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INTRODUZIONE
Perché una tesi su José Mourinho?
La risposta mi viene suggerita da una dichiarazione del diretto
interessato: “Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno
sia meglio di me”1. Un biglietto da visita senza dubbio interessante,
che sarebbe già di per sé sufficiente a giustificare il soggetto della
presente relazione. Su quale altro allenatore avrei mai potuto
concentrarmi, infatti, se non sul migliore?
Ma andiamo oltre. Trovo che quello dell‟allenatore sia un
mestiere affascinante, al pari del regista o del direttore d‟orchestra
che, dietro le quinte, plasma con le sue idee l‟opera d‟arte – un film,
una sinfonia o, perché no, anche una squadra di calcio – dandole il
proprio personale taglio. E se da una parte è facile ricordarsi dei
dribbling di Ronaldo, delle magie di Zidane e delle punizioni di
Beckham (incredibili attori/interpreti dell‟opera d‟arte), è impossibile
non pensare a chi quell‟opera l‟ha creata e diretta. Ecco quindi che si
parla del Milan di Sacchi, dell‟Italia di Bearzot, dell‟Inter di Herrera,
del Chievo di Del Neri (che, se fosse un film, verrebbe considerato un
capolavoro del cinema indipendente), del Foggia di Zeman (chi si
ricorda infatti almeno cinque giocatori di quella formazione che
all‟inizio degli anni Novanta meravigliò tutta l‟Italia pallonara?
Eppure tutti si ricordano chi vi fosse al timone).
Nel terzo millennio, Mourinho è quello che più merita di
entrare nel novero dei grandi tecnici: in un‟Europa calcistica sempre
più alla disperata caccia di talenti in campo, il portoghese si rivela un
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http://www.gazzetta.it/Calcio/SerieA/Squadre/Inter/Primo_Piano/2008/09/20/mou.shtml
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vero „numero 10‟ da panchina: Mourinho come Ibrahimovich, il
campione che da solo può risolvere la partita con una sua magia. La
differenza è che, nel caso dell‟allenatore, la magia consiste nella
tattica scelta, nella formazione schierata in campo, nel cambio giusto
al momento giusto. Ma anche – se non, addirittura, soprattutto – in
una pretattica studiata a tavolino e capace di fare letteralmente saltare
schemi e nervi degli avversari. Mourinho è tutto questo, e molto di
più: il miracolo compiuto ai tempi del Porto è qualcosa di
difficilmente replicabile, il periodo trascorso a Londra rimarrà per
sempre impresso nella memoria di qualunque tifoso del Chelsea,
mentre l‟avventura all‟Inter deve ancora evolversi da „normale‟ –
leggasi, vincere lo scudetto – a „speciale‟ – leggasi, vincere quella
Champions League che proprio il Mago Herrera conquistò, per primo
e ultimo, ormai più di quarant‟anni fa. Il curriculum del portoghese
d‟altronde parla da sé, e non può che far ben sperare i tifosi nerazzurri.
Di lui si è detto e scritto di tutto: che è arrogante, spavaldo,
sbruffone, insensibile, presuntuoso e sopravvalutato da una parte, che
è schietto, coraggioso, innovativo e vincente dall‟altra. Dove sta la
verità? Obiettivo di questa tesi è quello di presentare un ritratto il più
possibile fedele del personaggio, mostrandone luci e ombre, pregi e
difetti, sperando di riuscire a guidare il lettore a formulare un proprio
personale giudizio su quello che è – e qui di dubbi non ce ne sono –
l‟allenatore più discusso e chiacchierato della storia calcistica recente.
A questo punto però mi rendo conto di non aver ancora
pienamente risposto alla domanda iniziale. Perché una tesi su José
Mourinho? Se il motivo fosse solo legato ai successi ottenuti in
panchina, infatti, vi sarebbero tecnici con lo stesso ugual diritto di
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essere studiati (Capello e Guardiola su tutti). Ciò che rende unico
Mourinho è l‟aver rivoluzionato alla radice il sistema-calcio e il modo
in cui esso viene concepito, tanto negli aspetti metodologici quanto in
quelli della comunicazione con i media; nel panorama sportivo attuale,
infatti, solo lui ha il dono – che fu in illo tempore di Re Mida – di
trasformare in „oro mediatico‟ tutto ciò che esterna davanti alle
telecamere. Ogni sua dichiarazione fa più rumore di quella precedente,
tenendo i titoli dei quotidiani occupati per giorni.
Ecco perché ho trovato opportuno limitare l‟analisi a un
intervallo temporale ben definito, che per la precisione va dalla prima
conferenza stampa da allenatore del Chelsea (giugno 2004) al primo
scudetto vinto alla guida dell‟Inter (giugno 2008). Tale scelta deriva
dal fatto che l‟avventura di Mourinho in Inghilterra – in una squadra
che è costantemente sotto l‟occhio dei media – coincide, da un punto
di vista sportivo, con la crescita della fama del tecnico portoghese e,
da un punto di vista letterario, con l‟inizio del „fenomeno Mourinho‟.
Allo stesso modo, i suoi primi dodici mesi trascorsi in Italia sono stati
talmente ricchi di spunti da non rendere necessario attingere dai fatti
della stagione 2009/2010 in corso.
L‟analisi verrà strutturata in due capitoli: nel primo, proverò a
illustrare i motivi caratteriali e metodologici che hanno portato l‟intero
panorama calcistico mondiale a considerare lo Special One come tale;
nel secondo, ne mostrerò l‟appeal mediatico presentando le più
interessanti, clamorose e curiose dichiarazioni e polemiche che lo
riguardano. Nell‟appendice finale, infine, riporterò l‟intervista
concessami da José Mourinho in persona.
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Prima di iniziare, però, trovo tanto indispensabile quanto
doveroso raccontare brevemente la vita e la carriera del Mourinho pre-
Chelsea: il Mourinho che ancora non si autodefinisce Speciale, il
Mourinho che fa la gavetta viaggiando tra Spagna e Portogallo, il
Mourinho che alla fine conduce il Porto sul tetto d‟Europa.
Un curriculum di tutto rispetto
“Un vincente non è mai stanco di vincere e io non voglio perdere mai” 2
José Mário dos Santos Mourinho Félix nasce il 26 gennaio
1963 a Setùbal, un piccolo borgo a pochi chilometri da Lisbona. Il
padre, Félix, è un calciatore professionista: nella sua carriera di
portiere ha difeso i pali del Belenenses e del Vitória Setùbal, arrivando
anche a vestire una volta la maglia della Nazionale.
Come è lecito aspettarsi da ogni „figlio d‟arte‟ che si rispetti,
Mourinho comincia a masticare calcio molto presto. Il suo sogno è
quello di diventare un difensore; il talento, però, stenta a decollare. A
mancare sono potenza ed esplosività, ma ciononostante non demorde,
continua ad allenarsi e, quando il padre appende i guanti al chiodo per
diventare allenatore del Rio Ave (una società della Primeira Liga
portoghese), inizia a seguirlo come riserva della squadra. Anche se
presto si rivela più utile in un altro ruolo: tocca a lui infatti fare le
operazioni di scouting, ovvero studiare gli avversari che il Rio Ave
dovrà affrontare negli incontri successivi.
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http://quotidianonet.ilsole24ore.com/sport/2008/07/16/104952-mourinho_voglio_perdere.shtml
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Un primo, importante episodio nella carriera di Mourinho
accade nel 1982: a 19 anni continua a essere saldamente ancorato alla
panchina del Rio Ave, non riuscendo a guadagnarsi un posto in prima
squadra. Ma proprio alla vigilia della sfida con la capoclassifica
Sporting Lisbona, lo stopper titolare si infortuna: Felix dice al figlio di
prepararsi, perché sarà lui a scendere in campo. Se non fosse che il
presidente José Maria Pinho si oppone all‟idea, intimando
all‟allenatore di non farlo assolutamente giocare, pena il
licenziamento di entrambi (alla fine non giocherà, ma il Rio Ave verrà
comunque sconfitto 7 a 1).
L‟umiliazione è bruciante: Mourinho capisce, in modo
definitivo, che quella del calciatore non può essere la sua carriera. Ma
ciò non significa che debba per forza abbandonare il mondo del
calcio: si iscrive così all‟Isef (Instituto Superior de Educação Física),
dimostrandosi un ottimo studente e diplomandosi in breve tempo.
L‟occasione irripetibile gli si presenta nel 1992, quando Bobby
Robson (ex calciatore, ma soprattutto ex ct dell‟Inghilterra in grado di
portare la sua Nazionale fino alle semifinali di Italia ‟90, scomparso
lo scorso 31 luglio) viene assunto dallo Sporting Lisbona: l‟inglese
cerca subito un interprete che sappia di calcio, e la scelta ricade
proprio su Mourinho, che già allora parlava in modo decente inglese e
spagnolo. L‟esperienza di interprete prosegue due anni dopo, quando
Robson accetta l‟offerta del Porto, ma soprattutto nel 1996, quando a
farsi vivo è addirittura il Barcellona.
Gli anni catalani sono fondamentali nella formazione del
portoghese, che ha l‟opportunità di osservare campioni del calibro di
Luis Figo, Laurent Blanc, Luis Enrique, nonché un giovanissimo – e
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ancora sconosciuto – Ronaldo, e che da semplice interprete diventa
sempre più allenatore in seconda: il suo operato è talmente positivo
che, quando alla guida della squadra viene chiamato l‟olandese Louis
Van Gaal, non solo gli vengono confermate le stesse mansioni di
prima (ovvero fare lo scouting degli avversari, dispensare consigli
tattici e tecnici, aiutare nella preparazione degli allenamenti e, last but
not least, fare anche da interprete…), ma viene inoltre lasciato libero
di sperimentare e di sviluppare una propria identità di gioco sulla
panchina del „Barcellona B‟, la squadra delle riserve che in Spagna
gioca nelle serie minori.
Questo idillio – costellato da due vittorie nella Liga, una Coppa
del Re e una Supercoppa Europea – si conclude nel 2000 quando, al
termine di una stagione negativa, Núñez lascia la presidenza della
squadra e Van Gaal si dimette. Mourinho, in un‟intervista al giornale
portoghese Record, dichiara che quella al Barcellona sarà la sua
ultima esperienza da vice allenatore (“Quando sei stato in questa
posizione al Barcellona, non puoi esserlo per nessun‟altra squadra: ti
sei preparato per essere un primo allenatore”3 sono le parole di
appoggio che riceve da Van Gaal).
Del resto, a 37 anni, è bene iniziare a sentirsi Speciali.
Nell‟autunno di quello stesso anno, Mourinho siede così sulla
panchina del Benfica: è un‟opportunità senz‟altro notevole, non solo
perché è la prima vera esperienza da capo allenatore, ma anche perché
stiamo parlando della società più importante del Portogallo. Che però,
in questo periodo, versa in uno dei periodi peggiori della sua gloriosa
storia: non vince un titolo nazionale dal lontano ‟94 e, se si considera
3 Fabio Alcini, José Mourinho – Lo stile del calcio, 2009, p. 21
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la relativa competitività del campionato portoghese (dei settantacinque
scudetti aggiudicati dal 1934 a oggi, la squadra vincitrice è sempre
stata – salvo che in due uniche occasioni – una tra Benfica, Porto e
Sporting Lisbona) si può ben comprendere il disagio dei tifosi. Sotto
la guida di Mourinho il Benfica dà chiari segni di ripresa, vincendo
anche il derby contro i „cugini‟ – nonché campioni in carica – dello
Sporting, con un rotondo 3 a 0.
L‟avventura a Lisbona però dura solo un paio di mesi: a
dicembre infatti viene eletto presidente Manuel Vilarinho, che in
campagna elettorale aveva promesso di portare Toni (ex giocatore del
Benfica) sulla panchina del club. Mourinho, sentendosi „minacciato‟,
chiede subito un rinnovo del contratto: Vilarinho rifiuta e così, il 5
dicembre, il tecnico si licenzia con effetto immediato.
Ad approfittarne è l‟União de Leiria – la classica squadra „da
centroclassifica‟ – che a gennaio lo assume. Con lui, in appena metà
stagione la piccola società ottiene la sua migliore posizione in
campionato di sempre, il quinto posto, togliendosi pure la
soddisfazione di arrivare due punti davanti allo stesso Benfica.
Nonostante Mourinho venga – ovviamente – confermato alla guida del
Leiria anche per la stagione successiva, è ormai chiaro che il piccolo
palcoscenico di provincia comincia ad andargli stretto: l‟apprendistato
è finito, e i risultati provano che è pronto per un‟avventura di più alto
livello.
Nel gennaio 2002 Mourinho accetta così l‟offerta del Porto, il
club dove otto anni prima era approdato come assistente di Robson. I
„Dragoni di Oporto‟ galleggiano a metà classifica, privi di gioco e
identità: la cura-Mourinho porta nuova vitalità fin da subito, infilando
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la bellezza di undici vittorie e due pareggi [A fronte di due sole
sconfitte, una delle quali è il 3-2 casalingo contro il Beira-Mar del 23
febbraio: si tratta, al momento in cui scrivo, dell‟unica sconfitta
casalinga in campionato di tutta la carriera di Mourinho!] nelle
quindici partite del girone di ritorno, concludendo la stagione con un
dignitoso terzo posto che vale la qualificazione alla Coppa Uefa.
La stagione seguente è incredibile: il Porto si aggiudica il
campionato con ventisette vittorie, cinque pareggi e soltanto due
sconfitte, che valgono il punteggio record di ottantasei punti sui
centodue disponibili. Ma non è tutto: i Dragoni conquistano anche la
Coppa del Portogallo e, soprattutto, la Coppa Uefa, vinta a Siviglia
dopo aver superato per 3 a 2 il Celtic Glasgow. In dodici mesi,
Mourinho ha vinto tutto quello che gli era possibile vincere: e nessuno
poteva immaginare che la stagione successiva sarebbe stata addirittura
migliore…
In estate infatti, la sconfitta in Supercoppa europea inflitta dal
Milan viene alleviata dalla vittoria nella Supercoppa portoghese; per
la seconda volta consecutiva, poi, il Porto si laurea campione di
Portogallo, con – nuovamente – un passivo di sole due sconfitte e una
difesa eccezionale (diciannove le reti subite in trentaquattro incontri).
La conquista aritmetica del titolo con ben cinque giornate di anticipo
permette alla squadra di concentrarsi con tutte le forze sull‟altro fronte
in cui è impegnata: la Champions League.
Arrivati secondi in un girone eliminatorio che li aveva messi di
fronte a Real Madrid, Partizan Belgrado e Olimpique Marsiglia, i
Dragoni devono affrontare agli ottavi di finale il Manchester United.
L‟andata, quella che poi sarà solo la prima di una lunghissima serie di