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invece, è apparso per la prima volta su “Le Nouvel Observateur”, in un saggio
firmato da Michel Bosquet (molto probabilmente pseudonimo di André Gorz), nel
febbraio del 1979 (1).
La disoccupazione in Europa, salvo che per un breve intervallo di tempo che va
dal 1987 al 1989, è andata costantemente crescendo per circa venti anni. Le
previsioni dei prossimi anni, d’altro canto, non sono affatto confortanti. La
disoccupazione di massa, ormai è diventata il problema preponderante di questa
decade.
Due decenni fa, la disoccupazione europea era saldamente ancorata a valori che
oscillavano tra il 2% e il 3%. C’era, in quel periodo, lavoro sufficiente quasi per tutti
e la profonda crisi degli anni trenta - che aveva privato del posto di lavoro circa 25
milioni di lavoratori - sembrava un episodio isolato, non eguagliabile. Per una intera
generazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, le economie dei paesi
occidentali furono in grado di offrire sia posti di lavoro, sia salari capaci di
assicurare ai lavoratori un potere d’acquisto costantemente crescente (1a).
Tuttavia, sin dai primi anni Settanta, le economie dell’America del Nord e
dell’Europa occidentale non sono riuscite a mantenere quel livello di prosperità.
Negli Stati Uniti il problema riguarda essenzialmente i salari: la maggior parte
delle persone che cerca lavoro trova occupazione, ma i salari offerti, in molti casi,
sfiorano la soglia limite del livello di povertà. Nel vecchio continente, invece, i
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salari sono diminuiti, in confronto, molto meno, ma la disoccupazione di lungo
termine è permanentemente aumentata.
Dunque, è proprio sul finire degli anni ottanta che si comincia a parlare di Jobless
growth, di una crescita, cioè, di posti di lavoro insignificante rispetto all’aumento
del prodotto interno lordo.
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2./ Le Esperienze Empiriche.
Il tasso di crescita dei posti di lavoro in Europa è stato così basso che gli
economisti hanno coniato un termine apposito: Eurosclerosi (2). Una misura di
questo fenomeno può riscontrarsi prendendo in considerazione il tasso di
disoccupazione, che rappresenta il numero di persone disoccupate come percentuale
delle forze lavoro. Nel 1994, secondo l’Eurostat (ufficio statistico dell’Unione
Europea), la situazione in Europa è stata la seguente:
Tabella 1. Crescita e Disoccupazione in Europa.
PAESE DISOCCUPAZ. % INCREM. % PIL ‘93 PIL ‘94 (*)
Italia 12,0 0,8 - 0,7 1,6
Olanda 10,1 0,6 nd nd
Portogallo 6,2 0,6 nd nd
Lussemburgo 3,5 0,6 nd nd
Francia 11,3 0,1 - 1,0 1,9
Germania 6,2 0,1 - 1,2 2,3
Gran Bretagna 8,8 - 1,4 2,0 3,3
Danimarca 9,5 - 1,2 nd nd
Irlanda 17,5 - 0,8 nd nd
Spagna 22,1 - 0,6 nd nd
( fonte: Eurostat, novembre 1994; Banca d’Italia)
(*) Previsioni FMI, World Economic Outlook e, per l’Italia, Relazione previsionale e programmatica.
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Come rivelano queste statistiche, spetta all’Italia il record all’interno della Ue di
crescita dei disoccupati. Significativo, però, è anche il fatto che il trend della
disoccupazione non è uniforme per tutti i paesi. Infatti, tra novembre 1993 e
novembre 1994, si è registrato un aumento significativo della disoccupazione, oltre
che in Italia, anche in Olanda, Portogallo e Lussemburgo. L’incremento in Francia e
in Germania, invece, è stato molto contenuto (solo lo 0,1%); e, addirittura, il numero
dei senza lavoro è sceso nello stesso periodo in Gran Bretagna, in Danimarca, in
Irlanda e in Spagna. Grazie ai risultati di questi ultimi Paesi, la media europea è
leggermente calata dal 10,8% nel 1993 al 10,7% nel 1994. Nonostante ciò, il
numero dei disoccupati rimane stazionario attorno ai 17 milioni di persone; cifra
questa che illustra in modo abbastanza eloquente la situazione europea.
Se si prendono in considerazione i paesi dell’OCSE, si arriva alla strabiliante
cifra di 35 milioni di senza lavoro (3), andando dal 2,75% del Giappone e dal circa
6% degli Stati Uniti al 10,7% dell’UE sopra menzionato (4). Questi dati
rappresentano un enorme spreco di risorse umane e riflettono un non trascurabile
grado di inefficienza all’interno del sistema economico, considerando il fatto che
tutti i paesi europei hanno visto crescere il loro Pil nell’ultimo anno.
La disoccupazione ha una componente ciclica, che diminuisce quando l’economia
comincia a dare segnali di ripresa, e una componente strutturale, che di regola non
diminuisce con la crescita economica. Per questa ragione la disoccupazione non è un
ostacolo se permane solo per un breve periodo. Il problema sorge quando la
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disoccupazione, insensibile alla ripresa economica, perdura nel lungo termine; ed è
qui dove il fenomeno dell’Eurosclerosi è più evidente: nel 1992 i disoccupati di
lungo periodo (il che equivale alla percentuale delle forze lavoro disoccupate per più
di trenta settimane) erano l’1,2 % delle forze lavoro statunitensi, mentre lo stesso
tasso nei paesi dell’Unione Europea era dalle quattro alle sette volte più alto (5).
Tale divario è ancora più accentuato se si considerano le forze lavoro disoccupate
per più di un anno: solo lo 0,3 % negli USA rispetto a tassi che variano dal 3 % al
5,6 % nei paesi membri della Ue.
Passando ad analizzare il benessere economico, P. Krugman (6) osserva che,
rispetto ai primi anni Settanta, lo standard di vita è quasi raddoppiato negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, è triplicato in Francia ed è quasi quadruplicato in Italia e
nell’ex Germania Federale. La disoccupazione negli Stati Uniti, al principio di
quella decade, aveva raggiunto il suo minimo storico e gli europei potevano vantare
un tasso ancora più basso. Inoltre i benefici derivanti dal progresso economico erano
condivisi dalla maggior parte della popolazione di questi paesi: il tasso di povertà,
infatti, si era drammaticamente ridotto.
In Europa, i tassi di disoccupazione nei paesi che oggi compongono l’Unione
Europea erano quasi tutti al di sotto del 3% all’inizio degli anni Settanta; nel 1993
erano pari, in media, a valori superiori all’ 11%. Quasi la metà dei senza lavoro
europei è stata disoccupata per almeno un anno.
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Ciò che è più sorprendente è che le economie occidentali sono considerabilmente
più ricche, in termini assoluti, oggi rispetto a venti anni fa; infatti, tra il 1970 ed il
1990 le entrate pro capite sono aumentate del 38 % negli USA e del 53 % in
Francia.
Quindi, questo è il rebus: le economie occidentali sono più produttive e, dunque,
più ricche di prima; tuttavia la miseria economica - sotto forma sia di povertà che di
disoccupazione permanente - ha mostrato un costante peggioramento nel lungo
periodo. Come è possibile tutto ciò?
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3./ La Letteratura Economica.
La recente evoluzione dell’andamento dei tassi di crescita economica e di
disoccupazione ha stimolato gli economisti del lavoro ad elaborare modelli
economici e teorie che, in qualche modo, spieghino le cause di questo interessante
fenomeno. Si sono così venuti a delineare tre filoni teorici:
a) Teorie dell’isteresi
b) La legge di Okun e le sue rivisitazioni;
c) La teoria della crescita endogena.
Una prima linea teorica che tenta di spiegare la Jobless growth è quella
riconducibile alle teorie dell’Isteresi. Isteresi è un termine che le scienze sociali ed
economiche hanno preso “in prestito” e fatto proprio dalle scienze fisiche. L’isteresi
in fisica, infatti, è “il fenomeno che presenta una grandezza quando la sua
variazione in funzione di un’altra non è perfettamente reversibile” (R. Brunetta, R.
Turatto, 1992). In altre parole, se si prende in considerazione un flusso di corrente
che passa attraverso una resistenza, una volta riaperto il circuito, si rileverà,
all’interno della resistenza, il permanere di una certa quantità di elettricità.
L’esempio, naturalmente, è quello di un “non addetto ai lavori”, tuttavia esso è utile
a dare l’idea di path-dependence - per dirla alla Blanchard-Summers (7) - ovvero di
una irreversibilità nel processo fisico che impedisce, alla variabile modificata, di
ritornare allo status quo ante, una volta cessata l’applicazione di una forza
modificatrice. In economia si definiscono teorie dell’isteresi quelle che fondano le
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loro argomentazioni sull’idea che il tasso di disoccupazione di equilibrio dipende
dalla storia dell’attuale tasso di disoccupazione; cioè che il tasso di disoccupazione
attuale è funzione dei tassi di disoccupazione passati e di come essi si siano formati.
Seguendo questa impostazione, si può arrivare ad affermare che, una volta
modificata la variabile tasso di disoccupazione per via di una fase recessiva del ciclo
economico, essa, cessata la crisi, non sarà in grado di ritornare ai valori antecedenti
la recessione. Si ha isteresi, quindi, ogniqualvolta il verificarsi di un evento
determina una dinamica irreversibile: ogni volta che un fenomeno lascia
un’impronta - una memoria - nell’evoluzione di un sistema, siamo di fronte ad un
fenomeno isteretico. I sostenitori di questa linea teorica, per la quale il tasso di
disoccupazione dipende dalle sue passate evoluzioni, concludono che “una manovra
restrittiva di politica economica, mirante a riportare sotto controllo la dinamica dei
prezzi, avrà per effetto un aumento del tasso di disoccupazione, a fronte del quale
non si attuerà alcun processo di riequilibrio nel lungo periodo” (R. Brunetta, R.
Turatto, 1992). All’interno di questo approccio si distinguono due diverse
impostazioni: le membership rules e le duration theories (O. J. Blanchard, L. H.
Summers, 1987).
Le prime si basano sulla distinzione tra insiders e outsiders (8). Gli insiders sono
i lavoratori già inseriti nel processo produttivo, addestrati e coalizzati contro gli
outsiders. Gli outsiders sono i lavoratori disoccupati o coloro che lavorano altrove.
L’impresa non può sostituire, senza costi, i propri lavoratori con altri; può farlo solo
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sopportando dei costi di avvicendamento (turnover costs) che possono identificarsi
in :
1) Costi di addestramento (training costs);
2) Costi creati dalla legislazione in vigore in materia di licenziamento (firing
costs);
3) Costi derivanti dall’ostruzionismo e dal rifiuto degli occupati (insiders) di
cooperare, all’interno del processo produttivo, con i nuovi assunti (entrants);
4) Costi sostenuti per individuare i lavoratori più adatti, nonché costi derivanti dal
rischio che, assumendo nuovi lavoratori, la loro produttività possa essere inferiore a
quella dei lavoratori licenziati.
L’esistenza di tali costi genera una rendita che viene, almeno in parte, catturata
dagli insiders attraverso aumenti salariali e maggior potere contrattuale. Nella
misura in cui tali incrementi non superano questa rendita, gli imprenditori non
avranno alcun incentivo ad assumere lavoratori outsiders, i quali si trovano nella
impossibilità di esercitare una pressione verso il basso sui salari.
Dimostrato, dunque, che i salari sono in gran parte determinati dagli insiders, tali
teorie giungono alla conclusione che questa rigidità salariale provoca
disoccupazione involontaria e, quindi, insensibile al divenire del ciclo economico.
Le duration theories, dal canto loro, si basano sulla distinzione tra disoccupati di
breve e di lungo periodo, per giungere al risultato che i disoccupati di lungo
termine esercitano solo una piccola pressione sulla determinazione dei salari.
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L’ipotesi di fondo, infatti, è quella secondo cui più un lavoratore è disoccupato più
egli perderà
il suo capitale umano, i suoi skills . Inoltre, più il lavoratore vede il suo capitale
umano deteriorarsi, più è scoraggiato dal cercare lavoro, poiché è disoccupato da
molto tempo (è questa l’ipotesi del lavoratore scoraggiato).
Una aggravante di questa situazione, viene ad essere il fatto che le imprese
preferiranno assumere il lavoratore che è disoccupato da minor tempo, piuttosto di
un disoccupato di lungo periodo - e questo in virtù della suddetta perdita di capitale
umano a cui quest’ultimo è soggetto. A tutto questo va ad aggiungersi il fatto che, in
fase di ripresa delle assunzioni da parte delle imprese, entrano tra le forze lavoro
attive, cioè tra coloro che si dichiarano disposti a lavorare, anche persone che prima
non appartenevano a questa categoria della popolazione(per esempio molte donne
sposate), incoraggiate dal clima di ottimismo che, di regola, segue la ripresa
economica. Questi nuovi entranti sul mercato del lavoro, non possono che aggravare
la situazione dei disoccupati di lungo periodo, facendo sì che le aspettative dei
disoccupati di rimanere tali aumentino in modo più che proporzionale rispetto al
loro periodo di inattività.
Questa situazione di autoaggravamento, ovvero di non reversibilità della
condizione di disoccupati di lungo periodo, come quella cui si riferiscono le teorie
insider-outsider, è un tipico fenomeno isteretico che tenta di spiegare la Jobless
growth.
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L’idea che disoccupazione e PNL siano strettamente correlati all’andamento del
ciclo economico è associata con una regola empirica che va sotto il nome di legge di
Okun (9).
L’analisi di Okun (1962), partendo da un’indagine empirica sui tassi di
disoccupazione e di crescita del PNL degli Stati Uniti, arriva a determinare quanta
occupazione aggiuntiva provoca un incremento nel PNL. Formalmente l’equazione
di Okun è la seguente:
P = A [ 1 + 0,032 ( U - 4 ) ]
dove P è il PNL potenziale in termini reali (cioè il livello di PNL corrispondente
ad un tasso di disoccupazione del 4 %); A è il PNL reale effettivo e U è il saggio di
disoccupazione. Riscrivendo l’equazione in termini di divergenza tra PNL effettivo
e PNL potenziale, si ottiene:
P - A = 0,032 ( U - 4 )
Okun viene a scoprire, così, che negli USA esiste un rapporto di tre a uno tra il
livello del PNL ed il tasso di disoccupazione. Detto in altre parole, se il PNL reale
effettivo (A) è inferiore al suo livello potenziale (P), il PNL può essere aumentato
allo scopo di assorbire parte della disoccupazione. Questo risultato, però, ha validità
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relativa, poiché nel periodo in cui Okun ha ottenuto la sua equazione, il saggio di
disoccupazione negli USA è oscillato tra il 3 % e il 7,5 %, per cui non è possibile
utilizzare questa relazione al di fuori di questo intervallo.
Tale limitatezza di validità è ancor più rafforzata da studi recenti, i quali hanno
dimostrato che all’aumentare del livello del PNL il tasso di disoccupazione
aumenta. A questa conclusione, infatti, giungono, sia pure con risultati diversi, le
analisi di M. Paldam (1987) e di Henin-Jobert (1990) (10) riguardanti i principali
paesi dell’OCSE.
Riguardo questi recenti risultati econometrici, la posizione dell’economista
americano R. Dornbusch (1993) (11) è molto critica. La sua analisi, infatti,
ribadisce il paradigma keynesiano, secondo il quale la disoccupazione aumenta
quando non c’è crescita economica. L’economista del MIT, infatti, afferma che la
disoccupazione in Europa diminuirà solo quando il PIL dei vari paesi crescerà
abbastanza. Si precisa che questa crescita dovrebbe essere superiore al 2,5 %-3 %
annuo. Ogni decremento di un punto percentuale nel tasso di crescita si traduce in
un aumento di un punto e mezzo del tasso di disoccupazione. Quindi, la crescita di
un punto nelle economie europee nel 1994, significherà un punto percentuale
aggiuntivo al saggio di disoccupazione.
Un ultimo approccio teorico al problema della jobless growth è rappresentato
dalle analisi di Aghion-Howitt e Bean-Pissarides (12) nell’ambito della teoria della
crescita endogena (che si approfondirà nel capitolo 7). Un aumento del tasso di
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crescita dell’economia fa aumentare il valore attualizzato dei profitti futuri delle
imprese, rendendo conveniente a queste ultime aprire posti di lavoro vacanti, i quali,
in ultima istanza, riducono la disoccupazione. Questa “catena keynesiana” è definita
dall’analisi di Aghion e Howitt (1991) effetto di capitalizzazione. Tuttavia, esso non
è necessariamente l’unica conseguenza di una rapida crescita. Infatti, quando
l’incremento della produttività avviene attraverso una “distruzione creativa”(così la
definiscono i due economisti nel loro studio ) di posti di lavoro con un basso tasso di
produttività - e con la loro conseguente sostituzione ad opera di quelli più produttivi
- si ha un riflusso di lavoratori che vanno ad ingrossare le file dell’esercito dei senza
lavoro. E’ evidente, quindi, che questo effetto di riallocazione opera in una
direzione opposta all’effetto di capitalizzazione. Partendo da questa ipotesi
l’approccio di Aghion e Howitt giunge alla dimostrazione che l’effetto di
riallocazione prevale quando si è in presenza di deboli tassi di crescita, mentre
l’effetto di capitalizzazione domina quando i tassi di crescita dell’economia sono
abbastanza consistenti.
Questo tipo di letteratura individua una componente causale che va in una sola
direzione dalla crescita alla disoccupazione . Diventa, così, possibile giungere alla
conclusione che la relazione tra disoccupazione e crescita economica può essere sia
una funzione positiva che una funzione negativa, essendo l’andamento in una o
nell’altra direzione strettamente dipendente dall’effettivo tasso di crescita
economica. Tuttavia si può svolgere l’analisi della jobless growth anche in senso
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opposto, vedendo la disoccupazione come causa di un’insufficiente tasso di crescita
economica; ed è proprio secondo questo framework che si muove l’analisi di Bean-
Pissarides (1992). Infatti, se è vera l’ipotesi del learning-by-doing, allora un’alta e
prolungata disoccupazione comporterà un effetto negativo sulla crescita. Questa è,
appunto, l’ipotesi secondo la quale una certa letteratura ( quella rifacentesi alle
teorie dell’isteresi, (che si esamineranno più dettagliatamente nel capitolo 6)
identifica la perdita di skills attraverso una prolungata inattività come una causa
significativa del permanente alto tasso di disoccupazione in Europa.
Tuttavia, Bean e Pissarides, riescono a dimostrare che, anche senza questa ipotesi
di fondo, un alto tasso di disoccupazione può avere un effetto negativo sulla crescita
economica, poiché riduce la variabile macroeconomica dei risparmi, fondamentale
per alimentare gli investimenti, sia in termini di capitale fisico e/o umano, sia in
termini di attività creative di apprendimento ( “knowledge-creating activities”).