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Introduzione
“Tutti i dittatori sono democratici nel senso che il loro potere ha
come base e principale sostegno il 'demos', il consenso del popolo.
Questo è l'elemento che distingue il dittatore dal tiranno che si
appoggia unicamente sulla forza e sulla repressione.”
Così Eugenio Scalfari delinea il concetto di dittatura, in un articolo
pubblicato sull’Espresso il 24 ottobre del 2008.
E’ difficile parlare di dittatura senza subire l’influenza dei pregiudizi
negativi che, da sempre, circondano questo termine. Pensare alla
dittatura richiama inesorabilmente alla mente personaggi oscuri che,
durante i loro regimi, si sono imposti sul popolo con la violenza.
Partire da un simile presupposto, però, per avvicinarsi a un’idea
complessa come quella di dittatura, impedisce di cogliere molte
interessanti sfumature presentate da questo complicato concetto.
Associare a priori la dittatura alla tirannide è un percorso logico
estremamente riduttivistico e anche pericoloso. Non bisogna
dimenticare che l’istituto della dittatura nacque in epoca romana, con
la creazione di un magistrato straordinario che assumeva su di sé
pieni poteri durante i casi di emergenza; qualcosa di ben diverso,
insomma, da un tiranno.
Carl Schmitt, uno dei più grandi teorici del novecento, pensò bene di
dedicare un intero libro alla dittatura, La Dittatura, appunto, del 1921.
Il testo è spesso stato considerato, superficialmente, come un mero
strumento per giustificare il nazismo tedesco; in realtà l’opera di
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Schmitt ha ben altro spessore. Attraverso l’analisi de La Dittatura
sono riuscita a delineare alcuni concetti fondamentali, necessari per
comprendere meglio questa complicata forma di governo.
Schmitt distingue, innanzitutto, la dittatura commissaria da quella
sovrana; mentre la prima prevede, in una situazione d’emergenza, la
sospensione temporanea della costituzione, la seconda coincide con la
nascita della costituzione stessa. Nella dittatura commissaria,
l’autorità costituita (il sovrano, il senato, ecc…) attribuisce pieni
poteri a un commissario, compresa la facoltà di sospendere la legge;
provvedimento necessario per ristabilire l’ordine durante il caso di
emergenza. Nella dittatura sovrana, è il popolo che cede il suo potere
costituente a un rappresentante, il quale lo mette in forma, dando vita
alla costituzione. Per Schmitt solo il presidente della repubblica può
sintetizzare in sé le due forme di dittatura; il presidente è, infatti,
approvato dal plebiscito, da cui riceve il potere costituente, ed è anche
incaricato di proteggere la costituzione, sospendendola durante una
situazione di emergenza. Solo un presidente forte può superare la
frammentazione tipica della società e ricondurla a unità. Il più grande
insegnamento di Schmitt è che di fronte a una società perennemente
in conflitto, una democrazia parlamentare può fare ben poco. La
molteplicità dei partiti che compongono il parlamento si limita a
rispecchiare la pluralità conflittuale della comunità. I partiti
rappresentano gli interessi particolari di un gruppo e spesso entrano in
contrasto tra loro, riproducendo in sede legislativa la disgregazione
che caratterizza la società. Il presidente è una figura neutra, al di sopra
dei singoli egoismi privati e pronto a ricomporre la frammentazione
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sociale in unità. Il caso della ex Jugoslavia è perfetto come esempio
concreto dell’efficienza di una dittatura di fronte a un contesto di
disgregazione territoriale. I popoli jugoslavi, per secoli dominati da
forze esterne e impreparati a gestire una realtà complessa come quella
democratica, riuscirono a trovare unità e pace solo durante il regime
di Tito. Il pugno di ferro del maresciallo jugoslavo era l’antidoto
politico migliore per ricomporre la frammentazione dei territori
slavo-meridionali. La complessità etnica dei Balcani rendeva
impensabile qualsiasi altra forma politica: l’unico strumento adatto al
mantenimento dell’unità era il regime autoritario di Tito. Il
maresciallo jugoslavo, attraverso la creazione di una federazione in
cui le repubbliche si equivalevano e attraverso la scelta di una politica
volta alla protezione dell’unità e della fraternità contro ogni
presunzione nazionalistica, era l’unico soggetto politico in grado di
garantire una Jugoslavia compatta. La morte di Tito coincise per il
mondo jugoslavo con la fine della Federazione e con l’esplosione dei
nazionalismi locali, abilmente pilotati da politici bramosi di
conquistare il potere. Dopo la scomparsa del leader carismatico e la
fine del suo regime, tra i popoli jugoslavi scoppiò la guerra, una
guerra segnata da pratiche terribili come la pulizia etnica e lo stupro
di massa; una guerra che ancora oggi non può dirsi completamente
conclusa. Il mio non è un mero tentativo di giustificare la dittatura; si
tratta, diversamente, di una presa di posizione realistica. In un
contesto multietnico come quello jugoslavo, dove il conflitto tra le
diverse nazionalità era sempre pronto ad esplodere, il regime
autoritario titoista si rivelò il mezzo politico più adatto per assicurare
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l’unità territoriale. Di fronte alla disgregazione della comunità, solo
un capo carismatico possiede la forza frenante necessaria a garantire
l’unità; solo un dittatore può tenere a freno (katechein) gli istinti
pleonettici delle diverse componenti sociali. Non cerco di dare un
giudizio, mi limito ad analizzare un fatto concreto: la Jugoslavia ha
conosciuto la stabilità e l’unione solo sotto il dominio di un capo
carismatico come Tito. Forse non era giusto tenere insieme dei popoli
così diversi tra loro attraverso un regime autoritario e limitatore della
libertà, forse è stato meglio che ogni repubblica abbia conquistato la
propria indipendenza e introdotto la democrazia, pagando il prezzo di
una sanguinosa guerra; non è mio compito decidere cosa fosse più
giusto per il popolo jugoslavo; con questo testo cerco semplicemente
di analizzare la realtà dei fatti.
Attraverso un percorso storico-filosofico analizzerò il concetto di
dittatura nel pensiero schmittiano e il caso concreto della ex
Jugoslavia. Il primo capitolo sarà necessario per delineare il pensiero
di Schmitt approfondendo la differenza tra dittatura sovrana e
dittatura commissaria ed esaminando la critica al parlamentarismo da
lui effettuata. Nel secondo capitolo verranno esposti, brevemente, i
motivi storici che hanno portato il territorio jugoslavo a raggiungere
una simile complessità etnica. Il terzo capitolo descriverà i 35 anni di
governo di Tito, analizzando la sua linea politica e i metodi da lui
adoperati per amministrare la Jugoslavia unita. L’ultimo capitolo
delineerà, infine, la situazione che si creò, nel territorio jugoslavo, alla
morte di Tito, quando la forza frenante del capo carismatico venne
meno e le repubbliche che componevano la Federazione si trovarono
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coinvolte in una spirale di violente lotte, nel tentativo di conquistare,
ognuna, una posizione di superiorità rispetto alle altre.
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«La differenza tra dittatura e democrazia
è che in democrazia prima si vota
e poi si prendono ordini,
in dittatura non dobbiamo sprecare
il nostro tempo andando a votare.»
Aforismi, Charles Bukowski.
Capitolo I
Carl Shmitt e la dittatura.
Il pensiero di Shmitt è stato spesso considerato negativamente o
comunque, in maniera superficiale a causa del suo legame col
nazismo. Alcuni critici ritengono che un’opera come La Dittatura
contenga in sé soltanto dei principi preparatori alla giustificazione
del futuro regime nazista. In realtà il pensiero di Schmitt nasce e si
sviluppa molto prima del nazismo. La complessità della sua opera,
evolutasi nel corso di quasi settant’anni e più di lavoro, non può
essere ridotta solo alla fase nazista del suo pensiero, che,
concretamente, va 1933 al 1936. Nonostante esista un rapporto di
continuità tra gli studi di Schmitt e i contenuti nazisti, il suo pensiero
va studiato ed elaborato in maniera neutra, al di là dei semplici
tentativi di inquadrarlo in un determinato orientamento politico
piuttosto che in un altro.
L’elaborazione della teoria schmittiana della dittatura trova piena
concretizzazione nell’opera La Dittatura (Die Diktatur) del 1921. Il
testo, attraverso un’accurata analisi del caso d’eccezione e della
distinzione tra dittatura commissaria e dittatura sovrana, arriva,
infine, a rintracciare l’origine del potere politico. Schmitt definisce la
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dittatura come un mezzo per raggiungere un determinato scopo. La
dittatura nasce nel ambito del caso di eccezione, uno stato di
necessità in cui la stessa sopravvivenza della società e della
costituzione è messa in pericolo. La dittatura diventa quindi uno
strumento per salvaguardare la società. Si tratta di una fase
transitoria in cui il potere viene affidato interamente a un’autorità
superiore che può sospendere il diritto regolare in vista del
raggiungimento di un determinato obiettivo. Il dittatore si trova ad
operare direttamente sulla realtà, la sua azione dipende da
circostanze determinate, il suo intervento è giusto nella misura in cui
permette il conseguimento dello scopo prefisso; egli è soggetto solo
alla necessità e svincolato dalle leggi. Il dittatore è quindi sempre un
commissario, nella misura in cui gli vengono affidati pieni poteri per
porre fine allo stato di emergenza e salvare la libertà della
repubblica. La distinzione tra la dittatura commissaria e la dittatura
sovrana diventa fondamentale per passare da un’idea di dittatura di
riforma ad un’idea di dittatura rivoluzionaria. Il concetto di dittatura
commissaria nasce, infatti, in epoca romana e resterà
sostanzialmente inalterato fino allo scoppio della rivoluzione
francese, evento che segnerà il passaggio verso una nuova idea di
dittatura.
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1.1 Dittatura commissaria e dittatura sovrana
“dictator” = “ supremo magistrato in Roma, con pieni poteri, eletto
in casi eccezionali”
(IL, vocabolario della lingua latina).
Il concetto di dittatura nasce nell’epoca della repubblica romana
attraverso la creazione di un magistrato straordinario, nominato dal
console, che aveva il compito di gestire, per un periodo determinato,
il comando dell’impero dopo la cacciata dei Re, senza alcun vincolo
legislativo. Siamo di fronte un esempio lampante di dittatura
commissaria; è il senato, infatti, attraverso i consoli, ad attribuire la
nomina di dittatore al magistrato.
Schmitt sviluppa la sua indagine sulla dittatura analizzando
l’evoluzione di questo concetto e il suo progressivo distaccarsi dalla
classica accezione romana, a partire dal XVI secolo. In questo primo
periodo l’autore prende in considerazione soprattutto le osservazioni
fatte dal Machiavelli nei “Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio”.
Machiavelli estende il concetto di dittatura non solo ai casi
straordinari ma anche ai casi di amministrazione ordinaria, in cui si
presenta però la necessità di una decisione tempestiva. Per
Machiavelli la dittatura è fondamentale per salvaguardare le libertà
della repubblica; anche perché la dittatura è un istituto
costituzionale, essa non può modificare le leggi nè farne di nuove e la
normativa ordinaria rimane sempre in vigore per controllare
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l’attività del dittatore. Molti tendono a confondere il principe di
Machiavelli col dittatore ma non è così, poiché, per lo studioso, il
dittatore è un organo costituzionale mentre il principe è sovrano
(ecco già un primo indizio che sarà utile poi a distinguere la dittatura
commissaria dalla dittatura sovrana). Per Schmitt il dittatore esercita
la propria forza solo nel caso di eccezione, ma proprio colui che
decide del caso di eccezione, colui che stabilisce quando si verifica
uno stato di emergenza, detiene la sovranità.
Il dittatore è, secondo l’autore, un commissario particolare, un
commissario d’azione, il cui ambito è il potere esecutivo ovvero il
potere di agire direttamente sulle circostanze. Schmitt ritiene che il
concetto di dittatura commissaria sia stato introdotto, nella teoria
moderna dello Stato, da Bodin. Bodin risolve, infatti, il problema dei
rapporti tra dittatura e sovranità affermando che il dittatore è solo un
commissario, poiché chiamato a svolgere una commissione in una
frazione di tempo limitato; il sovrano, invece, conserva il potere per
un periodo indeterminato. Di tutt’altra opinione Grozio che non
individua alcuna distinzione tra dittatura e sovranità poiché
entrambe sono il frutto di una delega di potere, indipendentemente
dal fatto che essa possieda o meno un limite temporale. Il grande
merito di Bodin è da ricercasi nella messa appunto di una distinzione
precisa tra il commissario e il funzionario ordinario (facendo
rientrare in quest’ultimo gruppo il magistrato, egli, dissocia,
finalmente, questa figura da quella del dittatore). L’ufficiale
ordinario secondo Bodin ha una durata della carica permanente e
una serie di compiti definiti per legge; l’attività del commissario è