-5-
prospettiva nel sentire comune può essere rintracciato nel primo conflitto mondiale, la
cui distruttività indusse le coscienze ad un ripensamento del fenomeno “guerra”,
concretizzatosi nello sviluppo dello ius contra bellum, il cui risultato tangibile fu la
creazione della Società delle Nazioni. Constatata l’impotenza di quest’organismo, alla
fine della seconda guerra mondiale essa fu sostituita dall’Onu, che avrebbe dovuto
essere dotata, nelle intenzioni dei creatori, del necessario potere decisionale e di forze
armate per dirimere le controversie tra gli Stati qualora fossero esaurite tutte le vie
diplomatiche. La nuova costruzione giuridica risentì, tra l’altro, dell’influsso dell’opera
di Hans Kelsen, il quale, fermo restando che la guerra di aggressione dovesse essere
considerata un crimine (concetto ripreso nel processo di Norimberga), aveva ripensato il
diritto internazionale, sostenendo l’idea che lo strumento bellico potesse essere inteso
come sanzione. Sulla legittimità dell’uso della forza da parte delle Nazioni Unite si è
molto dibattuto e alcune delle riflessioni svoltesi in occasione dei conflitti dell’ultimo
quindicennio vengono affrontate in questo lavoro. Nel dopoguerra la contrapposizione
tra le due superpotenze paralizzò il Consiglio di Sicurezza, in un contesto in cui
l’equilibrio del terrore tra i due blocchi, se scongiurò un terzo apocalittico scontro
mondiale, permise il consumarsi di innumerevoli e sanguinosi conflitti periferici.
Gli sforzi volti a giustificare una determinata guerra furono basati su criteri etici
o giuridici oppure su entrambi. La separazione non è sempre stata così netta: tra morale
e legge permaneva e tuttora permane in alcuni casi una stretta compenetrazione. Così la
teoria della guerra giusta fu elaborata da filosofi cristiani e mantenne a lungo una forte
connotazione etica, riscontrabile nella persistenza di criteri (quali quello della “retta
intenzione”) che avevano un profondo legame con la coscienza dell’individuo. Nello
stesso tempo la teoria della guerra giusta ebbe un forte valore civile e fu riconosciuta nel
mondo cristiano come un sistema di regole basilare per regolare le relazioni
internazionali. Non ha importanza che in realtà queste norme nella maggior parte dei
casi non venissero rispettate: esse rimangono come un “monumento” alla cultura
giuridica e filosofica cristiana, teso a limitare il ricorso alle armi. Allo stesso modo già
Hans Kelsen aveva notato nel 1942 come, in accordo agli orientamenti dell’opinione
pubblica, la guerra di aggressione fosse comunemente considerata inaccettabile,
cosicché anche i conflitti di tale natura dovevano essere giustificati con altre
motivazioni; almeno formalmente la morale orientava lo sviluppo del diritto
-6-
internazionale
2
. Il legame tra etica e diritto risulta evidente anche se si analizza la Carta
dell’Onu o una carta costituzionale come quella italiana, nate entrambe in momenti
altamente drammatici e carichi di istanze morali.
Anche nel 1991 e nel 2003 l’interrogativo pressante cui fu necessario rispondere
era quello riguardante la giustezza del conflitto in corso. Scopo di questa ricerca è
analizzare i differenti tipi di risposta che furono proposti dal mondo intellettuale italiano
e, in qualche caso maggiormente significativo, internazionale e tentare una
comparazione tra i due dibattiti svoltisi a dodici anni di distanza.
Dopo la caduta del muro di Berlino, il susseguirsi di diversi conflitti, nati da crisi
locali e allargatisi allo scenario mondiale, portò in primo piano il problema della
legittimità dell’uso della forza per il ristabilimento dell’ordine internazionale. A ciò
concorsero altri importanti fattori. In primo luogo il coinvolgimento di istituzioni
sovranazionali (l’Onu e la Nato) rese pressante la necessità di dimostrare la coerenza di
simili interventi rispetto ai principi di diritto vigenti. Secondariamente, nel mondo
anglosassone, dalla fine degli anni Settanta si era assistito ad una riproposizione della
teoria della guerra giusta sull’onda delle riflessioni ispirate dal conflitto in Vietnam ed
alla loro applicazione al diritto internazionale. Punto di approdo di questo clima
culturale furono le teorizzazioni del politologo liberal Michael Walzer, la cui opera
rappresenta un faro per chiunque oggi si voglia occupare del tema della legittimità
bellica; pertanto anch’io, in questo lavoro, ho dedicato molto spazio al suo pensiero.
Della schiera di pensatori in questione Walzer fu l’unico ad avere un’ampia risonanza
nel mondo culturale italiano, dove, in particolare, influenzò fortemente le riflessioni di
Norberto Bobbio. Il titolo dell’opera principe del politologo statunitense, Just and
unjust wars
3
, è stato per tale motivo parafrasato nel titolo di questo lavoro.
In seguito all’attacco alle Twin Towers, la sfida lanciata dal fondamentalismo
islamico alle democrazie occidentali con la “guerra asimmetrica” diede l’opportunità
all’amministrazione americana di mettere in pratica le teorizzazioni che i
neoconservatori avevano elaborato nel decennio precedente. Le linee guida della
politica estera americana, e, soprattutto, l’affermazione del concetto di “guerra
preventiva” nel documento denominato National Security Strategy del settembre 2002
4
,
2
Cfr. H. Kelsen, Law and peace in international relations. The Oliver Wendell Holmes Lectures. 1941-
1942, Cambridge, Harvard University Press, 1942, p. 37.
3
Cfr. M. Walzer, Just and unjust wars. A moral argument with historical illustrations, New York, Basic
Books, 1977.
4
Cfr. http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.pdf
-7-
aprirono prospettive destabilizzanti per lo scacchiere mondiale e si mossero nella
direzione opposta a quella tracciata dalla tradizione della guerra giusta, che, con poche
eccezioni, riservava l’uso dello strumento bellico ai soli casi di difesa da
un’aggressione. Il concetto di “guerra preventiva”, tuttavia, mancava di qualsiasi
legittimazione fornita dalla tradizione e fu probabilmente per supplire a tale assenza che
diversi teologi conservative negarono che un eventuale attacco all’Iraq avrebbe
rappresentato un caso di first strike, e dimostrarono con un audace “contorsionismo”
che si sarebbe trattato invece di un caso esemplare di “guerra giusta”, facendo un ampio
uso ed un ancor più ampio abuso delle teorizzazioni di Agostino e Tommaso.
L’attentato alle Twin Towers segnò uno spartiacque anche per il diritto, poiché dopo
quella data nel mondo politico statunitense si sparse la convinzione, abilmente pilotata
dall’amministrazione, che le istituzioni internazionali, così come la garanzia delle
libertà di tradizione anglosassone sul fronte interno, fossero inadeguate al rischio
rappresentato dal terrorismo internazionale e rappresentassero delle pastoie per le
possibilità di difesa della nazione americana.
La scelta di restringere il campo alle due guerre che a distanza di dodici anni
contrapposero da una parte il solo Iraq e dall’altra gli Stati Uniti a capo di una
coalizione, è motivata dal fatto che gli altri due conflitti che scoppiarono dopo il 1989,
rispettivamente nella ex-Jugoslavia e in Afghanistan, ebbero, tra le loro giustificazioni,
caratteri più specifici quali, nel primo caso, il “diritto di ingerenza umanitaria” e, nel
secondo, il contrattacco nei confronti dello Stato identificato con la rete terroristica al-
Qaeda, che aveva progettato e attuato l’attentato alle Twin Towers. Entrambe le guerre
contro l’Iraq videro un ampio coinvolgimento delle Nazioni Unite durante le crisi che le
precedettero, che sfociò però in due risultati opposti: nel 1991 l’autorizzazione
all’intervento bellico fornita dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 678, nel
secondo lo scavalcamento dell’Onu da parte di Inghilterra e Stati Uniti che, dopo mesi
di pressioni sull’organismo internazionale, iniziarono le ostilità senza una sua
legittimazione. Se la guerra del Golfo era stata salutata come un’“operazione di polizia
internazionale” sotto l’egida delle Nazioni Unite (anche se sotto il comando militare
degli Stati Uniti) per il ripristino della legalità violata, quella del 2003 fu vista da molti
come una guerra “contro” il diritto internazionale o, perlomeno, a prescindere da esso.
Anche con ciò si può spiegare la forte opposizione che la campagna angloamericana in
Iraq suscitò nel mondo sia da parte dei governi che delle opinioni pubbliche. Così, se
Desert Storm aveva ricevuto un appoggio molto ampio nella comunità internazionale,
-8-
con un’inedita alleanza tra Stati Uniti e Urss, Iraqi freedom provocò una violenta
frattura sia rispetto al mondo musulmano che alla Russia e ad una parte dell’Europa.
Nonostante le evidenti differenze tra i due conflitti, essi furono per alcuni versi
uno la continuazione dell’altro. Innanzitutto, va notata la presenza di molti degli stessi
personaggi nelle posizioni di potere. Se ciò appare ovvio per la dittatura di Saddam
Hussein, lo è un po’ meno per l’establishment americano. Eppure il figlio del presidente
che aveva condotto la guerra contro l’Iraq attaccò di nuovo l’Iraq con un team di
collaboratori, dei quali molti avevano ricoperto incarichi-chiave durante la guerra del
1991. In secondo luogo, l’invasione americana all’Iraq del 2003 poteva rappresentare
una continuazione della campagna del 1991, durante la quale il presidente americano
aveva deciso di sospendere le ostilità appena prima di quella che, secondo il generale
Schwarzkopf, sarebbe potuta essere una marcia trionfale fino a Baghdad. Il legame tra i
due conflitti venne inoltre richiamato dalle autorità statunitensi e britanniche per
legittimare la guerra del 2003, adducendo le violazioni compiute dal dittatore iracheno
degli obblighi di disarmo che gli erano stati imposti nel 1991 e al cui adempimento
sarebbe stato legato il suo mantenimento al potere.
Per questo lavoro ho utilizzato fonti a stampa, sia quotidiani che riviste. Per
analizzare la guerra del Golfo ho preso in esame sei quotidiani: il Corriere della Sera,
La Repubblica, La Stampa, Il Giornale, Il Manifesto, e L’Osservatore Romano. I primi
quattro si schierarono, con diverse gradazioni, a favore del conflitto. Il Corriere della
Sera, la più diffusa testata italiana, appoggiò apertamente l’intervento e, facendosi
portatore dell’opinione pubblica moderata, fu caratterizzato da una forte enfasi
bellicista. La Repubblica, di orientamento progressista, rappresentò invece la posizione
dell’“interventismo democratico”. La Stampa mantenne una posizione più aperta,
mostrando attenzione anche alle riflessioni contrarie all’intervento; essa rivestì notevole
rilevanza per il dibattito sulla legittimità della guerra perché ospitò molti degli interventi
di Norberto Bobbio e, sulla scia della questione sollevata dal filosofo torinese, raccolse
per alcuni giorni le opinioni di autorevoli personaggi sul tema. Il Giornale di Indro
Montanelli fu portavoce di un interventismo patriottico che traeva orgoglio dalla
(seppur minima) partecipazione alla guerra delle unità militari italiane. Sull’altro
versante Il Manifesto e L’Osservatore Romano, essendo, rispettivamente, organi della
sinistra radicale e del Vaticano, rappresentarono l’orientamento dei due settori del
pacifismo. Per completare il quadro del mondo cattolico ho analizzato La Civiltà
Cattolica e mi sono servita del saggio a cura di Domenico Del Rio La pace sprecata. Il
-9-
Papa, la Chiesa e la guerra del Golfo
5
. Anche Giano
6
, rivista che enuncia tra i suoi
temi-cardine quello della pace, è stata una fonte utilissima per l’analisi del concetto di
“guerra giusta”, collegandosi al dibattito iniziato da Bobbio attraverso una critica serrata
delle posizioni dell’anziano filosofo. Altre riviste, quali L’Espresso, Micromega e
Teoria Politica, sono state necessarie per puntualizzare alcune linee-guida del dibattito.
Per la sezione riguardante l’invasione angloamericana dell’Iraq nel 2003 ho
utilizzato cinque quotidiani: il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Foglio, Il
Manifesto e L’Osservatore Romano. Solo Il Foglio, che, da poco fondato da Giuliano
Ferrara, era diventato specchio della nuova destra italiana e contribuiva a diffondere in
Italia le opinioni dei neoconservatori americani, si schierò nettamente e senza riserve a
favore della guerra. Il Corriere della Sera, mantenendo una linea moderata, espresse la
sua contrarietà all’intervento, giudicandolo inutile, ma ribadì la sua comunanza di valori
con gli Stati Uniti e la sua distanza dai pacifisti. La Repubblica e Il Manifesto
espressero, con gradazioni diverse, l’opposizione al conflitto e, se la prima testata
guardò con simpatia alle manifestazioni pacifiste, la seconda ne fu la naturale
portavoce. Una base teorica al rifiuto del “nuovo ordine mondiale” promosso dagli Usa
venne dalla rivista Giano. Per meglio delineare la posizione del mondo cattolico, con
un’attenzione particolare alle sue molte sfaccettature, ho utilizzato L’Osservatore
Romano, La Civiltà Cattolica, Il Regno e Adista.
Mentre per le riviste ho preso in considerazione un lasso di tempo più ampio,
che permettesse di non perdere il legame tra differenti parti di uno stesso dibattito,
talvolta apparse su numeri usciti a una certa distanza dagli avvenimenti, nello spoglio
dei quotidiani ho analizzato un periodo più limitato: in entrambi i casi ho preso in
considerazione i quotidiani usciti nei primi tre mesi dell’anno, da gennaio a marzo. Ciò
può sembrare contraddittorio: se si pensa che la guerra del Golfo scoppiò in gennaio e
l’attacco del 2003 all’Iraq avvenne nella seconda metà di marzo, ne emerge che nel
1991 ho lavorato su dibattiti nati in larga misura dopo lo scoppio delle ostilità, mentre
nel 2003 ho utilizzato per la maggior parte materiale redatto mentre la guerra non era
ancora iniziata. Il motivo di una tale scelta è insito nella natura dei due conflitti. Nel
1991, infatti, fino allo scadere dell’ultimatum aleggiava nell’opinione pubblica la
diffusa convinzione che non si sarebbe mai arrivati ad un intervento armato perché il
5
Cfr. D. Del Rio, (a cura di), La pace sprecata. Il Papa, la Chiesa e la guerra del Golfo, Casale
Monferrato (Al), Ed. Piemme, 1991.
6
Cfr. in particolare il dossier Guerra del Golfo, “guerra giusta”?, in Giano, n. 8, maggio/agosto 1991.
-10-
dittatore iracheno avrebbe fatto retromarcia. A questa motivazione va aggiunto anche un
notevole senso di smarrimento seguito al 1989, che aveva messo in crisi la collocazione
di molti protagonisti del mondo culturale italiano; alla vigilia del termine
dell’ultimatum, venne notato il silenzio che aveva caratterizzato gli intellettuali. Prima
che esplodesse, la guerra era considerata un’eventualità remota e solo dopo l’inizio del
conflitto prese il via il dibattito sulla sua legittimità e sulla sua convenienza. Nel 2003,
al contrario, la percezione che si stesse correndo verso lo scontro armato fu
indubbiamente più forte, avvalorata dalle pressioni angloamericane affinché le ispezioni
non si dilungassero; le enunciazioni sulla guerra preventiva, risalenti ad alcuni mesi
prima, avevano inoltre fatto alzare numerose voci critiche nel mondo intellettuale che si
ritrovava, in un certo senso, già schierato. Il dibattito fu quindi in larga parte precedente
l’inizio delle ostilità.
Parlando del 2003 i limiti cronologici assumono un’importanza particolare. Io
seguii con attenzione la crisi e il successivo valzer degli ispettori Onu; avevo
un’opinione precisa, partecipai ad alcune manifestazioni contro la guerra. Trattandosi di
un passato così recente e contiguo al vissuto è stato difficile in alcuni momenti separare
le riflessioni nate dalla ricerca dalle opinioni politiche personali.
La cronologia ha posto un altro problema pressante. Che lo si chiami guerra,
dopoguerra o come pare emergere dalle ultime notizie, guerra civile, quel periodo di
caos e progressiva disintegrazione dello stato e della società civile iracheni, iniziato
poco dopo la fine delle ostilità proclamata dal presidente Usa il 1 maggio 2003, non si è
ancora concluso. Né si vede quale potrebbe esserne la soluzione. Ho evitato perciò
tassativamente di includere nella mia trattazione ogni riferimento ad interventi
successivi all’invasione dell’Iraq e all’ingresso degli angloamericani nelle città
irachene. In particolare, l’accenno alle discussioni sul tema della resistenza rimanda a
un dibattito svoltosi su un fenomeno ipotetico, che in quel momento non si era ancora
manifestato, sebbene fosse facilmente prevedibile. Per tal motivo ho evitato ogni
allusione alle polemiche che sarebbero sorte in seguito circa l’identità dei guerriglieri
iracheni, resistenti o terroristi.
Nell’ottobre del 2005 è stato edito un saggio sulla posizione degli intellettuali
italiani durante gli ultimi conflitti, che ha toccato diversi argomenti-cardine di questa
tesi: si tratta della pubblicazione di Angelo D’Orsi I chierici alla guerra. La seduzione
-11-
bellica sugli intellettuali italiani da Adua a Baghdad
7
nella quale lo storico traccia un
parallelo tra gli interventismi che, dalle prime conquiste coloniali italiane alla guerra di
Libia alla Grande Guerra, fino ad arrivare ai conflitti del Golfo, del Kosovo e dell’Iraq,
“offuscarono” le menti dei pensatori italiani. Secondo l’autore, gli interventismi
potevano essere di due tipi e si erano espressi in tutta la loro pienezza nel 1914-15: da
una parte la fascinazione bellica, intrisa di vitalismo e culto della violenza, che si era
espressa nelle “radiose giornate di maggio” e nella mitologia futurista e
successivamente fascista, dall’altra l’“interventismo democratico” che aveva appoggiato
la guerra in nome di ideali progressisti e libertari, di cui Gaetano Salvemini era il più
noto esponente. Le stesse due categorie, secondo D’Orsi, erano rintracciabili anche in
occasione dei conflitti odierni.
Questa tesi consta di quattro capitoli. Il primo percorre la travagliata storia
dell’Iraq a partire dalla crisi del Golfo fino al termine della campagna Iraqi freedom con
qualche rapido cenno ad eventi immediatamente successivi. Mi sono soffermata sia sul
ruolo delle Nazioni Unite sia sull’importanza degli interessi economici in gioco. Spero
di avere reso gli elementi di continuità che hanno caratterizzato la storia irachena nei
dodici anni presi in considerazione: i danni della guerra aggravati dalle sanzioni, un
embargo schiacciante, un ricorrente uso della forza con raids aerei sul territorio
iracheno. Se non si trattò di dodici anni di “guerra guerreggiata”, non fu neppure un
periodo di pace; pare appropriata la definizione data da alcuni analisti di “guerra a bassa
intensità” per il lasso di tempo intercorso tra il 1991 e il 2003.
Nel secondo capitolo ho illustrato l’evoluzione della concezione del fenomeno
bellico nei secoli, con una particolare attenzione allo sviluppo della tradizione della
guerra giusta e alle sue ripercussioni sul sistema giuridico attuale. Cercando di
sintetizzare una materia vastissima in uno spazio estremamente ristretto, ho voluto
dedicare una più ampia trattazione alle elaborazioni novecentesche, sia per la maggiore
vicinanza temporale, sia per il crearsi di una nuova sensibilità dovuta all’emergere di
fenomeni tipicamente “moderni”; in tal senso uno spartiacque può, a mio parere, essere
rintracciato negli interventi di Benedetto XV contro l’“inutile strage” e l’“orrenda
carneficina”.
Ho aperto il terzo capitolo con un’introduzione sul dibattito internazionale, ed in
particolare statunitense, in occasione della guerra del Golfo, ampiamente rappresentato
7
Cfr. A. D’Orsi, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali italiani da Adua a
Baghdad, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
-12-
da una raccolta di saggi contenente quattro diversi punti di vista di studiosi che offrono
un ampio ventaglio delle posizioni assunte dal mondo intellettuale americano
8
: dal
conservatorismo cattolico al pacifismo radicale cristiano, dal sostegno alla guerra in
nome del diritto internazionale alla critica della sua condotta. Mi sono soffermata in
particolare su Michael Walzer e su George Weigel, i cui scritti del 1991
rappresentarono le premesse del successivo pensiero teoconservative.
Il dibattito italiano sulla guerra del Golfo si improntò su due aspetti
fondamentali: la rispondenza del conflitto ai canoni della guerra giusta e lo scontro tra
pacifisti e interventisti. Il primo, riguardante la legittimità etica e giuridica del
fenomeno bellico, si sviluppò intorno alla figura-chiave di Norberto Bobbio e coinvolse
un’ampia porzione del panorama laico italiano in una discussione dai livelli sempre
elevati che toccò la dottrina della guerra giusta come era stata tramandata dalla
tradizione novecentesca confluita in Michael Walzer, i problemi della legalità
internazionale e le istanze della nonviolenza. Lo sconcerto con il quale furono accolte le
dichiarazioni dell’anziano filosofo, secondo il quale il conflitto del Golfo avrebbe
costituito un caso di “guerra giusta”, è spiegabile analizzando il suo retroterra culturale:
di formazione laico-azionista, Bobbio si avvicinò a posizioni pacifiste sviluppando il
problema della “coscienza atomica” e ritenne che, in un mondo caratterizzato dal rischio
nucleare, la guerra si fosse trasformata in uno strumento impraticabile. L’unica
soluzione sarebbe stata la creazione di un’istituzione mondiale in grado di risolvere le
controversie tra gli Stati, ipotesi che il filosofo chiamava “pacifismo giuridico”
9
. Nel
1991 Bobbio, “filosofo del dubbio”, non pretese di arrivare ad una presa di posizione
netta sulla guerra, ma si accontentò di fissare due criteri per giudicarla: la legittimità e
l’efficacia. Se affermava con sicurezza che il conflitto del Golfo rispondeva al primo,
non sapeva dare una risposta al secondo interrogativo, anche se con il passare del tempo
e di fronte alla condotta del conflitto il suo pessimismo crebbe progressivamente. I suoi
diretti avversari, in molti casi ex-allievi, si collocarono alla sua sinistra e ne criticarono
le posizioni in nome di un’opposizione a quella determinata guerra (come nel caso di
Cacciari) o di un pacifismo incondizionato (come i docenti di Torino firmatari di un
appello contro le dichiarazioni dell’antico maestro oppure gli opinionisti de Il Foglio-
8
Cfr. M. Walzer, G. Weigel, J. B. Elshtain, S. Nusseibeh, S. Hauerwas, Giusta o ingiusta?
Considerazioni sul carattere morale della Guerra del Golfo, Milano, Anabasi, 1992.
9
N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1997, N. Bobbio, Il terzo
assente, Torino, Sonda, 1989.
-13-
Mensile dei cristiani torinesi) e alcuni di essi fecero riferimento alle precedenti
teorizzazioni di Bobbio.
Il contrasto tra pacifisti e interventisti si incrociò con quello tra laici e credenti e
vide da una parte uno schieramento dichiaratamente laico composto di personalità sia
progressiste che conservatrici che considerava la guerra necessaria e inevitabile, giusta
ed efficace grazie alla sua tecnologia “intelligente”, e dava prova di una grande
aggressività verbale; sull’altra sponda si trovava il pacifismo cattolico e quello della
sinistra ex-comunista che, tacciato di utopismo, premeva per soluzioni alternative al
conflitto e richiamava gli Stati alle loro responsabilità nell’escalation degli armamenti.
Tra l’anima cattolica e quella ex-comunista si verificò un’inedita comunanza di intenti
che vide la prima in posizione di forza a causa della fragilità della sinistra, dovuta alle
trasformazioni politiche epocali che stavano avendo luogo in quei mesi. L’attivismo
della Santa Sede fu, in particolare, oggetto di critiche per l’azione politica e diplomatica
svolta contro la guerra, che venne considerata da molti un’ingerenza della Chiesa nel
potere temporale.
I paralleli storici furono utilizzati dai vari contendenti per sostenere di volta in
volta le loro tesi. Così il richiamo al clima della prima guerra mondiale servì ai pacifisti
per tracciare un parallelo tra coloro che nel 1991 appoggiavano la guerra e gli
interventisti del 1914-15, le ragioni dei quali erano risultate sconfitte. Allo stesso modo
l’amministrazione statunitense e gli osservatori favorevoli alla guerra insistevano su due
paragoni, uno in positivo, l’altro in negativo: il primo accomunava Hitler e Saddam
Hussein, topoi del dittatore nemico dell’America la cui efferatezza raggiungeva toni
apocalittici, il secondo negava qualsiasi somiglianza tra la condotta della guerra in
Vietnam e quella del conflitto nel Golfo, tentando di esorcizzare il rifiuto sviluppatosi
nell’opinione pubblica americana per la partecipazione a interventi armati dopo la
disavventura indocinese.
Il quarto capitolo inizia con un lungo excursus che, ripercorrendo la storia dei
conflitti del dopo-1989, dalle guerre balcaniche all’attacco al regime taliban, vuole
descrivere gli atteggiamenti delle amministrazioni americane e della comunità
internazionale di fronte a diversi tipi di guerra. Un’attenzione particolare viene poi
dedicata agli sviluppi teorici che dagli anni Novanta alcuni centri di studio, tra i quali
spicca The Project for a New American Century, andarono elaborando e che si
sarebbero materializzati nelle linee guida della politica estera americana, attraverso la
partecipazione al governo di ideologi del pensiero neocon. Sottolineare ciò significa
-14-
contestare il luogo comune secondo il quale gli Stati Uniti reagirono con tale violenza
dopo l’11 settembre perché erano stati aggrediti sul loro suolo e rimarcare il legame tra
le scelte effettuate dall’amministrazione Bush e teorizzazioni elaborate ben prima
dell’11 settembre. Il caso dell’Iraq ne è la prova evidente, essendo stata pianificata la
sua invasione fin dai primi anni Novanta, a pochi mesi dal termine della guerra del
Golfo. Il mondo intellettuale americano si era schierato in larga parte intorno al suo
governo dopo l’attentato alle Twin Towers, ma all’alba dell’attacco all’Iraq tale
convergenza in molti settori si era spezzata. La contrarietà di Michael Walzer alla
guerra può apparire sintomatica di questa presa di distanza provocata dalle
dichiarazione sul first strike: il politologo statunitense, pur essendo molto critico sul
ruolo giocato dall’Europa, criticò le teorizzazioni proposte nel settembre 2002
dall’amministrazione Bush riguardo a una pre-emptive war, che, nel caso dell’Iraq, si
sarebbe dovuta definire invece preventive war, non trattandosi di un caso in cui
l’intervento era volto a sventare un attacco imminente (come indicava la definizione di
pre-emptive) bensì di un’azione armata contro uno Stato che avrebbe potuto in un futuro
rappresentare una minaccia
10
.
In ambito italiano nel 2003 non vi fu un dibattito articolato e originale come
quello nato intorno alle dichiarazioni di Bobbio nel 1991, ma una discreta parte degli
interventi fu un riflesso delle discussioni americane. La scelta di trattare in uno stesso
paragrafo gli orientamenti del Corriere della Sera, de La Repubblica e de Il Foglio è
motivata con la volontà di separare queste testate, che pure avevano orientamenti molto
diversi tra loro, dalla stampa incondizionatamente pacifista. Infatti, se ciò può apparire
ovvio per Il Foglio, il Corriere della Sera più moderatamente e La Repubblica si
schierarono contro la guerra, (pur ospitando, in particolare il primo, diversi interventi a
favore del conflitto), ma, non essendo testate pacifiste, si trovarono nella condizione di
dover motivare le loro posizioni. Al contrario, la stampa legata ai settori pacifisti (la
sinistra e il mondo cattolico) si trovò in una situazione di naturale e scontata
opposizione alla guerra e in molti casi non sentì la necessità di sostenerla con riflessioni
teoriche. Diversamente che in altri contesti, nel 2003 il pacifismo rappresentò una
posizione ampiamente condivisa dall’opinione pubblica e si esplicitò nelle imponenti
manifestazioni che portarono in piazza milioni di persone, compresi molti individui
abitualmente non schierati. La dura condanna della guerra preventiva da parte di
10
Cfr. M. Walzer, Sulla guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004.
-15-
Giovanni Paolo II suscitò una forte eco. Il movimento no global, che riuniva in sé sia
l’anima cattolica che quella della sinistra radicale, aveva ricevuto forte impulso dalla
protesta contro la guerra in Afghanistan e si era fuso con l’opposizione alla guerra in
Iraq.
Nei tentativi di legittimazione del conflitto uno degli argomenti più discussi, con
un riferimento ai progetti neoconservatori di “democratizzazione” del Medio Oriente, fu
la necessità di “portare la democrazia” in Iraq con le armi. Tale istanza era in realtà
legata a doppio filo alle teorizzazioni del “diritto di ingerenza umanitaria” elaborate in
occasione della guerra del Kosovo e prevedeva la possibilità di utilizzare la guerra come
strumento portatore di valori o modelli istituzionali (il rispetto dei diritti umani nella ex-
Jugoslavia come la democrazia in Iraq). Una simile convinzione, che suscitò molte
critiche, partiva dal presupposto che i principi e i sistemi politici di stampo occidentale
fossero i migliori possibili e che pertanto fosse legittimo imporli anche ad altre
popolazioni.
Infine, una delle conseguenze derivate dalla guerra in Iraq fu la creazione di una
frattura sia all’interno dell’Europa, tra i paesi che appoggiavano l’intervento e quelli
contrari, sia, soprattutto, tra Europa e Stati Uniti: la presenza nel fronte contrario alla
guerra di Francia e Germania, due paesi che rappresentavano il cuore del continente,
diede all’opposizione al conflitto una tinta marcatamente europea. Il distacco del
Vecchio Continente dal Nuovo fu vissuto con preoccupazione dall’area moderata,
mentre l’orgoglio per la specificità europea e per la sua opposizione ad un sistema delle
relazioni internazionali fondato sulla forza caratterizzò il mondo progressista. Allo
stesso tempo la sinistra moderata rifiutò in blocco l’accusa di antiamericanismo
piovutale addosso in seguito alle manifestazioni del 15 febbraio e nel farlo richiamò la
sua contiguità di valori con quella parte dell’America che alla guerra di Bush si
opponeva; l’ostilità agli Stati Uniti fu invece forte e dichiarata in alcune frange della
sinistra radicale e trovò spazio anche in una parte della pubblicistica di destra. Ho citato,
in tal senso, le riflessioni di due intellettuali di opposto orientamento politico tra loro
quali Alberto Asor Rosa e Marco Tarchi, accomunati, con gradazioni diverse, da un
forte sentimento antiamericano.
Per concludere, le linee di indagine di questa tesi si sono mosse in una doppia
direzione: da una parte si è attuata una comparazione tra i due dibattiti svoltisi nel 1991
e nel 2003, in occasione di due guerre che, pur essendo molto differenti, avevano un
legame di continuità; dall’altra si sono voluti sottolineare i rimandi che nelle discussioni
-16-
sui due conflitti sono stati fatti al corpus della millenaria teoria della guerra giusta,
considerando nello stesso tempo i forti elementi di novità. Le direttrici di questo lavoro
sono in bilico tra passato e presente. Passato che si erge a guida del presente, presente in
bilico tra linearità e frattura.
Vorrei rigraziare il prof. Luigi Bruti Liberati, che mi ha dato l’opportunità di
intraprendere un percorso di ricerca così complesso e affascinante, il prof. Nicola Del
Corno, Laura Denaro, che è stata un’insostituibile e impagabile figura di riferimento, il
prof. Riccardo Bottoni, direttore dell’Insmli (Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia) di Milano e il dott. Pietro Polito del Centro studi
Piero Gobetti di Torino per i loro suggerimenti bibliografici.
Un particolare ringraziamento va inoltre alla mia famiglia, agli amici, e a Carlo, che mi
è stato vicino in questi anni.
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CAP. 1 L’IRAQ E LE SUE GUERRE
1.1 L’INVASIONE DEL KUWAIT E LA LUNGA CRISI
Nella notte del 2 agosto 1990 l’esercito iracheno si spinse oltre la frontiera con il
Kuwait, minuscolo emirato ricchissimo di petrolio, governato con piglio assolutista e
dittatoriale dalla famiglia degli al-Sabah, violandone la sovranità e sottoponendolo ad
un sistematico saccheggio. Era il primo conflitto che scoppiava dopo la fine del mondo
bipolare e l’inizio di quella che era stata salutata da molti come una nuova epoca di pace
dopo quattro decenni di minaccia nucleare. Essi sarebbero stati amaramente smentiti nel
corso degli anni Novanta dalla piega che avrebbero preso gli eventi, con lo scoppio di
conflitti locali a lungo sopiti dal controllo delle due superpotenze.
Le motivazioni dell’invasione del Kuwait furono molteplici.
La molla fu la drammatica situazione economica dell’Iraq, uscito dalla guerra
con l’Iran, durata otto anni (1980-1988), costata un milione di morti e conclusasi senza
né vinti né vincitori, con un debito che nel 1990 raggiunse più del 50% delle entrate
dovute al petrolio, un paese interamente da ricostruire e la necessità di importazioni in
un momento in cui il prezzo del petrolio stava crollando. L’oro nero era sostanzialmente
l’unica risorsa da cui dipendesse l’economia irachena, dato che l’agricoltura versava in
uno stato pressoché devastato poiché tutti gli investimenti si erano diretti verso il settore
petrolifero. C’era stato da parte del regime un flebile tentativo di liberalizzare
l’economia, con alcune privatizzazioni, la soppressione del controllo dei prezzi ed un
incoraggiamento all’attività imprenditoriale, ma ciò aveva coinvolto solo poche
famiglie vicine al regime e per di più aveva accresciuto l’inflazione; si era trattato di
un’azione dovuta più all’impossibilità di mantenere un’economia fortemente
sovvenzionata dallo Stato a causa della mancanza di fondi, che a una reale volontà di
riforma
11
. In questo contesto l’Iraq tentò di negoziare in sede Opec delle quote
restrittive per il petrolio che permettessero di tenerne alto il prezzo, ma la mossa non gli
riuscì ed anzi, nei giorni precedenti il conflitto i maggiori Stati estrattori abbassarono
11
Cfr. C. Tripp, Storia dell’Iraq, Milano, Bompiani, 2003, p. 318.
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ulteriormente la quotazione arrivando a 13-14 dollari al barile, quando l’Opec stesso
aveva stabilito il prezzo a 18 dollari nel 1986. In seno all’organizzazione si era creata
una spaccatura tra gli Stati che erano in possesso di enormi risorse petrolifere, come
Arabia Saudita, Kuwait (il quale godeva inoltre di altissime rendite, fornite dai suoi
investimenti all’estero
12
) ed Emirati Arabi Uniti, e puntavano su un aumento della
produzione a prezzi più bassi e gli altri Stati che avevano risorse più limitate e miravano
a mantenere alti i prezzi, come Iraq, Iran, Nigeria e Venezuela.
A ciò si aggiunse la questione dell’aiuto finanziario di 40 miliardi di dollari
ricevuto dai paesi del Golfo durante la guerra contro l’Iran, che l’Iraq voleva fosse
considerato non un debito ma una sovvenzione per lo sforzo sostenuto per una causa
comune, la lotta contro il fondamentalismo rivoluzionario sciita dell’ayatollah
Khomeini. Anche questa richiesta non fu accolta e nel contempo le pressioni kuwaitiane
per una immediata estinzione del debito, insolvibile per le finanze irachene,
alimentarono i sospetti di Saddam Hussein che le monarchie del Golfo, supportate dagli
Stati Uniti, stessero organizzando una guerra economica contro di lui. Secondo Luizard
“era una guerra economica senza pietà quella che l’emirato aveva dichiarato all’Iraq”
13
.
In secondo luogo le rivendicazioni storiche sul Kuwait datano ben più indietro,
basandosi sull’assunto che esso era stato una provincia ottomana di Bassora, che gli
inglesi avevano indebitamente tagliato dal corpo principale dello Stato iracheno quando
esso era stato costituito negli anni Venti. Nel 1961, anno in cui l’Inghilterra concesse
l’indipendenza al piccolo emirato, l’allora presidente Qasim dichiarò che si trattava di
parte integrante del territorio iracheno e non ne riconobbe la sovranità fino al 1963.
Dieci anni più tardi nacque una nuova crisi tra i due paesi riguardo all’attribuzione dei
due isolotti di Bubiyan e Warbah, pieni di giacimenti petroliferi che venivano sfruttati
dal Kuwait e la cui attribuzione rimase dubbia.
A ciò si aggiungeva l’accusa agli al-Sabah di aver trafugato durante la guerra
con l’Iran 2,4 milioni di dollari di petrolio dal giacimento di Rumalia grazie a oleodotti
abusivi costruiti sotto il confine tra i due paesi
14
. Nel 1991 Saddam Hussein ebbe quindi
buon gioco a presentare l’invasione del Kuwait come la riannessione di un territorio che
di diritto sarebbe toccato all’Iraq, da cui era stato separato dai confini tracciati da una
potenza coloniale. Il presidente iracheno giustificava il suo gesto richiamandosi ad una
12
Cfr. P. J. Luizard, La questione irachena, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 111.
13
.Ibidem, p. 113.
14
Cfr. N. M. Ahmed, Dominio. La guerra americana all’Iraq e il genocidio umanitario, Roma, Fazi,
2003, p. 50.