INTRODUZIONE
I. Il “fascino” dello sviluppo
“Lo sviluppo dipende non tanto dal trovare le combinazioni
ottimali delle risorse e dei fattori di produzione dati, quanto
nel suscitare e utilizzare risorse e capacità nascoste,
disperse o malamente utilizzate”
Hirshman A.O., Strategy of Economic Development
Lo sviluppo ha da sempre attirato l’attenzione di studiosi di ogni branca del
sapere (biologia, psicologia, economia, etc.), ognuna delle quali ha tentato
di dare il proprio contributo per la definizione di questo concetto. Senza
entrare nel merito delle definizioni di sviluppo, sembra opportuno chiarire,
al fine dell’analisi che verrà condotta in questa tesi, come tale concetto può
essere declinato in ambito sociologico ed economico.
In economia i significati di sviluppo sono essenzialmente tre: la crescita, la
trasformazione strutturale e il miglioramento del benessere collettivo
(qualità della vita).
L’idea più diffusa di sviluppo si basa, senza dubbio, sull’osservazione
dell’aumento della produzione e del reddito di un’economia, misurato dal
prodotto dei fattori localizzati in un paese (PIL), considerato quindi un
indicatore dell’andamento dell’economia nel breve periodo. Se, invece, si
considera uno spazio temporale più ampio, osservare la crescita del PIL non
sarà sufficiente a stabilire l’esistenza o meno di un processo di sviluppo, che
per definizione è un processo complesso che vede la partecipazione di
diversi fattori socio-economici.
Un altro approccio allo studio dello sviluppo economico si basa sul concetto
di cambiamento strutturale: in questo caso si fa riferimento all’esperienza
storica che dimostra che ad una crescita della produzione elevata e
prolungata, per un rilevante periodo di tempo, si accompagnano dei
mutamenti della struttura economica (la cosiddetta modernizzazione): il
passaggio da un’economia tradizionale, vale a dire basata su artigianato e
agricoltura e caratterizzata da scarso sviluppo della tecnologia, modesto
impiego di capitale nella produzione, bassa produttività del lavoro, basso
reddito pro capite ad un’economia moderna, caratterizzata da livelli di
reddito pro capite più elevati, diffusione della tecnologia e dei modi di
produzione industriali, alta produttività del lavoro.
La teoria economica più nota della concezione di sviluppo come
trasformazione strutturale è quella dei cinque stadi dello sviluppo elaborata
nel 1962 da Rostow, che mette in evidenza le connessioni tra trasformazione
della struttura economica e la crescita del reddito e tra sviluppo economico e
mutamento sociale e istituzionale.
1
Infine ci sono diversi studi che tendono ad analizzare il concetto di sviluppo,
inteso come crescita del prodotto nazionale, sviluppo economico e
modernizzazione, in un contesto più ampio di quello meramente economico,
considerandolo un mezzo per raggiungere altri fini, come la riduzione della
povertà ed il soddisfacimento di bisogni sociali. Molte sono le teorie che
sono state elaborate per definire quali sono i fini che la crescita economica
deve raggiungere perchè ci sia un aumento del benessere sociale e della
qualità della vita. La definizione di benessere, però, si è rivelata alquanto
complessa, poiché implica confronti tra individui diversi e perchè chiama in
causa diverse concezioni di giustizia, equità sociale, eguaglianza, nonché
diverse visioni dello sviluppo. Tuttavia, un primo tentativo di definizione
venne fatto negli anni settanta con l’elaborazione della teoria dei Basic
Needs (bisogni essenziali), secondo la quale la crescita doveva garantire a
tutti le minime quantità di cibo, vestiario, alloggio, acqua, sanità e
istruzione.
2
Evidenti sono però i limiti di questa impostazione teorica, in
quanto attribuisce ad alcuni bisogni un carattere obiettivo che in realtà
dipende molto dalle caratteristiche di un soggetto e dall’ambiente in cui
vive, oltre al fatto che non si tiene conto che, ad esempio, la partecipazione
alla vita sociale è un elemento fondamentale per determinare la qualità della
vita. In questo dibattito teorico si inserisce l’opera di Amartya Sen, il quale
ha dato un contributo molto importante alla soluzione del problema della
1
Cfr. Rostow W.W., The Stages o Economic Growth: A Non-Communist Manifesto,
Cambridge University Press, Cambridge, 1960.
Per le critiche al modello di Rostow si veda ad esempio: Bernstein H., Modernization
Theory and the Sociological Study of Development, Journal of Development Studies, 1971.
2
Cfr. ILO, Employment, Growth and Basic Needs: a One-World Problem, Geneva, 1976.
misurazione dello sviluppo. Egli sostiene che l’ammontare del reddito o la
quantità e qualità dei beni posseduti (entitlements) non sono indici
appropriati del benessere (well being) poiché i bisogni delle persone, i loro
fini e le capacità (capabilities) di utilizzare i loro redditi per convertirli in
attività funzionali (functionings) ai loro obiettivi sono diversi e dipendono
dalle caratteristiche del soggetto (età, condizioni fisiche, mentalità) e dalla
società cui appartiene (esistenza ed accessibilità di beni e servizi desiderati).
Dunque, secondo questa impostazione, la misura dello sviluppo dipende
dalla qualità della vita e dall’ampiezza delle alternative tra le quali un
soggetto è libero di scegliere.
3
È importante ricordare, inoltre, che dagli anni novanta la teoria dei Basic
Needs e quella di Sen hanno avuto una notevole influenza, non solo sulla
letteratura economica, ma anche sulla ricerca di indici più soddisfacenti per
misurare il livello di sviluppo di un Paese e i suoi mutamenti. Infatti, dal
1990 l’ONU utilizza un indice sintetico elaborato con il contributo di Sen, lo
Human Development Index, per classificare i Paesi secondo i valori di PIL
espresso in parità di potere d’acquisto, speranza di vita alla nascita,
alfabetizzazione, diffusione e livello di istruzione. Tuttavia, come tutti gli
indici sintetici, anche lo HDI presenta molte debolezze, in quanto non riesce
a cogliere le diseguaglianze che derivano dalla distribuzione del reddito né
ha risolto il problema di come ponderare i vari indicatori semplici che lo
compongono, per questo spesso viene accompagnato dagli indici di povertà.
Fino agli anni quaranta non si usava distinguere tra sviluppo e crescita come
si è soliti fare oggi; tale differenziazione ha avuto inizio negli anni
cinquanta, quando essa ha assunto essenzialmente due sensi tra loro distinti.
Una prima distinzione riguarda l’insieme dei paesi e contrappone il concetto
di growth per i paesi industrializzati a quello di development per i paesi in
via di sviluppo, per i quali è necessario considerare anche i mutamenti
sociali e politici, oltre alla crescita economica. La seconda distinzione è più
“di metodo” e specifica che la crescita riguarda i meccanismi economici che
3
Cfr. Ad esempio: Sen A., Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 e
Sen A., Lo sviluppo è libertà. Perchè non c’è crescita senza democrazia, Mondadori,
Milano, 2000.
assicurano l’aumento della produzione e quindi della ricchezza e del
benessere, mentre lo sviluppo indica i processi sociali, politici ed economici
che portano al superamento della deprivazione ed aumento della qualità
della vita. Per la seconda distinzione non è ancora stata elaborata una teoria
sociale integrata, vale a dire una teoria che riesca a mettere insieme i diversi
piani economico, sociale e politico-istituzionale, per questo la prima
distinzione è ancora quella prevalente.
Alla luce dell’analisi che verrà affrontata nel lavoro che segue è quindi
importante rimarcare, e tener conto, delle complesse interrelazioni tra
evoluzione economica e istituzionale e realtà politiche e sociali, per poter
dare un quadro completo dello sviluppo della regione che si andrà ad
esaminare.
II. Europeizzazione, regioni e sviluppo
Osservando l’evoluzione dei meccanismi di sviluppo economico che hanno
caratterizzato l’Italia nel contesto europeo, si nota come il Novecento, dopo
la crisi causata dalle due guerre mondiali, sia stato caratterizzato da un forte
intervento pubblico volto alla ricostruzione e riduzione degli squilibri nel
ventennio successivo alla fine del conflitto e da un periodo (anni settanta e
ottanta) caratterizzato dall’azione di uno Stato sempre più “ingombrante”
nella gestione delle politiche pubbliche e nella programmazione dello
sviluppo locale.
Negli anni novanta lo scenario delle politiche pubbliche nazionali cambia
profondamente con la trasformazione della Comunità in Unione Europea e
l’inizio del processo di integrazione, non più solo economica, degli Stati
Membri: per perseguire il fine politico della coesione europea si rendeva
necessaria l’esistenza di un’entità sovranazionale che non avrebbe sostituito
lo Stato-nazione, ma si sarebbe basato su una nuova architettura
istituzionale costruita su diversi livelli di responsabilità politiche,
economiche, sociali con distinti poteri. La coesione si poneva, quindi, fin
dall’Atto Unico Europeo del 1986, come il risultato politico dell’Unione che
dipendeva, da un lato, dall’innesco di un processo socio-economico di
convergenza e, dall’altro, dal processo di integrazione che lo avrebbe
sostenuto nel lungo periodo.
4
Per il nostro Paese, l’integrazione europea ha rappresentato sicuramente un
vantaggio e non un problema, come sostengono ancora in molti, dal
momento che il sistema politico negli anni novanta era molto debole,
corrotto, scarsamente efficace: grazie all’integrazione si è attivato un
processo di rafforzamento dello Stato e delle sue capacità istituzionali,
sostenuto anche dalla compresenza di altri fattori come il crollo della Prima
Repubblica, la de-ideologizzazione della cultura politica, l’esistenza di
un’opinione pubblica favorevole all’Europa, l’ingresso sulla scena di nuovi
politici e nuovi metodi di policy-making.
5
Tabella 1
Europeizzazione e trasformazione delle politiche nazionali di coesione
Struttura di
policy/fasi di
policy
Obiettivi Principi Strumenti Procedure
1950-65
Il modello
originario
Progresso
economico
e sociale
dell’Italia
meridionale
Concentrazione
geografica
Finanziamenti
agevolati
mirati
Automatiche
(senza
monitoraggio
né
valutazione)
1965-86
Il consolidamento
Progresso
economico
e sociale
dell’Italia
meridionale
Concentrazione
geografica
Programmazione
Finanziamenti
agevolati a
pioggia
Discrezionali
(“parere di
conformità”)
1986-2000
La
trasformazione
75% PIL
pro capite
medio della
Comunità
europea
Concentrazione
Programmazione
Addizionalità
Partenariato
Finanziamenti
agevolati
mirati (project
financing)
Automatiche
(con
monitoraggio
e valutazione)
Fonte: Graziano P., La nuova politica regionale italiana:il ruolo dell’europeizzazione, pag.
106 in Fabbrini S. L’europeizzazione dell’Italia, Laterza, Bari, 2003.
Lo Stato centrale si è svuotato gradualmente di funzioni amministrative sia
politiche che economiche che sono state assunte da altre autorità, enti
territoriali, agenzie ed autonomie funzionali: questi profondi cambiamenti
4
Cfr. Leonardi R., Coesione, Convergenza e Integrazione, Il Mulino, Bologna, 1998; pp.
13 e ss.
5
Ferrera M., Un’Italia salvata dall’Europa, ma ancora libera di danneggiare se stessa,
pag. 244-5 in Fabbrini S. L’europeizzazione dell’Italia, Laterza, Bari, 2003
nella sfera dei poteri pubblici vengono sanciti dal Trattato di Maastricht del
1992 (che riprende le linee discusse ed approvate nell’Atto Unico Europeo)
il quale valorizza il principio di sussidiarietà
6
, concentrando l’attenzione
sulle relazioni tra i livelli nazionali e sovranazionali.
Inoltre, con i Programmi Integrati Mediterranei del 1995 e le esperienze dei
Quadri Comunitari di Sostegno (1989-1993, 1994-1999, 2000-2006) si sono
sviluppati programmi di sviluppo integrati tra UE, Stato Centrale e Regioni,
riconoscendo che lo sviluppo territoriale dipende dalla capacità progettuale
di enti subnazionali, che sono quelli che meglio conoscono il contesto locale
sul quale il programma andrà ad agire. In seguito a queste evoluzioni, le
amministrazioni pubbliche hanno dovuto adeguare le proprie strutture
burocratiche per rispondere alle nuove esigenze di programmazione,
condizionate dai sistemi di cofinanziamento comunitari e dalla
compartecipazione finanziaria della pubblica amministrazione e dei privati.
È a questo punto che, nel caso italiano (ma non solo) si può parlare di
europeizzazione, un processo che, nel periodo successivo all’Atto Unico
Europeo e al Trattato di Maastricht
7
, ha influenzato l’integrazione ed ha
portato ad un allineamento dell’azione nazionale alle norme della nuova
governance europea.
L’Unione Europea ha così contribuito a ridefinire i rapporti, non solo tra i
singoli Stati e l’Unione stessa, ma anche all’interno di ciascuno stato
membro, tra quest’ultimo ed i suoi enti territoriali. Non si può affermare,
quindi, che la diffusione del regionalismo a livello europeo rappresenti un
fattore negativo; al contrario esso nasce da esigenze economiche e sociali
sorte in seguito allo sviluppo del processo di integrazione: per l’Italia, il
6
Art. 5 TCE, “La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli
obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua
esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà,
soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere
sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni
o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario.
L'azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli
obiettivi del presente trattato.”
7
Cfr. Fabbrini S. L’europeizzazione dell’Italia, Laterza, Bari, 2003, pag. 3-4. Come riporta
Fabbrini : “L’europeizzazione non deve essere confusa con l’idea di omogeneizzazione
delle strutture interne dei Paesi membri della UE, quasi che il processo strutturale fosse
destinato a favorire un isomorfismo strutturale tra questi ultimi.”
regionalismo si rivela di particolare importanza e decisivo per la
programmazione delle politiche di sviluppo in un modello economico basato
in larga parte su PMI legate al territorio.
8
FIGURA 1
Relazioni tra gli effetti degli interventi strutturali dell’Unione europea
Fonte: Boccia, Leonardi, L’evoluzione della pubblica amministrazione italiana, Il
Sole24Ore, Milano, 1997
L’integrazione ha modificato il ruolo delle regioni, riconosciute come
l’ambito più idoneo dell’azione comunitaria, rendendole le portavoce delle
politiche territoriali ed il mezzo per ridurre la distanza tra le istituzioni
europee ed i cittadini.
9
Alle regioni è stato chiesto di assumere un ruolo di
8
Boccia F., Leonardi R., Letta E., Treu T., I Mezzogiorni d’Europa. Verso la riforma dei
Fondi Strutturali, Il Mulino, Bologna, 2003, pag. 107.
9
In questo contesto si inserisce la Riforma del Titolo V della II Parte della Costituzione.
Supporto alle
risorse umane
Supporto alle
strutture produttive
Sviluppo
esogeno
Sviluppo
endogeno
Fattori di sviluppo
nel breve periodo
Riduzione della
disoccupazione
Aumento del
reddito
Miglioramento
condizioni di vita
Supporto
all’infrastruttura
di base
Fattori di sviluppo
nel breve periodo
COESIONE
ECONOMICA E
SOCIALE
regolatore dei processi di sviluppo e allo stesso tempo di orientare
l’economia locale, dato il loro coinvolgimento nel processo di policy-
making europeo, raccogliendo le proposte progettuali che provengono dal
territorio, trasformando tali proposte in progetti finanziabili e individuando
le fonti più coerenti di finanziamento.
III. Obiettivi ed organizzazione della ricerca
Lo studio delle dinamiche dello sviluppo e del mancato sviluppo che
portano all’esistenza di importanti divari socio-economici tra regioni che
appartengono ad un’area territoriale considerata prospera, ricca, del
cosiddetto “Nord del Mondo” quale è l’Unione Europea, è stato l’obiettivo
principale di questa ricerca.
Questa tesi nasce in seguito allo studio delle politiche economiche regionali
europee, in particolare in seguito all’osservazione delle dinamiche socio-
economiche che portano alcune regioni ad essere considerate ricche e
sviluppate ed altre a rientrare nel gruppo dei cosiddetti followers in ritardo
di sviluppo. I persistenti divari, sia sociali che economici, tra le regioni del
Nord e quelle del Sud, sia all’interno di un’Unione Europea sempre più
ampia che all’interno del nostro Paese, sono noti a tutti da diverso tempo,
tanto che la definizione di Mezzogiorno, solitamente utilizzata per indicare
le regioni meridionali italiane in “ritardo di sviluppo”, è divenuta “famosa”
in tutto il continente ed è stata utilizzata (spesso anche a sproposito) per
indicare quelle situazioni di sottosviluppo di particolare gravità che
affliggevano molti paesi europei collocati geograficamente a Sud.
La scelta della regione Abruzzo come caso di studio è duplice: in primo
luogo l’Abruzzo (fino al 2000) è stato considerato un caso di successo a
livello europeo poiché, tra le regioni meridionali, è stata l’unica che ha
superato i suoi ritardi ed è stata in grado di innescare un processo
autopropulsivo di sviluppo (seppur caratterizzato da alcuni limiti strutturali),
in secondo luogo perchè l’Abruzzo è una realtà a me molto vicina dato che
le mie radici affondano nei territori narrati da Ovidio, Ignazio Silone e
Gabriele D’Annunzio. Vivere per diciotto anni in quel territorio mi ha
permesso di comprendere meglio di quanto avrei fatto analizzando un altro
caso regionale, quali sono le dinamiche che hanno portato questa regione ad
essere ciò che è adesso e a capire i suoi limiti, i suoi problemi strutturali, le
sue potenzialità. Purtroppo, l’immagine dell’Abruzzo descritto in
Fontamara, abitato da cafoni e gente semplice dedita al lavoro nei campi, le
cui giornate sono scandite dal sorgere e calare del sole, dove è assente
qualsiasi possibilità di sviluppo, è ancora molto vivo nell’immaginario
collettivo di molti italiani, ma anche di molti abruzzesi. Ricordo ancora
quando al liceo una docente di Lingua e letteratura tedesca, “preparandoci”
per la partenza per uno scambio con alunni di una scuola tedesca, ci disse di
non pronunciare mai la parola Abruzzo all’estero, per evitare di evocare
nella mente di chi ci avrebbe accolto l’immagine di un luogo pieno di
pecore e pastori, unici elementi per cui (secondo lei) la nostra regione era
famosa.
Andando al cuore della storia passata e delle vicende attuali si “scopre” che
(come spesso accade) la “cultura contadina” è stata una fonte ricchezza per
lo sviluppo della regione, dato che l’economia abruzzese si basa sull’azione
di solide reti familiari e parentali che hanno operato, ed operano ancora
oggi, soprattutto nel settore primario (viste le favorevoli caratteristiche geo-
morfologiche del territorio), e nell’artigianato (tessile e abbigliamento,
pastifici, etc.).
Nel corso dell’analisi emergerà che uno dei fattori più importanti che ha
contribuito al successo regionale è stata proprio la società abruzzese, che ha
saputo cogliere le opportunità derivanti dagli aiuti esterni (statali ed
europei), incanalandoli in attività e settori che si sono rivelati strategici per
la sua crescita e, soprattutto l’assenza di attività criminali, che invece
caratterizzano altre zone del Mezzogiorno, ha permesso lo sviluppo
equilibrato della regione.
Per comprendere le ragioni di tale successo, ho concentrato la mia
attenzione sulle politiche di sviluppo che hanno riguardato la regione dagli