INTRODUZIONE
Quello di cui ho bisogno per introdurre questa tesi è uno sforzo di
immedesimazione: si prenda la dimensione più claustrofobica che si riesce ad
ipotizzare; si pensi di nascere, vivere, crescere confinati in ogni momento al suo
interno, con limiti e regole da seguire che qualcun altro ha stabilito per noi, con
minuziosità scientifica ed un’attenzione infinitesimale ad ogni dettaglio, scale di
valori alle quali dobbiamo aderire. Si pensi, poi, di farlo poiché non abbiamo mai
conosciuto altro modo di vivere rispetto a quello; il senso di oppressione
indubbiamente diminuisce, a questo pensiero: una palizzata che ci impedisce di
vedere oltre, se non conosciamo nient’altro, non è una privazione, è la fine
dell’universo. Poniamo ora, però, che la recinzione ceda in un punto e che si
riesca a captare che un “fuori” esiste e che è popolato da nostri simili, che tutto
quello che ci è stato insegnato è arbitrario, che siamo stati segregati per una vita
intera alimentandoci di menzogne. La fuga diverrebbe istintiva, irrazionale, alla
stregua di un animale che corre ansimante fino a che il fiato lo sostiene per
allontanarsi dagli spari di un fucile.
In Kynodontas, opera del giovane regista greco Yorgos Lanthimos, sono due
ragazze ed un giovane ad essere chiusi nel recinto. Ma se allargassimo i confini, al
suo interno potrebbero entrarci una generazione, uno Stato intero, una categoria
qualunque di persone, l’umanità intera; il padre-cancelliere potrebbe essere
sostituito, di volta in volta, con una molteplicità di figure, leader potenti, non
necessariamente brutali o malevoli: tutto potrebbe essere condotto in nome del
nostro bene.
Kynodontas riflette sul concetto delle regole, delle imposizioni sociali, delle
costruzioni mentali, su quello che ci dicono e prendiamo per vero. Non c’è uscita
dal folle Eden della villa con piscina per questi tre ragazzi, che rimarranno eterni
adolescenti se non avranno il coraggio di compiere una scelta radicale.
Nel primo capitolo andrò a riflettere sulle molteplici modalità con le quali
l’atrofizzazione delle nostre condizioni mentali operata da diversi agenti ed in
particolare dall’attuale sistema economico (§ 1.2), dalla cultura della terapia e
dalla cultura della paura (§ 1.6), ci impedisca di uscire dalla condizione di latenza
tipica della transizione dall’adolescenza alla maturità, una terra di nessuno, una
1
palude tranquilla, una zona franca in cui ci trinceriamo e ci assopiamo poiché ne
conosciamo approfonditamente le caratteristiche e al suo interno ci sentiamo al
sicuro.
Ci si ripiega su sé stessi, costruendo il nostro microcosmo attorno alla latenza,
aggirando gli ostacoli, dirottando le nostre energie intellettuali ed emotive verso
un mondo immaginario, virtuale, alimentato da stimoli tecnologici, rimandando a
data da destinarsi la partecipazione al mondo reale, evitando di affrontare i
compiti che la crescita impone.
Negli ultimi decenni la psicologia e la sociologia in particolare hanno mostrato un
vivo interesse per lo studio dei processi di transizione all’età adulta, alla luce delle
trasformazioni sociali ed istituzionali verificatesi in questo lasso di tempo, che
hanno modificato profondamente il periodo giovanile, spostando il suo asse da
condizione a termine, fase preparatoria, rampa di lancio, a fase moratoria,
condizione dalla durata incerta. In Italia, poi, il fenomeno assume caratteristiche
peculiari: basti pensare che il livello di co-residenza tra genitori e figli adulti ha la
seconda incidenza più alta d’Europa. (§ 1.5)
La necessità di un approccio multidirezionale allo studio di questa particolare
transizione, che coinvolga direttamente anche la filosofia, è necessario per poter
prendere in considerazione gli aspetti di ordine strutturale ed extrastrutturale
coinvolti in questo cambiamento.
Nel secondo capitolo toccherò un argomento che mi coinvolge profondamente. É
un fenomeno relativamente nuovo nel panorama delle nostre conoscenze,
approfondito grazie alla pubblicazione dei lavori di Carla Ricci, un’antropologa
culturale ricercatrice presso il Dipartimento di Psicologia clinica dell’Università
di Tokyo: è il fenomeno hikikomori, che riguarda un milione di giovani
giapponesi che si ritirano in isolamento assoluto nella propria stanza e vi
rimangono ininterrottamente per lunghi periodi. É evidentemente un’altra storia di
latenza, di adolescenza senza uscita, è un altro microcosmo, rifugio e prigione.
Questo argomento, come ho anticipato, riveste un particolare significato per me:
ho vissuto lunghi periodi nei quali ho rifuggito il contatto umano, per evitare il
dolore del rifiuto, del fallimento. Il mondo fuori mi spaventava, le sue atrocità,
l’arroganza dei potenti, la legge del più forte, il ricevere giudizi prima di essere
2
compresa. Ulrich Anders, Zeno, Oblomov: abbracciavo a turno le loro inettitudini,
diverse tra loro ma accomunate dall’incapacità di agire. Una connessione a
internet mi bastava per mantenere alcuni vecchi contatti ed era sufficientemente
asettica per permettermi di non avvicinarmi troppo. Era istinto di sopravvivenza:
dava sollievo, ma allo stesso tempo anestetizzava le sensazioni. É ovvio per molti,
ma a lungo non lo è stato per me: isolarsi non è una risposta (non ha funzionato
nemmeno per Jean Des Esseintes, personaggio che inaugura il primo paragrafo
della tesi), una rottura è necessaria, la fiducia in sé e negli altri va conquistata,
l’angoscia va sentita, le scelte devono essere compiute; nel momento in cui si
avverte la crisi, essa dovrà essere interpretata come una fine che ci consenta la
possibilità di un nuovo inizio.
Nell’ultimo capitolo presenterò, infine, il lavoro di Miguel Ángel Martín,
controverso fumettista ed illustratore spagnolo, che ci offrirà un particolare punto
di vista sulle relazioni umane, sull’adolescenza e sulla solitudine.
3
4
CAPITOLO 1
ADOLESCENZA SENZA USCITA
Passano gli anni, i mesi
e se li conti anche i minuti.
È triste trovarsi adulti
senza essere cresciuti.
FABRIZIO DE ANDRÉ, Un giudice, 1976
1.1 Il microcosmo artificiale
Jean Floressas des Esseintes sognava “una raffinata tebaide, un confortevole
deserto, un'arca immobile e tiepida in cui rifugiarsi lontano dall'incessante diluvio
1
dell'umana stupidità”: nauseato dalla banalità dei suoi coetanei, dai loro giudizi,
dalla noia paralizzante che lo opprimeva in ogni momento della sua esistenza, non
riusciva a provare alcun interesse verso la società; “odiava, con tutte le sue forze,
le nuove generazioni, queste schiere di orribili cafoni che provano il bisogno di
parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano sui marciapiedi
2
senza giustificarsi”; si rifugiò così, come un eremita, in una villa nella campagna
parigina, immergendosi nell'oceano dei ricordi, abbandonandosi alla corrente dei
pensieri partoriti dalla sua mente inquieta.
Fu il conte Robert de Montesquiou-Fézensac, nobile discendente di una delle più
illustri famiglie di Francia, esteta ed asceta decadente dalla proverbiale insolenza,
ad ispirare Huysmans che, con il gusto provocatorio della contrapposizione
esagerata, sottolineava per tramite del sensibile e raffinato duca des Esseintes,
l'estraneità del proprio sentire alla temperie della fine del XIX secolo, la propria
repulsione per i valori degradanti della nascente società industriale, la necessità di
rispondervi affinando il gusto estetico, ricorrendo alla sofisticazione dell'intelletto,
3
all'artificio, “segno distintivo del genio umano”, autosuggestionando la mente al
punto di ricreare illusoriamente la vita esterna, fino a “sostituire il sogno della
4
realtà alla realtà” stessa.
La stanza da pranzo di des Esseintes ha l'aspetto della cabina di una nave, con il
1
J.K. Huysmans, Controcorrente, Milano, Mondadori, 2009, trad. di Fabrizio Ascari, p. 8.
2
Ibidem, p. 27.
3
Ibid., p. 24.
4
Ibid., p. 23.
5
soffitto a volta composto di travi a semicerchio, il pavimento d'abete, bussole,
compassi, binocoli, canne da pesca, una finestrella a oblò, un enorme acquario con
meravigliosi pesci meccanici, caricati come orologi, che si impigliavano talvolta
nelle erbe finte. Così egli, senza muovere un passo e senza fatica, “si procurava
5
rapidamente, quasi istantaneamente, le sensazioni di una lunga traversata”;
“muoversi gli pareva del resto inutile se la fantasia può, come stimava, facilmente
6
supplire alla volgare realtà dei fatti”.
La ricerca di protezione attraverso la costruzione di un microcosmo artificiale
volta alla creazione di uno scibile nuovo ed alternativo alla “vita reale” è il tema
principale di Κυνόδοντας (kynodontas, dente canino), opera seconda del regista
greco Yorgos Lanthimos, vincitore nel 2009 della sezione Un Certain Regard al
Festival di Cannes, trionfatore al Montreal Festival of New Cinema, Cavallo di
Bronzo a Stoccolma, Golden Hook al Festival of Mediterranean Film di Spalato.
In una grande villa immersa nel verde, con un'ampia piscina, pareti bianche e siepi
altissime, vivono come reclusi tre ragazzi, un maschio e due femmine, senza
nome né età dichiarata (all'incirca ventenni), figli di una coppia attempata, che ha
deciso di riservare loro una vita completamente isolata dal mondo esterno.
La condizione in cui i genitori-educatori allevano i figli è paradossale; nella
completa arbitrarietà, tutto si muove su confini sottilissimi tra tortura e sogno, in
una dimensione assieme fatata e sconcertante: essi si occupano dell'istruzione dei
ragazzi, del loro tempo libero, facendo sì che il timore verso l'esterno cresca di
pari passo con la dipendenza dalla loro protezione.
Il padre, direttore di fabbrica, è l'unico a poter uscire dalla dimora. Fatta eccezione
per un telefono ben nascosto nella stanza dei genitori, non esistono modi per
comunicare con l'esterno.
I giovani non conoscono altro modo di vivere, si muovono e parlano come eterni
fanciulli, il loro annientamento è completo; persino il lessico è mediato: i ragazzi
apprendono nuovi vocaboli ascoltando delle audiocassette. Accade così che il
“mare” sia una poltrona in cuoio con braccioli di legno, che l'“autostrada” sia un
vento molto forte e l'“escursione” un materiale molto duro utilizzato per
fabbricare i pavimenti. E che, se a tavola viene chiesto di passare il “telefono”,
5
J. K. Huysmans, Controcorrente, cit. p. 22.
6
Ibidem.
6