6
Introduzione
La sfida, la libertà, lo "spreco"
Ciò che rimane, o dovrebbe rimanere, dopo la visione di un film è la
sensazione di aver "abitato", per un certo lasso temporale, all'interno di un
luogo che non è necessariamente quello in cui ci ritroviamo di solito, anzi,
dovrebbe essere propria dell'autore cinematografico la capacità di montare,
assemblare e poi far sì che rimanga in piedi (come un architetto o un
ingegnere) un piano di realtà che, nel suo inevitabile scorrimento, MOSTRI
inaspettatamente una certa verità, che prima alla nostra percezione non si
era svelata. Il cineasta come avventuriero, come diceva Truffaut.
Scrivere di Cassavetes significa anche ripercorrere un modo molto specifico
di fare cinema, che va al di là della denominazione incasellante che la
storiografia critica ha tramandato di "indipendente". Non tanto perché
vogliamo confutare quest'idea, ma perché, oggi come oggi, definire
indipendente un cineasta o un singolo film, può non avere nessuna parentela
con la stessa definizione di cui si può (necessariamente a buon diritto)
fregiare Cassavetes. Come tutti i concetti che circoscrivono un'idea col
tempo rischiano di assumere l'aspetto di cliché o comunque di perdere la
loro originaria radicalità (sempre che ne avessero una), per allargare il loro
campo d'azione a fatti che indeboliscono, nella loro assunzione, l'idea
originaria della cosa. Certo, non si vuole processare nessuno, né istituire
distinzioni di grado, né un'ipotetica scala di valori, ma gettare uno sguardo
su un'esperienza che ha lasciato i suoi segni indelebili su tanto cinema
americano (e non) e che può forse far chiarezza su cosa significhi davvero
7
vivere secondo un'idea che ha comportato enormi difficoltà e richiesto
enormi energie per essere portata avanti, partendo ogni volta da zero e
reinventandosi, di film in film, non solo a livello estetico, cioè nelle scelte
del soggetto, nei modi di ripresa e di montaggio, ma anche a livello di
produzione e di distribuzione. Un’avventura continua.
La scelta è stata inevitabile: l'insoddisfazione prima e il bruciante desiderio
poi, sono stati i due sentimenti che hanno indirizzato Cassavetes verso la
creazione di film che, nell'uno o nell'altro modo, si sono dati come una sfida
all'unico modo in cui, siamo alla fine degli anni '50, si fabbricavano film,
cioè Hollywood. L'attore d'origine greca diplomatosi all'Academy of
Dramatic Arts a New York nel 1953 (perché c'erano tante ragazze, dirà
poi), comincia a lavorare prima in qualche teatro regionale e poi, dopo
qualche anno passato a bussare alle porte di produttori cinematografici e
televisivi, riuscirà ad avere delle piccole parti fino a sfondare nella fiorente
televisione con un’ottantina di ruoli nei migliori produzioni del periodo,
come Alfred Hitchcock presents, Omnibus e Crime in The streets (Delitto
nella strada), da cui riceverà la prima parte importante al cinema, nel film
omonimo diretto dall’amico Don Siegel nel 1956, lo stesso anno di Edge of
the city (Nel fango della periferia) di Martin Ritt interpretato in coppia con
Sidney Poitier. Alla fine del 1955 gli sponsor entrano nelle televisioni
1
, il
tempo si condiziona al denaro e comincia a maturare l’insoddisfazione di
Cassavetes verso le limitazioni personali che coinvolgevano, oltre agli
sceneggiatori e ai registi anche l'utilizzo dell'attore nella drammaturgia, che,
sottoposta al calcolo finanziario era ormai costretta a pre-ordinare tutte le
componenti che concorrevano alla creazione del film al fine di evitare
rischiose perdite. La volontà dei produttori di calcolare in anticipo la
ricaduta economica di ogni dettaglio all'interno del piano di lavorazione del
film e quindi la necessità di dover (in)seguire un sentiero già prestabilito dal
1
Queste informazioni sull’itinerario artistico di Cassavetes sono desunte da: R. Carney,
Cassavetes on Cassavetes, Faber and Faber, Londra, New York 2001, le traduzioni saranno mie.
8
denaro si rispecchiava anche, ad un livello più circostanziato, nell'utilizzo
che era fatto degli attori. L'intolleranza cassavetesiana verso la direzione
attoriale all’interno di quel contesto era l'intolleranza di sapere che esisteva
già una Legge nel loro lavoro impensabile da negare. La delimitazione che
il corpo di chi recitava subiva durante l'atto delle riprese si rivelava sia nel
dover sottostare alla parola scritta in quel Testo ritenuto inviolabile che era
la sceneggiatura (contro il cui primato si scaglieranno le diverse vagues che
nasceranno di lì a poco), sia nella creazione di uno spazio già percorso che
l'attore doveva continuamente rifare nel suo continuo imprigionamento
nelle gabbie che la messa in scena aveva appositamente approntato. Contro
ogni “tipizzazione”, è nel fraintendimento della parola "recitare" che si
gioca la sfida di Cassavetes contro i modi di produzione imperanti. E' la
convinzione che, da attore al quale si prospettava comunque un avvenire di
primo piano, cosa avesse voluto dire girare un film narrativo e quindi
riprendere persone che recitano una parte all'interno di una storia, fosse
vittima di un "complotto" contro il materiale umano a disposizione,
costretto a svilire il proprio lavoro pur di favorire i mezzi tecnici che
dettavano le condizioni dei modi di ripresa
2
. E' uno slittamento delle
responsabilità (per non dire un vero e proprio ribaltamento di prospettive)
che, nella paura dei produttori di perdere soldi dovevano sempre e
comunque andare alla "macchina" (molto più affidabile nella sua
imperturbabilità e immutabilità), che non a chi nella "macchina" è preso al
suo interno (irriducibilmente preda di singolari affetti e uniche
sintomaticità), costretto a recitare non per esprimere una propria autenticità,
ma per ripetere, come una macchina appunto, alienandosi, una storia già
scritta, già vissuta, già vista. Quindi l'attore viene per la prima volta visto
non come mezzo (tra i mezzi a disposizione), ma come fine, nel senso di
2
Thierry Jousse dice che il fascino di Cassavetes in Europa è dovuto anche all’immagine
che quest’ultima amava contemplare: “l’indipendente, spiantato ma pieno di energia, in perenne
lotta con l’enorme macchina capitalistica hollywoodiana.”, in T. Jousse, John Cassavetes, Lindau,
Torino 1997, pag. 5.
9
chiusura e continuo rilancio del senso della rappresentazione, continua
intenzione, che è sempre un’inter-azione.
Cassavetes ha svelato, con la sua intenzione di fare un cinema diverso, ciò
che Deleuze ha chiamato “complotto permanente", e che poi tanta
modernità si premurerà a denunciare:
Lo stesso cinema, come arte, vive in rapporto diretto con un complotto permanente,
una cospirazione internazionale che lo condiziona dall’interno, come il nemico più
intimo, il più indispensabile. E’ la cospirazione del denaro; non è la riproduzione
meccanica, a definire l’arte industriale, ma il rapporto, divenuto intrinseco, con il
denaro. Alla dura legge del cinema, un’immagine di un minuto che costa una giornata
di lavoro collettivo, non c’è che la risposta di Fellini: ”quando non ci saranno più
soldi, il film sarà finito“
3
.
Non che l'attore-regista rifiutasse in blocco tutto il cinema hollywoodiano,
era ben nota la sua ammirazione per Frank Capra e King Vidor, tanto però
da fargli capire che era un cinema impossibile da rifare in quel nuovo
contesto quale erano gli Stati Uniti, e Hollywood, alla soglia degli anni
sessanta. Atteggiamento, anche questo, che s'imparenta con quello, tanto
per citare la più famosa, della Nouvelle Vague francese. E' quindi, come
accennato sopra, nei termini dell'insoddisfazione, del desiderio e della sfida
che si consuma il battesimo registico di Cassavetes.
La ricerca di un senso, cioè la ricerca di un'identità (scippata da Hollywood)
da assumere e da far assumere a chi con lui parteciperà alla genesi dei suoi
film, che non è mai esterna all'attore, ma solo nascosta, molte volte anche in
maniera poi dolorosa da (ri)trovare, dalla convenzionalità che sorregge un
atteggiamento conforme e rassicurante, così come di solito gli stessi attori si
limitano, proprio per nascondere i lati del loro essere che più li potrebbero
mettere a nudo, a "fare pantomime", cioè ad assumere una recitazione
3
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri 1989, pp. 91-92.
10
stereotipata e "truccata". Questioni che forse sembrano esulare da
problematiche specificatamente cinematografiche, che sono tangenti al
teatro e che aprono anche il capitolo dei rapporti che ha avuto col metodo
dell’Actor’s Studio, dato che siamo nel pieno degli anni ‘50, con
l’esplosione di quel tipo recitazione legata alle teorie di Stanislavskij e
diffuse negli Stai Uniti da Lee Strasberg, in cui “il fisico e lo psicologico
sono intimamente legati, come nel teatro dell’epoca.”
4
. Questioni che sono
centrali nell’idea, da attore qual‘era, che Cassavetes aveva del cinema, fino
a manifestare uno sfacciato disinteresse per i problemi di natura tecnica,
anche in maniera violenta
5
. In realtà i rapporti del regista con l’apparato
tecnico sono, come scrive Thierry Jousse, “ambivalenti” - parola chiave per
entrare nella sua opera - senza però dimenticare che ciò che fa da motore
alla realizzazione dei suoi film sono “questioni umane", nel senso più
generale del termine, tanto che durante le riprese ognuno può essere
operatore (sacrilegio della professionalità hollywoodiana!) o prima del
montaggio vedersi assegnare una bobina a caso da montare, come è
successo per Faces. Forse il fascino dei suoi film sta proprio in questo
paradosso di chi sostiene l'assoluta indifferenza al modo di girare una scena
e un risultato così efficace proprio in termini cinematografici e, forse, è
legata a questo anche l'idea che investigare il cinema di Cassavetes è un
attraversamento di categorie che eccedono la volontà di dare un "senso"
unico, perché già esso, nega l'esistenza di un linguaggio codificato pre-
esistente al reale, affermando invece la completa "reversibilità" della realtà
che filma (proprio nei suoi momenti più quotidiani e "banali", come
vedremo). Sguardo “tra le cose”, che lo imparenta col Neorealismo, che
nega l’esistenza di un Valore esterno che possa accumulare unilateralmente
proprio un Senso:
4
Therry Jousse, John Cassavetes, cit., p. 9.
5
“La tecnica, la messa in scena non sono altro che una sorta di prostituzione, che non
m’interessano affatto. Fare un film […] è un’impresa terrificante che merita molto più dell’abilità
tecnica di una prostituta.”, intervista apparsa su i Cahiers du Cinéma, n. 205, ora in S. Arecco,
John Cassavetes, Il castoro cinema, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 3-4.
11
dove le parole, [...], non si cor-rispondono, non si parlano più, recitano, come dice
Foucault, "l'ordine del discorso", che controlla, seleziona, organizza, distribuisce le
parole in modo da scongiurare il pericolo della loro ambivalenza, che non
consentirebbe di padroneggiare il senso fino agli ultimi termini
6
I quattro film da cui prenderemo le mosse, Volti (Faces, 1968), Mariti
(Husbands 1970), Una Moglie (A woman under the influence, 1974) e
L’assassinio di un allibratore cinese (The killing of a chinese bookie, 1978)
pongono in primo piano una certa irriducibilità alla determinazione della
parola, nella loro, inaccettabile al tempo in cui uscirono, ribellione verso un
codice, o una sintesi, che possa prescrivere una volta per tutte un significato
preciso alle immagini. Il non assumere a priori un punto di vista preciso
sulla vicenda, ma lasciare che sia quello dell'attore che recita la sua parte ad
imporsi, è di per sé un atto sovversivo verso la prassi cinematografica
(statunitense) del periodo, il non voler "terminare" il discorso in un unico
senso, dichiarare di non sapere cosa accadrà esattamente nel momento in
cui la cinepresa comincerà a riprendere è un'apertura verso la creazione
improvvisa di istanti irripetibili che possono darsi solo con la più completa
disponibilità da parte dell'attore di immergersi nel flusso emozionale che il
regista ha fatto scaturire, come disse a proposito di Faces: “The emotion
was improvisation. The lines were written.”.
Ecco che allora la pratica filmica di Cassavetes ci appare in tutta la sua
originalità: un maestro di cerimonie che sa riconoscere e riportare il
processo altalenante delle intensità affettive di cui è rivestito il corpo nel
suo continuo essere fuori da sé, nel suo continuo e inevitabile radicamento
(che diventa, per osmosi, anche radicamento della macchina da presa) alla
realtà concreta delle cose, pres-ente, cioè presso l'ente, vicino alla verità,
che non è mai nascosta in significati trascendenti, ma nella vicinanza, nella
6
U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983, pag. 534.
12
relazione tra superfici, cioè tra esteriorità che si danno immediatamente
come tali, quali i corpi dei suoi attori. Un cinema delle emozioni e dei
processi in atto che ripercorre le tappe del rapporto simpatetico che lega la
comunicazione sensoriale al mondo.
Le più grandi creazioni di Cassavetes sono proprio personaggi in lotta col
mondo, presi (ed è questa la più grande dote del regista) nel fluire continuo
di stati d'animo in opposizione tra loro, senza mai poter riuscire a fermare il
loro vivere, presi, nel senso letterale di "take"
7
, nelle maglie di accadimenti
che mettono a dura prova la loro posizione.
Discutere di superfici e discutere di corpi non è altro che fissare un unico
luogo da due prospettive diverse, ma complementari, è notare come il
regista operi un ripristino della sensorialità a svantaggio del "formalismo
della coscienza", per come, abbiamo visto prima, l'ingombrante
sovrastruttura del metodo hollywoodiano non rendesse più conto della
verità del rappresentato. E per Cassavetes il rappresentato e il
rappresentabile gravitano sempre attorno a "The real people".
Il progetto di C. assume quindi anche un lato pedagogico, come Rossellini,
come Godard e Straub
8
: partire da un cinema delle superfici che filma
prima di tutto avventure di corpi in movimento si svela nel proposito di
raccogliere diverse modalità di rapportarsi col mondo, per rimuovere un
sapere legato ad una troppo consolidata fiducia nel pensiero puro, è un
continuo rincorrere quella fondamentale “ambivalenza", unione di sensi
diversi, di differenze, che è anche una tematica legata indissolubilmente al
cinema, nella sua "ambiguità" connaturata all'immagine e al suo statuto di
“enunciabile”, nel suo fluire da uno stato di cose all'altro e al tempo stesso
7
Termine che indica una precisa strategia, se non addirittura un’estetica, che predilige il
momento delle riprese, del contatto diretto con la “materia” a disposizione.
8
Che è poi uno stadio del cinema sviluppatosi nel dopoguerra sintetizzabile con la
domanda: “Posso sostenere con lo sguardo quello che, comunque, io vedo e che si svolge su un
solo piano?”, come ricorda Deleuze in Ottimismo, pessimismo e viaggio. Lettera a Serge Daney, in
S. Daney, Ciné-journal 1981-1986, Biblioteca di Bianco & Nero, Venezia 1999, pag.10, e che
rimanda all’idea di “superficie senza profondità” o di profondità piana, che riprenderemo
all’interno del secondo capitolo.
13
conservare virtualmente e attualizzare, di volta in volta, il passato e il
presente, "Non esistono film al presente, solo i brutti film", scriveva
Godard. Ogni istante conserva la traccia di ciò che è stato e di ciò che
potrebbe essere, il presente contiene sempre il suo passato e presuppone il
suo avvenire: sarà soprattutto nei finali dei suoi film che questa sensazione
s'imporrà con forza nella coscienza dello spettatore. La percezione, il
guardare (che è poi il primo atto del cinema) è esperienza prima di tutto
sensoriale, corporea, fisica e, se come abbiamo detto, il cinema, nella sua
specificità, è un guardare-per-trattenere, per iscrivere e poi mostrare, esso
stesso diventa atto fisico
9
.
Il ring scelto Cassavetes su cui dispiegare la sua personale maniera di fare
film è quello che attualizza ed erge ad operazione sistematica la pratica del
"dispendio"
10
, del concedersi senza riserve, dello spreco anche (in questo è
Mariti il film chiave), ma anche del dono e dello scambio a volte, come
pratica ben precisa di risposta alle sollecitazioni che il confronto con la
realtà di un determinato contesto impone. L'atteggiamento del regista verso
la sua opera si riflette nell'atteggiamento dei personaggi all'interno della
finzione, dai coniugi di Volti, ai tre amici di Mariti, da Mabel Longhetti a
Cosmo Vitelli, tutti passano attraverso la dissipazione, il detour
esistenziale, tutti sono legati da un filo rosso che li stringe assieme nel
gioco della "perdita", di sé e delle proprie certezze, tutti sono chiamati a
rispondere al cambiamento che, improvviso o meno, irrompe nelle loro vite,
sia attraverso un montaggio vertiginoso che scivola tra piani differenti
(Volti), sia attraverso spostamenti di sguardo che scivolano nell‘indefinito
(L’assassinio di un allibratore cinese) così come, pare superfluo dirlo, la
9
J.-L. Comolli definisce “un’arte fisica” il cinema e imparenta i film di Cassavetes con il
burlesco violento, caotico che passa da Chaplin a Laurel e Hardy, fino Tati, in Più vero del vero. Il
cinema di John Cassavetes e l’illusione della vita, a cura di G. Fink, R. Andreucci, L. Mazzei,
Cooperativa Festival dei Popoli, Firenze 1994.
10
Faremo riferimento per questo concetto in particolare a George Bataille, La nozione di
depénse, in La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992 e Jean Baudrillard, Lo scambio
simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979.
14
loro condizione è quella di loser, che tradiscono in ogni loro “gestus” la
tensione a negare che esista UN solo modo di stare al mondo contro chi, sia
familiari come in Una moglie sia mafiosi come in L’assassinio di un
allibratore cinese vuole che si segua un tragitto rigido e soffocante. La
libertà prima di tutto, che per Cassavetes è libertà di non fissarsi in una
situazione definitiva, cioè, ancora una volta di vivere nonostante tutto,
anche se questo si lega ad una “perdita”.
Perdita apparente come vedremo, solo se si usano come paragone metri
economici che la società moderna ha istituito come fondanti la sua stessa
sopravvivenza (dove i valori di riferimento sono il risparmio e l'accumulo),
e che questi film di Cassavetes si pongono di superare, all’interno di
relazioni sociali sempre più complesse e difficoltose.
15
1 LA PERCEZIONE NATURALE COME LIMITE DEL
VISIBILE, OVVERO PAS D’IMAGE JUSTE, JUSTE UNE
IMAGE.
1.1 La macchina da presa vicina all’attore
Una delle peculiarità che caratterizzano il cinema di Cassavetes non è tanto
il fatto che esso è conseguente al suo mestiere d’attore - ci sono stati prima
di lui altri casi famosissimi, come Keaton, Stroheim, Welles, Jerry Lewis,
ecc. - ma che proprio il mestiere d’attore, le sue principali preoccupazioni, i
problemi che si trova a risolvere ogni volta che si avvicina ad una parte
nuova da recitare, tutto ciò che insomma riguarda il campo d’azione di
questa particolare arte, fonda alla base e motiva tutto ciò che Cassavetes ha
girato in qualità di regista.
Filmare è un prolungamento del vostro lavoro d’attore?
Assolutamente. Nei miei primi due film tutta l’équipe era composta da attori. In
Faces, ogni tecnico era un attore. C’erano attori che aiutavano gli altri attori a
interpretare un materiale in tutta libertà poiché non volevano che il cinema fosse solo
un modo di fare soldi.
11
E’ come se il regista Cassavetes sia alle dipendenze dell’attore Cassavetes,
come se durante le riprese, anche quando non è davanti alla cinepresa,
rimanga sempre tra gli attori il suo fantasma, il doppio virtuale, l’immagine
al momento rimossa, come se si assentasse solo per un momento, per
sbrigare una veloce faccenda, ma sentendo che le questioni più importanti
11
Cahiers du cinéma, n. 278, maggio 1978, intervista con Louis Marcorelles.
16
sul set sono sempre e comunque quelle che riguardano gli attori. La sua
frase citata molte volte che si considerava un attore professionista e un
regista dilettante non è semplicemente un altro modo per ammettere che
guadagnava i soldi tramite il suo mestiere d’interprete e non certo con i film
firmati come regista (come Welles del resto), ma è anche una dichiarazione
di poetica personale proprio in qualità di regista che è rimasto attore e che si
è prolungato in quel ruolo perché non c’erano possibilità di recitare se non
con le regole dettate dal business
12
.
Sono i bastardi del business che fanno sentire l'artista un impostore. E’ stato come
quando siamo stati bambini e vogliamo che loro ci approvino, anche se sappiamo che
sono ipocriti e bugiardi e non hanno nessun principio né affetto.
13
Se quindi si parte dalle esigenze degli attori e, diremmo, dalla loro libertà
d‘espressione, allora il movimento che il regista compie è parallelo al
continuo ciclo di “affezioni” che questi devono mostrare, nel loro
imprescindibile impegno a non autocensurarsi, ma a scavare e mettere in
gioco il loro essere autentico. Continuamente pungolati, non da indicazioni
tecniche su come interpretare una determinata scena, - è noto che
Cassavetes non dava mai indicazioni di questo tipo, portando anche
all’esasperazione molti suoi compagni di viaggio: uno su tutti Peter Falk
che nel bel mezzo delle riprese di Mariti, non capendo quasi nulla di cosa
stesse succedendo, scatenò la sua frustrazione sul regista, urlandogli che
non avrebbe mai più fatto film con lui se Cassavetes fosse stato ancora
dietro la macchina da presa: smarrimento che si instilla in pieno nel film
14
.
Usando particolari stratagemmi che potessero metterli nel clima del
particolare momento, come il creare uno stato d’insicurezza ad esempio in
12
Vedi l’Introduzione per i rapporti di Cassavetes attore con l’Establishment.
13
Ray Carney, Cassavetes on Cassavetes, cit., p. 126.
14
Questo e altri aneddoti si possono ascoltare nel documentario di Doug Headline e
Dominique Cazenave Anything for John.
17
Eddie Shaw, l’attore, o meglio, il non-attore, che interpreta il ruolo del Dr.
Zepp in Una moglie, che nella tensione delle riprese tartassava il regista
chiedendo com’era andato, cosa avrebbe dovuto poi fare e in che maniera,
mentre Cassavetes si mostrava rigido e severo. Tutto ciò non ha fatto che
intensificare il turbamento del personaggio all’interno della finzione, nella
scena chiave dove Mabel viene portata poi in manicomio
15
.
Assecondare la libertà dell’attore, quindi ed alimentarla, nel momento in cui
esso è sempre messo davanti ad una situazione per la quale deve trovare
una risposta e alla quale non può sfuggire, responsabilità massima di chi è
coinvolto e “intrappolato” in un teatro della verità che è sempre per
definizione “crudele”. Come filmare allora questa pretesa naturalità, questo
non-recitare, questo inserire completamente il sentire “privato” nel
“pubblico” che è la realizzazione di un film? Trattando l’apparizione di una
verità personale come tale, con gli occhi della scoperta, partendo quindi non
da un punto di vista superiore alla vicenda dando alla macchina da presa
uno statuto di “istanza narrativa” onnisciente, ma radicandola
nell’esperienza stessa della diegesi e trattandola anch’essa come
personaggio, ma personaggio-fantasma, occhio che è inserito nella storia e
che scruta cosa succede per sapere come andrà a finire. E’ quindi in una
situazione di inferiorità che si viene a trovare lo stesso spettatore, che
diventa transitivamente egli stesso il personaggio-fantasma dei film di
Cassavetes, senza avere a disposizione niente in più che la propria
(“mimata” dalla cinepresa e quindi con tutti i diaframmi del caso)
percezione naturale.
15
Per una avere maggiori dettagli sul modo di gestire gli attori da parte del regista
rimandiamo a Ray Carney, Cassavetes on Cassavetes, cit.