- - 6
In particolare, nel primo capitolo, abbiamo studiato kabuto, jingasa e mengu da un punto di
vista essenzialmente tecnico.
Innanzi tutto, soffermandoci sulle singole componenti di ciascun esemplare, abbiamo
ricostruito l’assetto compositivo dei tre manufatti cercando di non tralasciare alcun
dettaglio. Dal momento che la letteratura in materia non da sempre ampio spazio a questo
aspetto della realizzazione di kabuto, jingasa e mengu, il nostro primo obiettivo è stato quindi
quello di trattare, in un’unica sede, in modo esaustivo le modalità di realizzazione e di
applicazione di tutti quegli elementi che, assemblati tra loro, concorrono alla realizzazione
di elmi e maschere.
Inoltre, abbiamo ritenuto altrettanto importante evidenziare le diverse funzioni pratiche
che ha ciascuna componente. In certi casi, si è trattato semplicemente di integrare tra loro
tutte le informazioni raccolte, attraverso un continuo confronto tra le diverse fonti
bibliografiche. In altri casi, invece, abbiamo dovuto verificare nuovamente e in modo
critico quanto già appreso nelle fonti da noi considerate, oppure, in mancanza di dati al
riguardo, abbiamo dovuto fornire interpretazioni personali o suggerire ipotesi che
potranno essere suffragate da ulteriori studi specialistici.
2
Proprio in questa occasione abbiamo notato che diversi elementi compositivi vantano
anche una funzione ornamentale. Perciò, allo scopo di comprendere le eccezionali doti di
praticità, ma soprattutto nell’intento di mettere in rilievo le qualità decorative dei manufatti
considerati e delle loro componenti, nell’ultima parte di questo capitolo, abbiamo discusso
brevemente i materiali impiegati nella realizzazione di questi manufatti. In particolare, ci
siamo soffermati su metalli, fibre tessili e lacche, illustrandone le caratteristiche, le
proprietà meccaniche e le tecniche decorative, sottolineando al tempo stesso le eventuali
cause di degrado e fornendo, a questo proposito, alcune indicazioni su come operano, di
norma, i restauratori in occasione di un intervento conservativo.
Una volta analizzata la loro struttura compositiva siamo passati al secondo capitolo in cui
abbiamo studiato l’evoluzione dell’elmo giapponese dal periodo Kofun, in cui compaiono
i prototipi dai quali avrà origine il vero e proprio kabuto, fino al periodo Tokugawa.
2
A questo proposito ricordiamo che da anni in Italia il dott. Francesco Civita ha intrapreso uno studio
intensivo sulla produzione degli elmi giapponesi e degli oggetti ad essi correlati.
- - 7
Una volta individuate le principali tipologie di kabuto adottate nelle diverse epoche,
abbiamo fornito di ciascuna una descrizione della struttura compositiva, documentando,
innanzi tutto, l’evoluzione della tecnica costruttiva nel tempo. Questa operazione è stata
necessaria per comprendere come l’elmo sia stato frutto di secoli di studio e di
applicazione. Ci siamo così resi conto, e ci sembra importante rimarcarlo, che di fatto,
rispetto ai primi esemplari, l’ossatura del kabuto non è cambiata mai in modo radicale da
quando i primi armaioli, essi stessi guerrieri, attraverso la loro esperienza nello scontro
armato seppero ideare e realizzare valide difese per se stessi e per i propri compagni.
Infatti, l’assetto compositivo dell’elmo si adegua semplicemente alle diverse esigenze dei
samurai in ragione del momento storico contingente.
Ciò che, invece, cambia, nella struttura costruttiva del kabuto, è il valore che via via viene
riconosciuto o attribuito ai singoli elementi compositivi. È proprio in questa fase dello
studio, che abbiamo voluto evidenziare come, fin dall’inizio, ogni più piccola componente
ha un ruolo prevalentemente di carattere funzionale, ma vanta anche un importante peso
sul piano decorativo.
Con il passare del tempo, l’artista mette sempre più in risalto tutti gli elementi che
compongono le diverse parti del manufatto, da un lato, privilegiando i materiali che hanno
maggiore impatto visivo, come, ad esempio, le leghe metalliche colorate che consentono
accostamenti cromatici sempre nuovi, e dall’altro, adottando tecniche decorative comuni
ad altre forme dell’arte giapponese. Così facendo, alcuni elementi compositivi acquistano
valore prevalentemente ornamentale, mentre altri finiscono addirittura con il perdere la
loro funzione originaria per preservare un ruolo di carattere esclusivamente decorativo.
Inoltre, in taluni casi, l’importanza riconosciuta dall’artista alla componente estetica
dell’elmo diventa tale da indurlo ad aggiungere diversi nuovi elementi, accanto a quelli già
presenti, elementi che non hanno alcuna valenza pratica, ma esclusivamente decorativa.
In questo secondo capitolo, dando ampio spazio all’analisi della componente ornamentale
di kabuto, jingasa e mengu, abbiamo voluto dimostrare che questi manufatti possono essere
considerati una valida componente dell’arte nipponica, anche in ragione del loro profondo
valore simbolico. Infatti, essi si caricano di un’ulteriore e importante funzione, quella di
essere veri e propri emblemi di rango che permettono al guerriero di distinguersi,
mettendo in risalto la propria individualità.
In particolare, indossando elmo e maschera, il samurai acquista una nuova identità:
assumendo le sembianze o i connotati di una creatura sovrannaturale, il guerriero si carica
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di quella ferocia e di quella forza che gli consentono di affrontare il nemico, diventando,
come avevamo già anticipato, incarnazione della fama e della gloria del clan d’origine.
Tuttavia, questa nuova “identità” non gli è completamente estranea, ma è l’espressione di
una o più sfaccettature della sua personalità più latente.
Ciò è evidente, in modo particolare, nel periodo Tokugawa, sulla cui produzione ci siamo
soffermati a lungo. Abbiamo rilevato, attraverso l’analisi di elmi di foggia tradizionale, ma
soprattutto del tipo kawari, ovvero elmi insoliti e bizzarri usati per parate o cortei, il fatto
che, in questo momento di pace, i nuovi sviluppi sociali hanno notevolmente incoraggiato
la creatività artigianale. La fantasia degli armaioli raggiunge traguardi mai prima d’allora
conseguiti, rispondendo così alle crescenti e nuove necessità, più estetiche che funzionali,
del ceto samuraico.
La scelta di trattare con particolare attenzione questo periodo storico è stata determinante
nell’affrontare l’ultima fase dello studio, in occasione della quale abbiamo catalogato tutti i
kabuto, i jingasa e i mengu delle Civiche Raccolte d’Arte Applicata di Milano, che hanno sede
presso i Musei del Castello Sforzesco. Si è trattato di un’esperienza che si è rivelata
impegnativa, ma anche per questo alquanto stimolante.
Innanzi tutto, l’esame diretto dei manufatti ci ha consentito di prendere pienamente
coscienza di quanto appreso a livello teorico. È stato attraverso una puntuale schedatura
dei pezzi che ci è stato possibile comprendere e far comprendere il reale valore di una
serie di opere che pochi hanno avuto occasione di conoscere. Infatti, l’intera raccolta è
quasi completamente inedita e questo studio approfondito ci ha consentito di dare il
nostro contributo integrando la precedente catalogazione e proponendo, di ciascun
manufatto, una datazione e attribuzioni più precise.
Inoltre, la possibilità di visionare e maneggiare una serie di esemplari, ai fini della loro
analisi, si è rivelata fondamentale per comprendere alcune caratteristiche di questi oggetti,
come ad esempio il peso o l’effettiva praticità nella vestizione del guerriero, caratteristiche
che non si possono certamente dedurre né dagli scritti pervenutici né dalle riproduzioni
fotografiche di questi manufatti. Al contrario, abbiamo potuto comprendere e valutare
appieno questi e altri aspetti, soltanto attraverso il contatto diretto con queste opere.
In particolare, di ciascun oggetto abbiamo analizzato l’assetto costruttivo generale
valutando anche il contributo di ogni più piccolo elemento compositivo. Ci siamo
soffermati a lungo soprattutto sulla componente decorativa di ogni esemplare, con
- - 9
l’obiettivo di approfondire le nostre conoscenze sul repertorio iconografico cui l’artista fa
riferimento. Infatti, abbiamo cercato di comprendere e mettere in luce il valore simbolico
e allegorico di ogni motivo o immagine attraverso i quali l’artista propone la propria
visione del mondo del religioso, del naturale e del fantastico.
Contemporaneamente, abbiamo operato un confronto tra manufatti diversi, soprattutto se
appartenenti alla medesima tipologia. In questo modo, ci siamo resi conto del fatto che la
collezione, costituita soprattutto da opere ottocentesche, comprende esemplari
diametralmente opposti da un punto di vista qualitativo. Ciò testimonia l’esistenza in
epoca Tokugawa di diversi tipi di produzione: accanto a manufatti utilizzati sul campo di
battaglia, che versano oggi in uno stato di conservazione piuttosto precario, si collocano
esemplari destinati a parate o cortei. Altri ancora, invece, di qualità modesta, erano
prodotti per essere commercializzati.
A questo proposito, ricordiamo che proprio lo studio complessivo delle opere di questa
raccolta, ci consente di rilevare che si tratta di una collezione eterogenea, in gran parte
composta da manufatti del XIX secolo. Questo ci permette di comprendere che i visitatori
europei, grazie ai quali questi manufatti sono giunti nel nostro paese, non compravano
necessariamente oggetti d’antiquariato, ma opere di recente manifattura apprezzabili per la
loro bellezza e destinate alle residenze milanesi come oggettistica d’arredo.
Per quanto riguarda i diversi testi di riferimento su cui ci siamo basati per la stesura della
tesi, ricordiamo The Armour Book in Honchō Gunkikō, la traduzione di H. Russel Robinson
della celebre opera di Arai Hakuseki. Il libro fornisce un valido compendio di tutto ciò che
può essere detto in materia di kabuto, jingasa e mengu, oltre che di altre parti dell’armatura.
Inoltre, è apprezzabile per il fatto di essere corredato da un gran numero di foto, schemi o
disegni che esemplificano e chiariscono il testo. La sua importanza è data anche dal vasto
repertorio lessicale che ci ha permesso di acquisire una certa padronanza con il
vocabolario tecnico, specifico dell’argomento. In questo modo, possiamo seguire
l’evoluzione delle diverse parti del kabuto e dei termini tecnici usati per indicare le diverse
componenti. Tuttavia, proprio l’uso di alcune espressioni datate, che non trovano
un’immediata corrispondenza con il lessico corrente, ci ha spesso costretto a un paziente
lavoro di ricerca e confronto con altre fonti bibliografiche, in primis l’opera Arms and Armor
of the Samurai: the History of Weaponry in Ancient Japan, di Ian Bottomley.
Fondamentale alla stesura del secondo, ma soprattutto del terzo capitolo, è stato il
contributo di due cataloghi “Spectacular helmets of Japan, 16th-19th century”, curato da
- - 10
Noguchi Ichiyo, e “Draghi e Peonie. Capolavori della collezione giapponese”, curato da
Francesco Civita. Le due opere ci hanno consentito diverse occasioni di confronto con
manufatti per lo più del tipo kawari, permettendoci di fornire alcune interpretazioni sui
possibili significati dei curiosi simboli araldici di foggia scultorea che s’innalzano sulla
calotta e per i quali questi kabuto vengono definiti “straordinari”. Inoltre, alla puntuale
trattazione dell’argomento da parte di Noguchi e alle considerazioni di Civita, si
aggiungono anche i contributi di altri autori tra cui menzioniamo Turnbull e Bryant. Le
loro opere, corredate da immagini o disegni, suggeriscono spunti e nuove prospettive di
studio su aspetti della produzione del periodo Tokugawa che ci consentono di raggiungere
una visione più approfondita del fenomeno.
In particolare, lo studio di queste opere ci ha indotto a documentarci su tutti quegli aspetti
della realizzazione di un elmo che non avevamo ancora preso in considerazione.
Facciamo, ad esempio, riferimento alle tecniche di lavorazione dei metalli, o a quelle che
coinvolgono l’uso della lacca e della lacca mescolata ad altre sostanze, come polveri o
frammenti metallici. A questo proposito sarebbe allora altrettanto stimolante, in ragione di
una migliore valutazione dell’intento comunicativo dell’artista, valutare meglio l’uso di quei
materiali di cui abbiamo dato solo qualche accenno, come, ad esempio, il legno, le pellicce,
l’avorio, ed ancor più il vetro, importanti nella realizzazione degli elmi kawari. Questi ed
altri approfondimenti conforterebbero ancora una volta quanto si è voluto portare
all’attenzione attraverso questo studio, cioè il fondamentale ruolo svolto dall’arte
decorativa nella produzione armigera.
Infatti, lo studio sistematico delle diverse fonti bibliografiche, ma soprattutto l’approccio
diretto con kabuto, jingasa e mengu, ci ha consentito di comprendere che l’arte decorativa,
applicata alle armi, vanta in Giappone una forte tradizione.
Quindi il nostro lavoro è teso a dimostrare che il valore di questi oggetti è fondato sulla
commistione tra funzionalità pratica, estetica e valenza simbolica. Infatti, ci preme
sottolineare ancora una volta che kabuto, jingasa e mengu, da un lato, nascono come
strumenti di difesa, ma, dall’altro, sono vere e proprie opere d’arte in cui l’artista
sperimenta tecniche decorative di alto livello comuni ad altre forme dell’arte giapponese,
proponendo un repertorio iconografico che attinge alla tradizione culturale e spirituale
samuraica.
Quindi abbiamo cercato di dimostrare che la bellezza di questi oggetti non è meramente
legata alla modalità con cui i motivi decorativi vengono eseguiti, ma alla capacità che
- - 11
l’artista ha di adottare la tecnica che meglio si presta ai suoi intenti comunicativi,
piegandola così alle proprie esigenze espressive.
In particolare, nel tentativo di meglio far comprendere questa idea, abbiamo cercato di
dimostrare più volte che l’accostamento apparentemente insolito delle materie prime e il
tipo di lavorazione a cui queste vengono sottoposte, non è casuale o fine a se stesso. Al
contrario, l’armaiolo, attraverso scelte precise e consapevoli, manifesta in tutte le fasi di
realizzazione del manufatto il suo totale coinvolgimento emotivo, spirituale e culturale. È
proprio attraverso la tecnica che l’artigiano adotta, che si assiste alla rinascita della natura
dalla natura stessa, una natura concepita nella sua dimensione divina: la materia riprende
vita assumendo nuove sembianze. L’artista vive quindi questa fase come una sorta di rito
religioso e il manufatto assume un fascino sacrale, di cui il samurai è pienamente
consapevole.
Tutto ciò ci ha portato a trattare kabuto, jingasa e mengu come una delle principali
testimonianze del senso del bello così come viene profondamente vissuto nell’ambito della
cultura giapponese. Un senso del bello che si lega a concetti ormai classici, come per
esempio quello di mono no aware, e che quindi esprime la profonda sensibilità dell’animo
giapponese. Attraverso questo lavoro, siamo riusciti a fare luce su alcuni aspetti della
cultura samuraica, valutando, in particolare, l’approccio che il guerriero ha nei confronti
della vita e della morte.
- - 12
1 STRUTTURA E TECNICHE COSTRUTTIVE DEGLI
ELMI: KABUTO, JINGASA E MENGU
Bugu è il termine che, in genere, si utilizza per indicare la vasta gamma di accessori di cui
dispone un samurai. Il guerriero giapponese, infatti, impiega sul campo di battaglia,
armature, armi e strumenti che hanno scopo difensivo e, chiaramente, anche intento
offensivo. Questi sono, contemporaneamente, importanti oggetti artistici e di profondo
significato simbolico.
Infatti, in Giappone, l’equipaggiamento militare riflette la tradizione morale e spirituale
della classe samuraica: ogni elemento diventa apprezzabile non solo per la sua funzionalità
nell’uso pratico e per la sua straordinaria bellezza decorativa, ma anche per il suo alto
valore allegorico. All’origine di tutto ciò ci sono precise scelte che coinvolgono fattori
diversi: da un lato le tecniche costruttive e i materiali, dall’altro le tecniche decorative, la
forma, il colore, la linea e i volumi. Di conseguenza, il bushi può, attraverso la sua
immagine, ostentare di fronte al nemico l’identità del suo clan e la gloria della casata che
rappresenta.
Quanto detto è fin da subito evidente nell’analisi di kabuto, jingasa e mengu, le componenti
del corredo samuraico destinate alla difesa del cranio, della nuca, del collo e del viso del
guerriero. In questo primo capitolo, ci occuperemo, innanzi tutto, di mostrarne le
caratteristiche principali, ma anche di individuare le tecniche costruttive alla base della loro
realizzazione. Inoltre, studieremo i materiali privilegiati dagli artigiani per l’esecuzione delle
stesse, facendo alcune considerazioni sulle principali cause di degrado e le eventuali
possibilità di intervento conservativo.
- - 13
1.1 Kabuto: hachi, mabisashi e shikoro
L’elmo vero e proprio, o kabuto, è una componente fondamentale del kacchū
3
. Potremmo
definirlo come il più importante tra gli elementi corazzati che, combinati tra loro in modo
armonico, proteggono testa, faccia e collo del condottiero nipponico.
Dobbiamo però precisare che con la parola kabuto si indica l’elmo completo di tutte le sue
principali componenti: hachi, mabisashi e shikoro.
Figura 1 Kabuto (visto da davanti)
3
Con il termine kacchū si indicano, contemporaneamente, l’armatura e l’elmo. Si tratta, infatti, della lettura
sino-giapponese degli ideogrammi che stanno per yoroi (armatura) e kabuto (elmo). Cfr. ARAI Hakuseki,
The Armour Book in Honchō Gunkikō, trad. di Y. Otsuka, London, H. Russel Robinson, 1964, p. 121.
- - 14
Figura 2 Kabuto (visto da dietro)
Figura 3 Kabuto: 1. Tehen o hachimanza; 2. Shiten no byō; 3. Hibiki no ana; 4. Haraidate; 5. Sanko
no byō; 6. Mabisashi; 7. Fukigaeshi; 8. Shinobi no o; 9. Hachitsuke no ita; 10. Koshimaki; 11. Suji;
12. Kasajirushi no kan; 13. Hachi; 14. Shikoro.
- - 15
1.1.1 Lo hachi e le sue forme
Come spiega Arai Hakuseki, la parola hachi, ha origine dal cinese hai, termine che indica
l’elmo o più precisamente una sorta di calotta, u.
4
Infatti, lo hachi è propriamente il coppo
o bacino del kabuto, la cui funzione è, innanzi tutto, quella di proteggere la volta cranica
del guerriero.
Da un punto di vista strettamente morfologico, esistono due diverse tipologie di bacino:
quelle di forma emisferica e quelle di forma conica.
5
Il fatto di privilegiare, di volta in volta, l’una o l’altra tipologia è sintomo dell’attenzione
che i kacchū shi
6
impiegano nel proporre al samurai una difesa sempre più adatta alle
diverse esigenze. In altre parole, la forma che il coppo assume è diretta conseguenza del
momento storico contingente, oltre che risultato di precise scelte estetiche. Anzi,
potremmo dire che la componente estetica finisce con l’assecondare le necessità di utilizzo
pratico del manufatto.
7
In particolare, tra gli esemplari dotati di una calotta dalla caratteristica foggia “cranica”
dobbiamo ricordare lo igaboshi kabuto, un elmo multilaminare, rinforzato da teste di grossi
chiodi sporgenti, che propone una struttura compositiva rimasta invariata nel tempo.
A questo proposito dobbiamo puntualizzare però che il suo assetto costruttivo si ripete
non solo negli elmi di foggia sferica, come lo akodanari kabuto, un elmo dotato di una
calotta a forma di incensiere, ma anche nei kabuto di foggia conica. Tra questi ultimi
annoveriamo due modelli facenti parte della più ampia categoria degli elmi “in stile
straniero”, nanban, ovvero il momonari kabuto e lo shiinari kabuto, la cui popolarità è
saldamente legata alla forma stessa del bacino. Il primo presenta un coppo “a pesca”,
mentre il secondo è dotato di una calotta a forma di mandorla.
4
Il termine u indica letteralmente una calotta a scodella. Cfr. ARAI Hakuseki, The Armour Book in Honchō
Gunkikō, op. cit., p. 38.
5
Si tratta di una prima e generale distinzione, evidente fin dall’inizio della storia del kabuto.
6
Con il termine kacchū shi si indicano i diversi gruppi di armaioli.
7
In realtà, questo è evidente almeno fino all’inizio del periodo Tokugawa, dal momento che per gran parte di
questo lungo periodo di pace, l’elmo, perduta la sua funzione primaria di difesa, divenne soprattutto un
emblema di rango.
- - 16
1.1.2 Modalità costruttive dello hachi e sue principali componenti
Indipendentemente dal fatto che l’elmo assuma una foggia emisferica o una foggia conica,
precisiamo che, nella creazione dello hachi, si possono individuare tre diverse modalità
costruttive.
Una prima modalità di esecuzione prevede che il coppo del kabuto sia forgiato in un’unica
lamina di metallo, che in certi esemplari è lavorata a sbalzo.
In alternativa, la calotta dell’elmo può essere strutturata anche in più elementi compositivi.
In questo caso, dobbiamo distinguere gli hachi ottenuti rivettando tra loro tre lamine e
quelli che, invece, nascono dall’assemblaggio di un maggior numero di piastre.
La maggior parte dei kabuto appartiene al secondo caso, cioè al gruppo degli elmi
multilaminari, in cui il bacino è ottenuto assemblando tra loro più lamine metalliche, che
vengono disposte in posizione verticale. Ogni lastra è fissata alle altre attraverso hoshi o suji,
cioè rivetti o listelli, ma sono frequenti gli esemplari in cui entrambi gli elementi
coesistono.
Contemporaneamente, la sezione inferiore di ciascuna di queste lamine è rivettata al
koshimaki, che costituisce così la base della calotta. La sezione superiore di ogni lastra si
unisce, invece, al tehen. Quest’ultimo, noto anche come hachimanza, può assumere la forma
di una vera e propria lamina, in genere circolare. Di norma però il tehen è del tipo agedama.
Si tratta cioè di un semplice foro, sottolineato da una serie di kanamono forgiati in lega
metallica colorata.
La superficie esterna dello hachi è vivacizzata anche da altri elementi ornamentali.
Ricordiamo, innanzi tutto, gli shiten no byō, quattro piccoli perni, al di sotto dei quali si
trovano gli hibiki no ana, fori destinati ad alloggiare piccole fettucce ad asola. Accanto a
questi, si annoverano anche gli shinodare e i fukurin, placcature e bordature realizzate in
metallo pregiato. Altro esempio di kanamono è il kasajirushi no kan, un cerchietto fissato
sulla parte posteriore del coppo, cui è legato l’agemaki, una cordicella annodata a fiocco.
- - 17
Figura 4 Modalità costruttive di uno hachi e sue principali componenti.
Alla superficie interna del coppo sono fissati, invece, gli elementi che compongono il
sistema di sospensione dell’elmo, quindi il kabuto no o e lo ukebari.
1.2.1.1 Hoshi
Gli hoshi, indispensabili nell’assemblare tra loro le lamine dello hachi, sono piccoli rivetti o
chiodi, che come il termine lascia intuire, sono provvisti di una capocchia sporgente
8
dalla
caratteristica forma “a stella”.
9
Vengono fissati al coppo grazie a un sottile gambo,
generalmente sezionato in due, che viene aperto a graffa sulla superficie metallica interna.
Tuttavia, può anche accadere che, nei manufatti più complessi, la capocchia e il gambo
degli hoshi siano perfettamente limati, tanto da essere appena visibili.
Questi rivetti sono concepiti non solo per fissare tra loro le lamine del bacino e rinforzare
così la cupola dell’elmo, ma anche per assolvere ad altre funzioni, giustificando così il loro
impiego nei manufatti forgiati in un’unica lamina. Infatti, permettono una certa resistenza
8
In questo caso vengono chiamati ōboshi. Cfr. Ian BOTTOMLEY, Arms and Armor of the Samurai: the History
of Weaponry in Ancient Japan, New York, Crescent Books, 1996, p. 33.
9
Con il periodo Kamakura diventa sempre più evidente la funzione decorativa degli hoshi. Per una trattazione
più ampia sulle forme insolite e originali che le capocchie di questi piccoli rivetti assumono si veda anche
- - 18
ai colpi di spada sferrati dal nemico sul campo di battaglia, fanno sì che l’elmo preservi un
corpo leggero e sottile, senza per questo venir meno alla sua funzione protettiva
10
, e,
infine, abbelliscono la superficie esterna che altrimenti risulterebbe pressoché liscia e
omogenea. Come conseguenza di quest’ultima considerazione, dobbiamo precisare che, se
negli esemplari più antichi gli hoshi sono forgiati nello stesso materiale impiegato per il
bacino, successivamente si utilizzano, con sempre maggiore frequenza, anche leghe auree
e argentee, che sottolineano ancor più il carattere decorativo di questi rivetti.
1.2.1.2 Suji
Altrettanto importanti sono i suji, tecnicamente rinforzi in metallo. Si tratta di vere e
proprie costolature disposte in modo verticale e, in genere, fissate al coppo per mezzo di
rivetti. Analogamente agli hoshi, i suji rafforzano ulteriormente il bacino dell’elmo, dal
momento che, più il loro numero è elevato, più la calotta risulta robusta. Inoltre, fanno sì
che questa non diventi particolarmente pesante, permettono al contempo che il fendente
di un’arma da taglio scivoli senza conficcarsi nello hachi, e, infine, ne ornano la superficie
esterna.
Ricordiamo che i suji possono essere realizzati in due diverse modalità: direttamente o
successivamente.
Nel primo caso, che interessa i kabuto dotati di uno hachi strutturato in più piastre, i suji si
ottengono per fusione, ma non si esclude che possano essere eseguiti semplicemente
piegando all’indietro i bordi superiori delle lamine contigue.
11
Nel secondo caso, che interessa, invece, sia i bacini multilaminari, sia gli hachi realizzati in
un’unica lamina, le costolature vengono applicate sul coppo solo dopo che questo è stato
forgiato. In questa circostanza, si preferiscono materiali diversi da quello impiegato per lo
hachi, che sottolineano quindi il valore ornamentale dei suji: oro, argento o shakudō
12
.
Queste costolature, così come le fila di hoshi che caratterizzano il profilo del coppo,
partono dal centro del bacino, ovvero dal tehen, e si irradiano verso l’esterno, raggiungendo
la base dello hachi, ovvero il koshimaki.
10
In questo secondo caso spesso si preferiva realizzarli cavi anziché pieni per ridurne ulteriormente il peso.
Venivano allora chiamati karaboshi (lett. “stella vuota”). Cfr. Ian BOTTOMLEY, Arms and Armor of the
Samurai: the History of Weaponry in Ancient Japan,op. cit., p. 33.
11
Cfr. AA.VV., Kokushidaijiten henshu iinkai, Tōkyō, Yoshikawa Kokubunkan, 1980, vol. 3, pp. 516-522.
12
Si tratta di una particolare lega metallica a base di rame. Per una trattazione più esauriente si veda § 2.4.1.
Metalli.
- - 19
1.2.1.3 Tehen
Il termine tehen designa il punto in cui convergono le lamine che formano lo hachi.
In particolare, può trattarsi della lamina sommitale del coppo, che, soprattutto nei modelli
più antichi è di tipo circolare. Esistono anche alcuni prototipi in cui la lamina del tehen
assume una linea decisamente più allungata.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi il termine in questione designa l’apertura sommitale
della calotta. Quest’ultima è conosciuta, nel corso del tempo, anche con altre espressioni,
che ne sottolineano, di volta in volta, le principali funzioni, sia pratiche che simboliche.
Infatti, secondo alcune ipotesi, per un lungo periodo di tempo il tehen servì probabilmente
per il passaggio della punta di quell’alto cappuccio che i guerrieri vestivano in luogo della
fodera dell’elmo
13
. Tuttavia, poteva essere necessario anche all’uscita del motodori
14
, quella
corta treccia in cui venivano raccolti i capelli dei samurai nei tempi antichi
15
. Per queste
ragioni il tehen assumeva rilevanti dimensioni.
Il tehen è anche noto con il termine di hachimanza, dal momento che, a sua volta,
quest’ultimo traduce l’espressione kamuyadori, ovvero “la dimora della divinità”, di cui ha
preservato nel tempo lo stesso significato. Kamuyadori è una parola arcaica che indicava
originariamente l’elmo e quindi per estensione la sommità del capo. Una parola che fu,
quasi subito, soppiantata dal termine tehen. In conseguenza di quanto appena detto,
hachimanza, letteralmente “la sede di Hachiman Bosatsu”, il dio della guerra
16
, traduce il
termine tehen e indica la parte superiore dell’elmo e quindi nello specifico l’occhiello che si
apre in cima. Secondo la spiegazione di Arai Hakuseki, questa apertura avrebbe dovuto
permettere alle influenze celesti di raggiungere la mente di chi indossava l’elmo.
13
Cfr. Ian BOTTOMLEY, Arms and Armor of the Samurai: the History of Weaponry in Ancient Japan, op. cit.,
p. 34.
14
Cfr. Oscar RATTI e Adele WESTBROOK, I Segreti dei Samurai. – Le antiche Arti Marziali [Secrets of the
Samurai – A Survey of the Martial Arts of Japan (1973)], op. cit., p. 223.
15
Forse il motodori riprende lo ha guma, quella ciocca di capelli che, nella tradizione cinese, si portava in cima
all’elmo. Cfr. ARAI Hakuseki, The Armour Book in Honchō Gunkikō, op. cit., p. 120.
16
Non è un caso che ci si riferisca proprio a Hachiman Bosatsu, dal momento che questa divinità shintoista,
protettrice fin dall’antichità dei territori del Kyūshū, è considerata, alla luce della teoria dello honji suijaku,
(segue nota) manifestazione di Śākyamuni e quindi, dal periodo Nara, in seguito a una serie di eventi
storici, protettore del Dharma, la Legge buddhista, ma anche protettore dello stato e di chi ne preservava
l’integrità. Per un approfondimento sulla figura di Hachiman Bosatsu, alla luce della dottrina dello honji
suijaku, si veda anche J.G. TANABE e W.J. TANABE (a cura di), The Lotus Sūtra in Japanese Culture,
Honolulu, University Hawaii Press, 1989.