della sensazione sonora, concludo con una citazione di
Fabrizio Emer:
Non possiamo stabilire quando e dove la musica sia nata poiché la sua origine
si perde nella notte dei tempi; su come e il perché sono state fatte molte ipotesi: si
pensò alla imitazione dei versi degli animali, a un discorso di particolare
concitazione tanto da essere urlato e quindi in qualche modo intonato, si pensò al
ritmo, in particolare quello prodotto durante il lavoro, si mise in rilievo il carattere
dei richiami che, emessi da più persone, soprattutto se di diverso sesso avrebbero
generato suoni più o meno acuti producendo così una prima rudimentale forma di
melodia.
Ma è stata fatta un'altra ipotesi che forse tra tutte è la più interessante. È l'ipotesi che
fa risalire sia la musica sia il linguaggio ad un’unica origine con una differenziazione
successiva. Questa teoria si basa sul fatto che presso alcune tribù africane primitive
esistono i cosiddetti linguaggi-suono nei quali il senso di una medesima sillaba varia
profondamente a seconda dell'intonazione con cui è pronunciata. Le parole-suono
servono agli uomini per comunicare ma poiché hanno diverse intonazioni sono già
anche musica.
È possibile e suggestivo immaginare che lingue di questo tipo, già ricche di
elementi melodici, siano portate a separare un certo punto la musica dalla parola,
riservando alle sillabe pronunziate il compito pratico di comunicare il pensiero
dell'uomo e ai suoni intonati quello più spirituale di esprimere un sentimento, un moto
dell'anima. Qualsiasi impressione, qualsiasi stato d'animo, qualsiasi sentimento, se
viene semplicemente detto con un linguaggio parlato è soltanto riferito, trasmesso a
un'altra persona, mentre se per lo slancio prodotto da una emozione esso viene
espresso musicalmente, ecco che avviene qualcosa di diverso, qualcosa di più.
È la nostra stessa emozione che, uscita al di fuori di noi, ha assunto una forma,
14
una consistenza, è diventata realtà una realtà sonora concreta percepibile da tutti gli
altri uomini. E proprio in questo una delle più straordinarie caratteristiche della
musica: essa può nascere come sfogo, lamento con impeto di gioia dal cuore di un
solo uomo e, nello stesso tempo, divenire espressione del dolore e della gioia di tutti
gli uomini, a tutti gli uomini comprensibile ed a tutti unita. Nessun linguaggio al
mondo può vantarsi di essere altrettanto universale
15
.
L’elemento citato è di certo importante ipotesi ed è a mio parere sicuramente
utile per riepilogare tutti i discorsi presi fino ad ora in considerazione ed espressi.
Interessante come l’idea che la sensazione sonora faccia parte dell’uomo, e che la
musica sia intrinsecamente umana proprio perché tutti gli esseri umani, in qualunque
parte del mondo, risentono comunque di determinate impressioni sonore.
15 F. Emer, Music@mente, Garamond, 2009, pp.75-76.
15
CAPITOLO SECONDO
Edgar Willems: una proposta innovativa.
16
II.1 Premessa: originalità del pensiero e dell’opera.
Edgar Willems (Lanaken, 1890 – Onex, Ginevra, 1978) offre, attraverso due
interessanti volumi a mio parere indivisibili, un ottimo ed esclusivo trattato nel quale
abbraccia una grande quantità di problemi relativi all’otologia e all’educazione
dell'orecchio (ma non solo questo, ovviamente).
In questo capitolo descriverò le molte teorie intuite da questo personaggio, per l'epoca
troppo avanzate per poter essere prese in considerazione (le prime pubblicazioni de
“L'orecchio musicale” risalgono al 1940 e al 1946), ma forse ancora oggi troppo
all’avanguardia affinché l'opera possa essere apprezzata interamente.
I molti consigli offerti riguardano principalmente l’armonia, la melodia e quella che
lui chiama “audizione interiore”
16
.
Evidenzio il “principalmente” perché in due soli volumi di poco più di 200 pagine
l’uno, il pedagogo riesce a sviscerare una vastissima quantità di dati e informazioni.
Tra di essi c'è l'educazione all’ascolto, una novità mai trattata precedentemente
e della quale il nostro autore si occupa, facendo notare al lettore (ma forse più che mai
a se stesso) che la sua iniziativa non è tanto un’azione pionieristica, quanto forse più
un “archeologico” riportare alla luce un qualcosa che si è perso nel tempo; una
scoperta che si rivela una “non-scoperta” proprio perché ci è sempre stata davanti agli
occhi, ma non l’abbiamo mai vista per davvero.
Il primo testo, tra l’altro con prefazione di un altro avanguardista musicale, Jaques –
Dalcroze, rimanda alla preparazione uditiva del fanciullo, con molti suggerimenti
(anche e soprattutto pratici) per chi volesse insegnare per l’appunto le basi musicali al
bambino – o per chi si orientasse per la prima volta nell’immenso mondo del suono
musicale – secondo l’approccio willemsiano.
La seconda opera, invece, è dedicata espressamente ai musicisti, ai direttori
d’orchestra, oltre a chiunque voglia approfondire la teoria degli accordi e degli
aggregati, ma è anche consigliata ai direttori di coro, ai pedagogisti e ai professori in
16 Cfr. paragrafi segg.